Piattaforme di diagnosi in ematologia

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INTRODUZIONE

 

La diagnosi in ematologia oggi è più complessa rispetto al passato e si avvale di tecniche e innovazioni tecnologie diverse e differenziate che devono essere reciprocamente integrate nel percorso diagnostico (McKenna RW, 2000). In presenza di un sospetto di neoplasia ematologica le indagini diagnostiche devono seguire una sequenza razionale per ottimizzare tempi e risorse al fine di soddisfare i requisiti diagnostici necessari per classificare il paziente secondo le più recenti linee guida internazionali, come attualmente sono quelle proposte dalla Classificazione WHO a partire dal 2008 (Swerdlow SH et al, 2008; Swerdlow SH et al, 2016). Inoltre, l’attuale esigenza di ottenere informazioni biologiche specifiche di quel contesto diagnostico per stratificare il paziente anche in termini di prognosi, rende il percorso ancora più articolato e complesso, anche perché non tutte le tecniche diagnostiche sono armonizzate tra i diversi laboratori e/o non sono disponibili in tutti i centri. Obiettivo di questo capitolo è la descrizione di una sequenza diagnostica razionale ed efficiente a beneficio dei pazienti e dei clinici. Nei capitoli specifici per patologia verranno dettagliatamente illustrate quelle ulteriori indagini che, oltre agli aspetti diagnostici, andranno a valutare per quello specifico paziente, quelle peculiarità biologiche che lo rendono passibile di trattamenti terapeutici mirati.

 

ANALISI DEL SANGUE PERIFERICO

 

Esame emocromocitometrico

 

Nella maggior parte dei casi, il primo approccio alla diagnosi del paziente è rappresentato dall’analisi del sangue periferico che viene oggi effettuato da analizzatori ematologici dedicati di ultima generazione i quali, a prescindere dalla tecnologia utilizzata, in meno di un minuto forniscono in completa automazione un referto emocromocitometrico completo di formula leucocitaria. L’evoluzione delle tecniche automatiche di analisi delle cellule del sangue, iniziata da meno di mezzo secolo, è stata continuativa ed ha trasformato in maniera radicale la realtà operativa del laboratorio di ematologia. Le tecnologia originali sviluppate per il conteggio cellulare sono state perfezionate per ottenere la misurazione sia delle dimensioni delle cellule, con parametri medi e istogrammi di distribuzione, che di altre diverse proprietà chimiche e fisiche, che ne permettono la classificazione in popolazioni distinte. L’esame emocromocitometrico si è trasformato in un profilo ematologico completo, comprendente misurazioni quantitative dirette e indici da esse derivati, che informano sulle proprietà dei globuli rossi, delle piastrine e dei leucociti. Sono inoltre disponibili per tutte e tre le linee cellulari nuovi parametri strumentali , utili per valutare proprietà e/o anomalie di linea con allarmi e/o con specifiche segnalazioni, ai fini di un orientamento pre-microscopico.  Nelle Figure 1-4 vengono riportati i referti normali di sangue periferico ottenuti con quattro differenti tecnologie (Abbott Cell-Dyn SapphireBeckman Coulter Serie LHSiemens ADVIA2120Sysmex XE2100 ).
Quando i parametri del referto emocromocitometrico rientrano nei valori di normalità per età, sesso e razza (Dacie and Lewis, 2006), in assenza di una specifica richiesta clinica, l’esame viene validato senza eseguire ulteriori approfondimenti diagnostici. Nella Tabella 1 sono riportati i valori di riferimento ematologici del sangue periferico di un adulto e di un bambino di età compresa tra i 6 e i 12 aa sano, secondo i dati della letteratura.

 

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Tabella I: Valori di riferimento ematologici del sangue periferico di un adulto e di un bambino di età compresa tra i 6 e i 12 aa sano, secondo i dati della letteratura.

 

Striscio di sangue periferico

 

In presenza di alterazioni di tipo quantitativo e/o qualitativo dell’esame emocromocitometrico e/o in presenza di allarmi strumentali, è necessario allestire uno striscio di sangue periferico, colorato con colorazioni panottiche ed esaminato al microscopio ottico. L’allestimento, la colorazione e l’osservazione al microscopio di uno striscio di sangue periferico (Figure 5-8) devono essere effettuati secondo regole e standard presenti nelle linee guida internazionali (ICSH, 1984). L’osservazione al microscopio di uno striscio di sangue deve seguire un percorso sistematico, che comincia con l’ispezione di tutto il preparato con un obiettivo a bassa risoluzione (x10) per valutare nello striscio sia gli aspetti di qualità della distribuzione delle cellule, come la eventuale presenza di aggregati piastrinici (Figura 9), leucocitari o leuco-piastrinici (Figura 10), di agglutinati eritrocitari (Figura 11), di rouleaux (Figura 12). La presenza di cellule patologiche a bassa frequenza che potrebbero sfuggire al conteggio differenziale perché localizzate sui bordi o sulla coda dello striscio, deve essere accuratamente ricercata in questa fase; inoltre, anche la presenza di una matrice proteica di fondo (Figura 12), spesso causa di alterazioni del referto strumentale, deve essere sempre attentamente vagliata.

 

 

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Fig.1                                             Fig.2                                             Fig.3                                         

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Fig.4                                             Fig.5                                             Fig.6    

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Fig.7                                             Fig.8                                             Fig.9

 Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_10Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_11Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_12

Fig.10                                            Fig.11                                            Fig. 12

Figura 1. Referto strumentale Abbott Cell-Dyn Sapphire – Figura 2. Referto strumentale Beckman Coulter Serie LH – Figura 3. Referto strumentale Siemens ADVIA2120 –  Figura 4. Referto strumentale Sysmex XE – Figura 5. Sangue periferico: un neutrofilo ed un eosinofilo – Figura 6. Sangue periferico: un linfocita – Figura 7. Sangue periferico: un monocita. Sulla destra tra i globuli rossi si osserva una piastrina di grandi dimensioni – Figura 8. Sangue periferico: un basofilo – Figura 9. Sangue periferico: aggregato piastrinico (artefatto in vitro) – Figura 10. Sangue periferico: aggregato leuco-piastrinico (artefatto in vitro) – Figura 11. Sangue periferico: Anemia emolitica autoimmune in paziente con SLP alla diagnosi. Si osservano ovunque ammassi di globuli rossi – Figura 12. Sangue periferico: impilamento dei globuli rossi (rouleaux). Si notano sul fondo gli archi di precipitazione della matrice proteica.

 

Si prosegue poi ad esaminare lo striscio con un obiettivo ad alta risoluzione (x50 o x100) sia per valutare dettagli morfologici di tutte le linee cellulari che per eseguire una conta differenziale. Il riscontro di alterazioni morfologiche prevalenti nella serie eritroide rappresenta spesso il primo passo di uno percorso diagnostico mirato: la presenza di parassiti intracellulari (Figura 13) per la diagnosi di malaria, il riscontro di schistociti (Figura 14) per la diagnosi di Microangiopatia trombotica, di sferociti (Figura 15) o ellissociti (Figura 16) per la diagnosi di anemie emolitiche congenite, di falci (Figura 17) per la diagnosi di anemia falciforme, di dacriociti (Figura 18) espressione di eritropoiesi in midollo con fibrosi ovvero di eritropoiesi extramidollare, rappresentano solo alcuni esempi di caratteristiche morfologiche che rimandano a specifiche diagnosi (Bessis M, 1972; Bessis M, 1976).Anche le alterazioni morfologiche delle piastrine devono essere accuratamente esaminate: in presenza di un conteggio basso di piastrine, deve essere categoricamente esclusa la presenza sullo striscio di aggregati piastrinici (Figura 9) causa di falsa piastrinopenia (pseudopiastrinopenia); in presenza di piastrinopenia vera con piastrine giganti devono essere ricercate le inclusioni leucocitarie (Figura 19) che, se presenti, fanno orientare la diagnosi verso forme familiari congenite. La presenza in circolo di micromegacariociti ovvero di nuclei nudi deve essere sempre riportata, perché indicativa di presenza di danno midollare, sia primitivo che secondario.
Negli esami di routine la formula leucocitaria si esegue su 100 cellule nucleate, mentre in un contesto di diagnostica onco-ematologica la conta differenziale sul sangue periferico deve essere eseguita su 200 elementi. Questa differenza di conteggio, ha il suo razionale nell’analisi del coefficiente di variazione di un risultato rispetto all’atteso e al numero degli eventi contati, come evidenziato nella Tabella 2 dove sono riportate le tavole di distribuzione statistica (Rümke C L, 1977) ed ha come scopo quello di produrre un risultato il più possibile accurato e preciso nel momento della diagnosi morfologica.

 

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Tabella II: Limiti di confidenza al 95% per un valore atteso di una popolazione cellulare (colonna a), rispetto al numero degli elementi contati (colonne n). E’ evidente che swpecialmente per basse frequenze, aumentare il numero degli eventi registrati aumenta la precisione e l’accuratezza del dato.

 


Le alterazioni quantitative dei leucociti, usualmente fornite dal referto generato in automazione dagli analizzatori cellulari, possono interessare una o più linee cellulari e possono manifestarsi come valori in eccesso (citosi) e/o in difetto (citopenie). Un caso particolare è l’eosinofilia .

Le alterazioni qualitative, quasi sempre suggerite sotto forma di allarme dagli analizzatori, devono essere attentamente ricercate al microscopio ottico in tutte le linee cellulari. In presenza di blasti è sempre necessario eseguire una colorazione citochimica per la mieloperossidasi per confermare l’appartenenza alla linea granulocitica (Figura 20); blasti otticamente negativi alla mieloperossidasi (Figura 21) possono comunque risultare appartenenti alla  linea granulocita quando vengono analizzati con la determinazione dell’immunofenotipo. L’esecuzione della citochimica per le esterasi non specifiche (Figura 22) è fondamentale per identificare blasti appartenenti alla linea monocitica. La colorazione con il Blu di Toluidina identifica le granulazioni basofile (Figura 23), grazie alle loro caratteristiche metacromatiche. Sulla base delle caratteristiche cellulari morfologiche e citochimiche è possibile classificare gran parte delle cellule circolanti anomale: nei casi in cui le cellule patologiche si presentino indifferenziate sia dal punto di vista morfologico che citochimico, la loro identificazione sarà possibile soltanto con la determinazione dell’immunofenotipo.
La valutazione del sangue periferico sia in termini qualitativi che quantitativi svolge un ruolo chiave per il paziente ematologico non soltanto al momento della diagnosi, ma in tutte le fasi della malattia, comprese quelle del trattamento terapeutico e dei controlli longitudinali.

 

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Fig.13                                            Fig.14                                            Fig. 15

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Fig.16                                            Fig.17                                            Fig. 18

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Fig.19                                            Fig.20                                            Fig. 21

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Fig.22                                            Fig.23                                            Fig. 24

Figura 13. Sangue periferico: All’interno della emazia centrale sono visibili 3 forme anulari di Plasmodium Falciparum – Figura 14. Sangue periferico di un paziente affetto da PTT: sono visibili tre schistociti e rari microsferociti – Figura 15. Sangue periferico di un paziente affetto da sferocitosi – Figura 16. Sangue periferico di un paziente affetto da ellissocitosi – Figura 17. Sangue periferico di un paziente affetto da Anemia falciforme: sono evidenti due emazie a falce (o semiluni) – Figura 18. Sangue periferico di un paziente affetto da MFI: si osservano diversi dacriociti – Figura 19. Sangue periferico di un paziente affetto da S. di Sebastian. Si osserva una piastrina gigante (in basso a sinistra) e un corpo di Döhle periferico nel neutrofilo in basso (punta di freccia) – Figura 20. Sangue periferico di un paziente affetto da LMA con differenziazione: i blasti sono positivi alla reazione citochimica per la mieloperossidasi (MGM, sn; MPX, dx) – Figura 21. Sangue periferico di un paziente affetto da LMA scarsamente differenziata: si osserva un eosinofilo positivo alla reazione citochimica per la mieloperossidasi (MGM, sn; MPX, dx) – Figura 22. Sangue periferico di un paziente affetto da LMA monoblastica: i blasti sono positivi allea colorazione citochimica per le esterasi non-specifiche (MGM, sn; α-naftil-acetato esterasi, dx) – Figura 23. Mast cellula (MGM, sn; Blu di Toluidina, dx) – Figura 24. Sangue midollare: effetto della diluizione con SP a volumi differenti sul conteggio delle cellule nucleate (Dresch C, 1974)

 

Agoaspirato midollare

 

L’esecuzione dell’agoaspirato midollare trova precise indicazioni in quasi tutte le neoplasie ematologiche e viene in genere eseguito sulla base di un esame emocromocitometrico alterato e/o francamente patologico. Il Comitato Internazionale per la Standardizzazione in Ematologia (ICSH) ha pubblicato nel 2008 (Lee SH, 2008) un documento contenente le indicazioni per l’esecuzione (Tabella 3) e le modalità di refertazione di questo esame, in accordo con il documento WHO 2008. Uno dei punti cruciali rimane l’aliquota di sangue midollare utlizzata per eseguire gli strisci: un preparato per essere rappresentativo della reale distribuzione cellulare midollare deve essere allestito con la prima aliquota prelevata dal midollo osseo, aliquota che deve essere compresa tra 0,2-0,5 ml. Al di sopra di questa quantità la contaminazione con sangue periferico impedisce la produzione di un mielogramma rappresentativo, come ben rappresentato nel lavoro di Dresch et al, 1974 (Dresch C, 1974) (Figura 24).  Il preparato di agoaspirato può essere allestito sia per apposizione con delicato schiacciamento dei frustoli midollari che per striscio dei frustoli midollari. Con la prima metodica si ottiene una buona valutazione della cellularità, dei megacarociti, delle cellule a bassa frequenza e/o della presenza di eventuali raggruppamenti cellulari focali:  tuttavia con questo allestimento i dettagli delle cellule risultano meno evidenti. I preparati allestiti, una volta essiccati, vengono colorati con colorazioni panottiche standard. Una quota di vetrini deve essere sempre fissata in vapori di formalina per consentire,  qualora fossero necessari ulteriori approfondimenti, l’esecuzione di specifiche colorazioni citochimiche.

 

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Tabella III: Indicazioni per eseguire l’analisi del midollo osseo, secondo le linne guida dell’ICSH (Lee SH, 2008).

 

L’osservazione dello striscio di agoaspirato midollare deve iniziare a piccolo ingrandimento (x10, x20), a partenza dalle zone con frustoli per la valutazione della cellularità (Figura 25), dei megacariociti (Figura 26), delle cellule a bassa frequenza ovvero della eventuale presenza di ragguppamenti cellulari atipici (Figure 27 e 28). In considerazione della variabilità inerente questa metodica diagnostica, è consigliabile esaminare almeno due vetrini dello stesso paziente.
Per eseguire il mielogramma, si devono utilizzare obiettivi a maggior ingrandimento (x40, x50, x100), mentre per una ottimale valutazione qualitativa e per la identificazione dei dettagli cellulari è opportuno utilizzare sempre un obiettivo x100. In presenza di preparati non idonei per tipo di allestimento e/o per scarsa composizione cellulare e/o per contaminazione da sangue periferico, la valutazione deve essere di tipo qualitativo/descrittivo perché il mielogramma potrebbe essere poco significativo perchè scarsamente rappresentativo della reale composizione midollare. Nella Figura 29 è riportato un algoritmo decisionale basato su un approccio sistematico all’esame del’agoaspirato, che tiene conto delle possibili variabili dei preparati (d’Onofrio G, 1988).
Il mielogramma deve essere eseguito su un conteggio di 500 elementi nucleati e deve includere le seguenti cellule: blasti,  promonociti, promielociti, mielociti, metamielociti, neutrofili a banda, neutrofili segmentati, monociti, eosinofili, basofili, mastcellule, precursori eritroidi, linfociti e plasmacellule (Figure 30-34). I megacariociti (Figura 35) e le cellule dello stroma (Figure 36-39) non sono inclusi nel conteggio del mielogramma. E’ sempre importante escludere la presenza di amastigoti di  Leishmania che possono presentarsi sia liberi extra-cellualri (Figura 40) che all’interno dei macrofagi (Figura 41).

 

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Fig.25                                            Fig.26                                            Fig. 27

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Fig.28                                            Fig.29                                            Fig. 30

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Fig.31                                            Fig.32                                            Fig. 33

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Fig.34                                            Fig.35                                            Fig. 36

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Fig.37                                            Fig.38                                            Fig. 39

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Fig.40                                            Fig.41                                            Fig. 42

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Fig.43                                            Fig.44                                            Fig. 45

Figura 25. Agoaspirato midollare normale di un adulto:  l’osservazione di più frustoli a piccolo ingrandimento consente una valutazione semiquantitativa della cellularità – Figura 26. Agoaspirato midollare normale di un adulto:  l’osservazione di più frustoli a piccolo ingrandimento permette di valutare la serie megacariocitica, in termini di quantità, qualità e distribuzione: nella immagine sono presenti 2 megakariociti normali – Figura 27. Agoaspirato midollare di una paziente con metatasi di K mammario: si osserva un nido di cellule di derivazione non emopoietica (x10) – Figura 28. Agoaspirato midollare di una paziente con metatasi di K mammario: si osserva un nido di cellule di derivazione non emopoietica (x100) – Figura 29. Algoritmo decisionale basato su un approccio sistematico all’esame del’agoaspirato, che tiene conto delle possibili variabili dei preparati (d’Onofrio G, Zini G, 1996) – Figura 30. Agoaspirato midollare normale di un adulto: elementi della serie granulocitica, eritroide e linfocitica, da includere nel conteggio per eseguire il mielografia – Figura 31. Agoaspirato midollare normale di un adulto: elementi della serie granulocitica, eritroide e linfocitica, da includere nel conteggio per eseguire il mielografia – Figura 32. Agoaspirato midollare normale di un adulto: elementi della serie granulocitica, eritroide e linfocitica, da includere nel conteggio per eseguire il mielografia – Figura 33. Agoaspirato midollare normale di un adulto: elementi della serie granulocitica, eritroide e linfocitica, da includere nel conteggio per eseguire il mielografia – Figura 34. Agoaspirato midollare normale di un adulto: elementi della serie granulocitica, eritroide e linfocitica, da includere nel conteggio per eseguire il mielografia – Figura 35. Agoaspirato midollare normale di un adulto: un megacariocita – Figura 36. Agoaspirato midollare normale di un adulto: un macrofago – Figura 37. Agoaspirato midollare normale di un adulto: una cellula reticolare – Figura 38. Agoaspirato midollare normale di un adulto: un osteoblasto – Figura 39. Agoaspirato midollare normale di un adulto: un osteoclasto – Figura 40. Agoaspirato midollare normale di un soggetto con infezione di Leishmania Donovani:  un amastigote extra-cellulare – Figura 41. Agoaspirato midollare normale di un soggetto con infezione di Leishmania Donovani:  due amastigoti  all’interno di un macrofago – Figura 42. Agoaspirato midollare normale di un adulto: colorazione di Perls (x10): depositi marziali nello stroma – Figura 43. Agoaspirato midollare normale di un adulto con aumentati depositi marziali: colorazione di Perls (x100): depositi marziali nello stroma – Figura 44. Agoaspirato midollare di un adulto con aumentati depositi marziali: colorazione di Perls (x100): siderociti (in alto) e un sideroblasto – Figura 45. Agoaspirato midollare di un paziente con LMA con t(8;21)(q22;q22): si noti il corpo di Auer singolo e filiforme.

 

Per la valutazione dei depositi marziali si allestisce la colorazione citochimica di Perls con il Blu di Prussia e si ricercano sia i depositi marziali nello stroma (Figure 42-43) che all’interno di siderociti e sideroblasti (Figura 44).
Nella  Classificazione WHO 2008 (Swerdlow SH et al, 2008) vengono forniti precisi criteri morfologici qualitativi e quantitativi da applicare nel contesto diagnostico di neoplasia mieloide. La percentuale dei blasti nel SP e nel MO rimane un cardine diagnostico non solo al momento della diagnosi, ma anche nei controlli successivi e nella valutazione di progressione di malattia. La determinazione citofluorimetrica non deve essere usata come sostituto della quantificazione dei blasti al microscopio: la determinazione dei blasti con metodiche immunoistochimiche rimane tuttavia molto utile e indispensabile nella biopsia osteomidollare per individuare le cellule CD34+ nei pazienti con midollo ipoplastico e/o fibrotico. La percentuale del 20% di blasti rimane un valore discriminante tra la diagnosi di leucemia acuta (LA) e sindrome mielodisplasticale (MSD). Fanno eccezione le leucemie acute con le seguenti alterazione citogenetiche ricorrenti: LMA con t(8;21)(q22;q22) (Figura 45), LMA con inv(16)(p13.1;q22) o (16;16)(p13.1;q22) (Figura 46) e la Leucemia acuta a promielociti (LAP) con t(15;17)(q22;q12) (Figura 47): in queste forme la diagnosi di leucemia mieloide acuta (LMA) può essere posta anche in presenza di una percentuale di blasti <20%. Nel conteggio dei blasti vanno inclusi sia quelli agranulati che quelli con granulazioni di variabile entità all’interno del citoplasma (Figura 48), monoblasti (Figura 49) e megacarioblasti (Figura 50). Gli eritroblasti (Figura 51), devono essere inclusi nel conteggio dei “blasti” solo nella Leucemia eritroide pura. I promonociti (Figura 52), devono essere inclusi nel conteggio dei “monoblasti” nel contesto diagnostico di LMA monoblastica/monocitica/mielomonocitica. I piccoli megacariociti displastici (Figura 53) e i micro-megacariociti (Figura 54), non devono essere contati come blasti. Nella Leucemia acuta a promielociti, i promielociti abnormi (Figura 47) sono conteggiati come blasti. In un contesto diagnostico di SMD, ciascuna linea mieloide per poter essere definita “displastica” deve presentare aspetti morfologici inequivocabili di displasia almeno nel 10% di elementi di linea nel MO, mentre nel contesto diagnostico di LMA con alterazioni displastiche correlate, la percentuale di cellule displastiche deve raggiungere almeno il 50% degli elementi per singola linea cellulare. Lealterazioni morfologiche che individuano una cellula come diseritropoietica sono le seguenti: estroflessioni nucleari (Figura 55), ponti internucleari (Figura 56), carioressi (Figura 57), multinuclearità (Figura 58), nucleo polilobulato (Figura 59), alterazioni megaloblastiche (Figura 60), vacuolizzazioni citoplasmatiche (Figura 61), sideroblasti ad anello (Figura 62), abnorme PAS positività degli eritroblasti (Figura 63). Nella serie granulocitica,  le alterazioni morfologiche che individuano una cellula come displastica sono le seguenti: variabilità delle dimensioni cellulari (Figura 64), ipolobularità nucleare/pseudo Pelger (Figura 65), ipersegmentazione nucleare (Figura 66), granulazioni abnormi a tipo pseudo Chediak Higashi (Figura 67), ipogranularità/assenza di granulazioni (Figura 68), presenza di corpi di Auer (Figura 69). Le alterazioni morfologiche che definiscono un megacariocita come displastico sono: morfologia di micro-megacariocita (Figura 54), ipolobularità nucleare (Figura 70) e multinuclearità (Figura 71).

 

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Fig.46                                            Fig.47                                            Fig. 48

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Fig.49                                            Fig.50                                            Fig. 51

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Fig.52                                            Fig.53                                            Fig. 54

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Fig.55                                            Fig.56                                            Fig. 57

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Fig.58                                           Fig.59                                            Fig. 60

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Fig.61                                            Fig.62                                            Fig. 63

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Fig.64                                            Fig.65                                            Fig. 66

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Fig.67                                            Fig.68                                            Fig. 69

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Fig.70                                            Fig.71    

Figura 46.  Agoaspirato midollare di un paziente con LMA inv(16)(p13.1;q22), associata alla presenza di una componente eosinofila – Figura 47. Agoaspirato midollare di un paziente con LAP t(15;17)(q22;q12): si notano i numerosi corpi di Auer – Figura 48. Quattro blasti: due agranulati (sopra) e due granulati (sotto) – Figura 49. Un monoblasto – Figura 50. Due megacarioblasti – Figura 51. Eritroblasti in un paziente con Leucemia eritroide pura (M. di Di Guglielmo) – Figura 52. Tre promonociti – Figura 53. Due piccoli megacariociti displastici – Figura 54. Tre micro-megacariociti – Figura 55. Diseritropoiesi: estroflessioni del nucleo – Figura 56. Diseritropoiesi: ponti internucleari – Figura 57. Diseritropoiesi: carioressi – Figura 58. Diseritropoiesi: multinuclearità – Figura 59. Diseritropoiesi: nucleo polilobulato – Figura 60. Diseritropoiesi: alterazioni megaloblasti che – Figura 61. Diseritropoiesi: vacuolizzazioni citoplasmatiche – Figura 62. Diseritropoiesi: sideroblasti ad anello – Figura 63. Diseritropoiesi: abnorme PAS positività degli eritroblasti – Figura 64. Displasia della serie granulocitica: variabilità delle dimensioni cellulari – Figura 65. Displasia della serie granulocitica:  ipolobularità nucleare/pseudo Pelger – Figura 66. Displasia della serie granulocitica: ipersegmentazione nucleare – Figura 67. Displasia della serie granulocitica: granulazioni abnormi a tipo pseudo Chediak Higashi – Figura 68. Displasia della serie granulocitica: ipogranularità/assenza di granulazione – Figura 69. Displasia della serie granulocitica: presenza di corpi di Auer – Figura 70. Displasia della serie megacariocita: ipolobularità nucleare – Figura 71. Displasia della serie megacariocita:  multinuclearità.

                                      

ANALISI CITOFLUORIMETRICA

 

L’analisi citofluorimetrica è una tecnica diagnostica automatizzata applicata a cellule sospese in fase fluida basata su un sistema ottico a luce laser che consente la simultanea identificazione delle caratteristiche cellulari di dimensione, complessità e fluorescenza. Il citofluorimetro è composto da tre sistemi integrati che rendono possibile l’analisi cellulare: il sistema idraulico permette il trasporto delle cellule in fase liquida fino al punto incidente del raggio laser; il sistema ottico è costituito dai fasci di luce laser che inducono i fluorocromi ad emettere fluorescenza e da appositi sistemi a conduzione ottica che permettono alla fluorescenza emessa di raggiungere gli apparati rilevatori; il sistema elettronico è costituito da fotorilevatori che convertono la luce in segnali elettronici proporzionali che vengono digitalizzati, processati ed inviati ad un computer dove i dati sono immagazzinati ed elaborati per l’ analisi. Le cellule allo stato nativo sono capaci di emettere fluorescenza, per cui, in assenza di fluorocromi, l’interazione della luce laser con le cellule permette di descrivere parametri fisici come il Forward Scatter (FSC), dipendente dalle dimensioni e dall’indice di refrazione delle cellule e il Side Scatter (SSC), dipendente dalla granularità o complessità interna delle cellula. FSC ed SSC possono essere utilizzati per identificare differenti popolazioni cellulari nel sangue periferico, nel sangue midollare ovvero in altri liquidi biologici. Gli anticorpi monoclonali (AbMo) invece permettono di caratterizzare le differenti popolazioni cellulari sulla base di specifici antigeni presenti sulla membrana citoplasmatica cellulare (immunofenotipo). Gli AbMo utilizzati in citofluorimetria sono coniugati a fluorocromi, molecole funzionali in grado di emettere fluorescenza se eccitati da una sorgente luminosa. Il fluorocromo è una molecola capace di assorbire l’energia luminosa ad una determinata lunghezza d’onda e di emetterla ad una lunghezza d’onda più ampia. Ciascun fluorocromo è pertanto caratterizzato da uno spettro d’eccitazione (lunghezza d’onda che ecciterà il flurocromo) e da uno spettro di emissione (lunghezza d’onda con cui viene emessa energia luminosa dal fluorocromo).
L’analisi dell’immunofenotipo permette la classificazione delle cellule in termini sia di differenziazione (linea di appartenenza) che di livello di maturazione: applicata all’analisi di cellule patologiche, questa tecnica ne consente quindi la definizione, in termini di linea, di stadio differenziativo e di clonalità.
Nell’ambito delle leucemie mieloidi acute (LMA), l’analisi citofluorimetrica svolge un ruolo diagnostico fondamentale in tutte le forme morfologicamente indifferenziate, consentendo di distinguere, per esempio, una popolazione leucemica mieloide scarsamente differenziata da una leucemia linfoblastica acuta (LLA), ovvero di individuare una popolazione leucemica megacarioblastica o eritroide. Inoltre, la presenza di particolari pattern antigenici può suggerire la presenza di specifiche alterazioni molecolari o citogenetiche ricorrenti associate a una forma di LMA. Nelle patologie linfoproliferative (SLP), questa tecnica è di elezione perché consente non solo di riconoscere caratteristiche cellulari delle sottopopolazioni linfocitarie, ma, sulla base dell’espressione e dell’intensità antigenica, permette di stabilire il livello differenziativo e funzionale della popolazione cellulare analizzata.
La determinazione dell’immunofenotipo di una popolazione deve seguire un percorso sistematico che inizia con un’indagine di primo livello, che utilizza un pannello di pochi e selezionati AbMo per la immediata definizione della linea cellulare di appartenenza della popolazione patologica. Successivamente la diagnosi viene finalizzata nell’ambito di un’ indagine di secondo livello che utilizza una selezione più ampia di marcatori.
Il Gruppo Europeo EGIL ha evidenziato un pannello di 27 antigeni necessari per diagnosticare una leucemia acuta e di 23 per lo studio delle SLP. L’impiego di un pannello più esteso di marcatori viene utilizzato per meglio caratterizzare il fenotipo patologico, soprattutto allo scopo di evidenziare la presenza di antigeni aberranti, particolarmente utili in una fase successiva della malattia per la ricerca della Malattia Minima Residua (MMR).
Sulla base dell’immunofenotipo, le leucemie acute possono caratterizzate e suddivise nei seguenti sottotipi: LLA B-lineare (B-I, B-II, B-III, B-IV, in base al livello si differenziazione), LLA T-lineare (T-I, T-II, T-III, T-IV), LMA minimamente differenziata, LMA con differenziazione granulocitica e/o monocitica, LMA a promielociti (LAP), LMA eritroide, LMA megacarioblastica, e le leucemie acute a precursori della cellula dendritica, a precursori basofili e a precursori mastocitari. Inoltre, in fase diagnostica, bisogna prendere in considerazione, anche se rare, le LA a fenotipo misto, caratterizzate dalla presenza di antigeni di linea mieloidi e linfoidi nella stessa popolazione oppure dalla coesistenza di due distinte popolazioni di blasti di almeno due differenti linee emopoietiche. Nell’ambito delle neoplasie linfoproliferative, l’esame citofluorimetrico è attualmente considerato il “gold standard” diagnostico per l’identificazione della popolazione linfocitaria patologica con l’analisi del sangue periferico, midollare, agoaspirato di linfonodo o di altri fiuidi biologici (Bené MC et al, 2011; Basso G et al, 2001).

 

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Fig.72                                            Fig.73

Figura 72. Identificazione dei cluster delle differenti popolazioni cellulari utilizzando CD45/SSC.  E’ inoltre evidente  la cosidetta Bermuda area che contiene oltre alle cellule staminali e i blasti leucemici eventualmente presenti, anche i basofili e le cellule dendritiche plasmocitoidi (Matarraz S. et al. Clin  Cytometry 2010) – Figura 73. In questo caso di Leucemia acuta a fenotipo misto  B/mieloide, la popolazione R1 è rappresentata da blasti che esprimono marcatori B e marcatori mieloidi: CD34/TdT/Cd79a/CD19/ MPO/CD13.  (Matutes E. et al. Blood 2011). Si può notare la rilevanza del pannello di marcatori utilizzato per lo screening, per l’immediata identificazione delle leucemie acute a fenotipo misto

 

Indagini citofluorimentriche di primo livello nella Leucemia Acuta

 

Nella diagnosi di primo livello si utilizza un pannello ristretto di AbMo per ottenere precise indicazioni sulla linea cellulare da studiare. Il marcatore CD45 (cosidetto pan-ema) associato con il SSC viene usato come riferimento perché identifica le popolazioni dei monociti maturi, dei granulociti, dei linfociti e dei precursori eritroidi (Borowitz MJ et al, 1993)-. Le popolazioni rimanenti, presenti nell’area CD45dim/SSC basso-intermedio (comunemente indicata come Bermuda-area perché può contenere all’interno le più svariate cellule immature) (Fig.72), sono in genere normali cellule emopoietiche immature ovvero popolazioni di blasti, come quelle presenti nella maggior parte delle LA (Matarraz S et al, 2010).
Al fine di individuare la popolazione patologica bisogna sempre valutare il pattern di fluorescenza della medesima rispetto alla popolazione presente nello stesso campione, ma risultata negativa per i marcatori testati. Il primo pannello di anticorpi di una indagine di primo livello è costituito dai seguenti marcatori citoplasmatici e nucleari (nomenclatura internazionale): cCD3, cCD79a, mieloperossidasi (MPO) e TdT. Nella normale differenziazione cellulare il CD3 e CD79a citoplasmatici identificano uno dei primi eventi che si manifestano dopo il reclutamento di un progenitore verso la linea cellulare T o B, rispettivamente. Quindi utilizzando questi marcatori precoci, la popolazione di blasti di una LLA viene identificata come appartenente alla popolazione linfocitaria T o B. L’enzima mieloperossidasi (MPO) è invece presente nelle cellule mieloidi, ed è quindi espresso nella maggior parte delle LMA, mentre è sempre assente nelle LLA. A questo livello di indagine diagnostica bisogna comunque prendere in considerazione il fatto che anche le LMA con differenziazione minima ed alcune LMA monocitiche risultano MPO negative. La TdT, deossiribonucleotidil transferasi terminale, è un enzima di riparazione del DNA ed è sempre presente nel nucleo dei blasti linfoidi B ed in alcuni casi di LMA immature (Arnoulet C et al, 2010; Lucio P et al, 1999). E’ però assente nei linfomi quindi permette di differenziare queste due entità, le LLA e le malattie linfoproliferative.
Un altro marcatore che deve essere valutato in questa fase è il CD19, che identifica uno dei primi antigeni di differenziazione della linea B: in associazione con il  CD79a e la TdT permette di identificare i blasti linfoidi della linea B. Tuttavia quando è presente da solo, può assumere una valenza diagnostica differente perché può essere espresso in maniera isolata anche da blasti delle LMA.
La ricerca del marcatore CD3 sulla superficie cellulare è fondamentale perché l’assenza di CD3 nella popolazione patologica associata alla presenza di cCD3, è caratteristico delle LLA-T.
Per studiare la linea mieloide si utilizzano i due marcatori CD13 e CD33 che, insieme con la MPO, ed in assenza di marcatori linfoidi-associati, permettono di identificare la popolazione dei blasti come LMA. Bisogna ricordare che il riscontro di una co-espressione di marcatori linfoidi-associati come CD79a, cCD3 e TdT deve indurre a prendere in considerazione la diagnosi di leucemia acuta a fenotipo misto (Fig.73) (Matutes E et al, 2011).
Infine, tra i marcatori dell’indagine citofluorimetrica di primo livello, il marcatore di immaturità CD34, presente nelle cellule staminali normali, è anche molto frequentemente espresso dai blasti delle LA.

 

Indagini citofluorimetriche di secondo livello nella Leucemia Acuta

 

Nell’ indagine di secondo livello si valuta un nuovo pannello di marcatori, non utilizzati in quello della indagine di primo livello, ma ad esso associati per finalizzare la diagnosi di LA: in pratica con il pannello di primo livello si identifica la linea cellulare mentre con quello di secondo livello si ottengono specifiche informazioni sul livello di differenziazione e sullo stadio maturativo del clone leucemico: LMA indifferenziata, minimamente differenziata, indifferenziata, con differenziazione granulocitica, LMA promielocitica, monocitica e/o monoblastica, eritroide, megacariocitica, LLA B-I, B-II, BII, B-IV, T-I, T-II, T-III, T-IV etc..
Nello studio delle LMA, accanto al CD34, un altro marcatore di immaturità che identifica la serie mieloide immatura e che si riscontra in circa il 75% delle LMA è il CD117, chiamato anche “c-kit”, che costituisce il recettore per il fattore di crescita delle cellule staminali, detto anche stem cell factor (SCF). Esso è normalmente presente sulle cellule staminali, su alcuni precursori emopoietici midollari e sui mastociti maturi. L’antigene HLA-DR (MHC classe II) è espresso sulle cellule staminali e può quindi essere di aiuto nell’identificare LA indifferenziate: è tuttavia espresso anche nelle LMA con differenziazione granulocitica (Figg.74 e 75) o monocitica, eccetto che nella LMA a promielociti (LAP) (Fig.76) (Bené MC et al, 2001) e nelle B-LLA. Il CD14 è raramente presente sui blasti nelle LMA, ma può essere osservato in alcuni casi con differenziazione mielo-monocitica. Nella maggior parte dei casi il CD14 è utilizzato per differenziare i blasti dai monociti normali: infatti entrambe le popolazioni esprimono il CD33 e CD13, mentre il CD14 è espresso dai monociti normali. Il CD65 ed il CD15 appaiono precocemente nei blasti orientati in senso granulocitico: il CD65 sembra essere più specifico perché il CD15 può essere espresso sia dai blasti di alcune LLA-B, sottotipo B I, che nelle popolazioni a differenziazione mielo-monocitica insieme al CD65. Il CD15 è comunque utile come completamento diagnostico nell’identificare LMA con differenzazione granulocitica o monocitica, oltre ad essere di aiuto nel separare i rimanenti neutrofili maturi. La glicoproteina CD11b è espressa fisiologicamente nella serie granulocitica dallo stadio di promielocita e nella serie monocitica dallo stadio di monoblasto, identificando insieme alla glicoproteina CD11c, i blasti differenziati in senso granulocitico (fatta eccezione per la LAP) o monocitico . Un altro antigene studiato per la serie granulocitica è il CD16, recettore a bassa affinità per il frammento cristallizabile delle IgG (Fc gamma III), presente in meno del 25% delle LMA a differenziazione granulocitica; bisogna porre particolare attenzione alla positività per il CD16 nelle LA, data la espressione del medesimo nelle LA a differenziazione dendritica. Entrambi i marcatori CD11b e CD16 possono essere utilizzati anche per caratterizzare i neutrofili maturi dalle restanti popolazioni cellulari. Il CD11b in combinazione con il CD64 (recettore per il frammento Fc gamma I delle IgG) identifica molto bene il compartimento monocitico (Bené MC et al, 2011; Orfao A et al, 2004).
Per meglio studiare le leucemie a cellule dendritiche (CDe), accanto al già citato CD16, un ruolo importante è rappresentato dal CD56, molecola di adesione delle cellule neurali, espresso fisiolologicamente dai linfociti natural killer (NK), da un subset di linfociti CD8 ed alcune volte dai monociti attivati. Nell’ambito delle leucemie a CDe il Cd56 è generalmente espresso in associazione al CD4, anche se tale fenotipo non è riscontrato sistematicamente in tutte le neoplasie plasmocitoidi a CDe e necessita di un marcatore più specifico come il CD123 per finalizzare la diagnosi (Fig. 77) (Bené MC et al, 2003). Il CD123, recettore per l’IL-3, caratterizza il sottogruppo di LA a cellule staminali e nei rari casi in cui la LA si associa a basofilia, il CD123 associato a negatività per HLA-DR identifica questo compartimento.
Nei casi di LA a differenziazione eritroide, i marcatori utilizzati per studiare il compartimento di questa serie sono il CD235 (glicoforina A), il CD36 (recettore per la trombospondina) e il CD71 (recettore per la transferrina) marcatore di attivazione presente in una larga percentuale di questo sottogruppo di LA. Bisogna porre attenzione però all’interpretazione del CD36 poiché presente anche nelle LA a differenziazione monocitica o megacariocitica.
L’identificazione delle LA a differenziazione megacariocitica va effettuata con lo studio delle integrine piastriniche di membrana o citoplasmatiche (CD41/gpIIb o CD61/gpIIIa). Particolare attenzione va posta nell’interpretazione di queste positività perché spesso le piastrine aderiscono ai blasti nelle LMA e creano falsi positivi (Betz SA et al, 1992).
Nel percorso diagnostico citofluorimetrico di secondo livello delle LLA, devono essere studiati altri antigeni per identificare lo stadio maturativo e funzionale del clone leucemico. Accanto al CD19 ed al CD79a, già utilizzati nello screening di primo livello, è indispensabile il CD10 che identifica la LLA “common” (sottotipo B-II) e che è presente nella maggior parte delle LLA dell’infanzia e in numerose LLA dell’ adulto (Figg. 78 e 79). Il CD10 si trova anche in una parte delle LLA B-III, nei linfomi non Hodgkin B-maturi, incluso il linfoma di Burkitt, ed alcune LLA-T. E’ importante ricercare la presenza della catena immunoglobulinica µ intracitoplasmatica che, in assenza di catena immunoglobulinica di superficie, contraddistingue lo stadio pre-B della LLA B-III. L’ espressione delle catene leggere di superficie o intracitoplasmatiche caratterizza una stadio più maturo di LLA (B-IV), spesso correlato al linfoma di Burkitt. In aggiunta utilizzando CD22 e CD38, che vengono espressi precocemente nei precursori B, è possibile differenziare i linfoblasti dagli ematogoni (Fig.80) (McKenna RW et al, 2001). Nell’ambito dell’identificazione degli elementi cellulari di linea T, accanto alla TdT, rivestono un ruolo fondamentale il CD7 e il CD2, che appaiono precocemente nel corso della maturazione midollare dei linfociti T ed identificano gli stadi più immaturi di LLA (T-I e T-II), mentre il CD5 insieme al CD1a definisce la LLAT-III, coespressi insieme a CD4 e CD8. Lo stadio più maturo della LLA-T (T-IV) è invece contraddistinto dalla presenza del CD3 con il CD4 oppure il CD8, in assenza del CD1a.

 

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Fig.74                                            Fig.75                                            Fig. 76

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Fig.77                                            Fig.78                                            Fig. 79

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Fig.80                                            Fig.81

Figura 74. Pattern di espressione antigenica di una Leucemia Acuta Mieloide con scarsa differenziazione: CD34,CD13 e MPO positiva, CD15 eCD33 negativa (cortesia di A.Orfao) – Figura 75. Pattern di espressione antigenica di una Leucemia Acuta Mieloide con differenziazione con caratteristica espressione di CD19 ed anomala espressione di CD15 nella popolazione blastica maggioritaria (rosso) (cortesia A.Orfao) – Figura 76. Caratteristico pattern di espressione antigenica di una Leucemia Acuta a Promielociti: CD45 e CD117 positiva, HLA-DR e CD11b negativa (cortesia di A.Orfao) – Figura 77. La popolazione blastica esprime CD123/HLA-DR/CD4/CD56: questo è il pattern antigenico caratteristico della leucemia acuta dendritica plasmocitoide (cortesia di A.Orfao) – Figura 78. Fig.78a E’ possibile identificare tre sottopopolazioni di linfociti B CD19 positivi: popolazione 1 (verde) CD22/CD34/TdT/CD38/CD10bright (pro-B), popolazione 2 (rosso) CD22/CD20 eter /CD10dim/CD38/TdT neg/CD34neg  (pre-B ), popolazione 3 (verde) CD22/CD20/CD10 neg/CD38 neg/TdT neg/CD34neg (linfociti maturi) (Lucio P. et al. Leukemia 1999 – Figura 79. Anormale distribuzione di linfoblasti B (rosso) in LLA rispetto alla distribuzione dei linfociti normali (grigio) (Lucio P. et al. Leukemia 1999) – Figura 80. I linfoblasti (rosso) presentano un anormale espressione di CD22Eter e CD10bright rispetto agli ematogoni (viola) CD22Omog/CD34neg (Mc Kenna et al. Blood 2001) – Figura 81. Screening per patologia linfoproliferativa: confronto tra un pattern di espressione normale per k/λ nella popolazione CD19 (citogrammi superiori) ed un pattern di espressione patologico con clonalità per la catena λ nella popolazione CD19 (citogrammi inferiori) (cortesia di A.Orfao).

 

Indagini citofluorimentriche di primo livello nelle Malattie Linfoproliferative

 

Nel sospetto di malattia linfoproliferativa, l’immunofenotipo utilizzato in uno screening di primo livello deve servire a stabilire la presenza di clonalità dei linfociti e a definirne la linea cellulare. Lo studio del fenotipo può essere eseguito su sangue periferico, midollo osseo, sospensioni cellulari di biopsie linfonodali, liquido ascitico e cerebrospinale.
Nell’intento di stabilire la clonalità nei linfociti B si valuta il pattern di espressione delle catene leggere K e λ e si valuta la eventuale presenza di un alterato rapporto, come accade in condizioni patologiche clonali (Fig. 81): in genere un rapporto k/λ superiore o uguale a 3/1 viene considerato sufficiente per proseguire l’approfondimento diagnostico citofluorimetrico. Per studiare la linea cellulare interessata è sufficiente studiare il CD19, che contraddistingue le malattie linfoproliferative di linea B, il CD3 per la linea T e il CD56 per le cellule NK. Naturalmente la combinazione di tali marcatori con il CD45/SSc, permette una migliore identificazione del clone patologico rispetto ai linfociti normali sia in termini quantitativi che di dimensioni. Nell’ambito delle malattie linfoproliferative T, facendo un’analisi specifica sulla popolazione linfocitaria CD3 positiva utilizzando gli AbMo CD4 ed CD8, l’orientamento diagnostico diviene più specifico. Nello studio delle forme B deve essere sempre incluso il CD5, fisiologicamente espresso nella quasi totalità dei linfociti T (eccetto per i linfociti ϒδ) e nei linfociti maturi B del centro germinativo, che caratterizza alcune forme  linfoproliferative come la leucemia linfatica cronica B (LLC-B), il linfoma mantellare ed in alcuni casi anche i linfomi della zona marginale.

 

Indagini citofluorimentriche di secondo livello nelle Malattie Linfoproliferative

 

Una volta evidenziata la natura clonale della linfocitosi e la linea cellulare interessata, si procede con un’analisi di secondo livello per finalizzare il percorso diagnostico. A tale scopo è necessario utilizzare marcatori aggiuntivi come il CD23 che, quando coespresso con il CD5, conferma la diagnosi di LLC-B (Fig.82). La valutazione di altri antigeni, come il CD22 ed CD79b normalmente ipoespressi o assenti nella LLC-B, è necessaria per una maggiore accuratezza diagnostica. Altri marcatori molto importanti sono il CD10 e il CD38, i quali identificano nella popolazione B-clonale, il linfoma follicolare, il linfoma di Burkitt, la maggioranza dei linfomi diffusi a grandi cellule ed il linfoma linfoblastico-B (Fig.83).
Nella diagnosi differenziale delle Malattie Linfoproliferative è anche utile l’analisi del CD20, che compare normalmente con un’intensità di espressione debole nei linfociti midollari allo stadio di linfocito pre-BII e aumenta intensità di espressione con la maturazione. Generalmente la LLC-B presenta un’ intensità di espressione debole, a differenza delle altre patologie clonali B che mostrano una intensità forte di questo AbMo. Marcatori addizionali nello studio delle forme clonali B sono il CD43 ed  il CD200 che sono iperespressi in alcune patologie, come la LLC ed in una parte dei linfomi della zona marginale: l’analisi con questi marcatori contribuisce ad una migliore differenziazione con il linfoma mantellare che non esprime il CD200. Anche il CD81 che generalmente agisce in congiunzione con il CD19, appare downregolato con lo stesso CD19  nella LLC-B (Zeppa P et al, 2004).
Nell’ambito delle malattie linfoproliferative T, l’assenza di CD7 in un clone che esprime CD4 indirizza la diagnosi verso il linfoma cutaneo sindrome di Sézary. Qualora fosse espresso anche il CD10 sul clone CD4 positivo deve essere considerata la diagnosi differenziale con il linfoma T angioimmunoblastico (Lee PS et al, 2003; Stacchini A et al, 2007).
Per la conferma di clonalità di patologia T assume una importanza rilevante lo studio dei recettori di superficie T (αβ o ϒδ) ed in particolare la valutazione delle specificità Vβ che permette di identificare circa  l’80% del repertorio delle forme TVβ (Fig.84). Per la diagnosi di malattia a cellule NK devono essere utilizzati altri marcatori per antigeni di superficie come il CD57 e il CD16 associati alla ricerca intracitoplasmatica di granzima B e della perforina (Fischer L et al, 2006).

 

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Fig.82                                            Fig.83                                            Fig. 84

Figura 82. La Leucemia linfatica cronica è contraddistinta dalla coespressione di CD19/CD5/CD23 e clonalità per una catena leggera (in questo caso k) (Zeppa P et al Cancer 2004) – Figura 83. La coespressione di CD19 e CD10 in una popolazione con clonalità  per la catena k e con espressione di bcl-2 identificano un linfoma non Hodgkin centro follicolare (Zeppa P et al Cancer 2004) – Figura 84. Studio della clonalità T in un paziente con anomala espressione di CD5 nella popolazione CD8. Lo studio delle famiglie TVβ ha portato ad evidenziare un clone positivo per la famiglia Vβ-13.2/ Vβ-4 (azzurro) (cortesia di A.Orfao).

 

Indagini citofluorimetriche per la valutazione della Malattia Minima Residua (MMR)

 

Un paziente con leucemia acuta viene generalmente considerato in remissione completa (RC) se nello studio del midollo osseo successivo ai cicli di polichemioterapia è presente una percentuale di blasti inferiore al 5%. Purtroppo il limite di questo metodo diagnostico dipende dalla scarsa accuratezza e sensibilità del metodo morfologico per la valutazione di popolazioni a bassa frequenza. La popolazione leucemica non identificata mediante la morfologia viene definita come malattia minima residua (MMR). In altre parole, è un termine utilizzato per definire la presenza di cellule leucemiche (identificate mediante immunofenotipo, biologia molecolare o citogenetica) laddove il numero di cellule esaminate con il microscopio non risulti sufficientemente accurato per evidenziare il clone neoplastico (San Miguel JF et al, 2001). L’importanza della valutazione e/o ricerca della MMR è dimostrata dall’evidenza che a fronte di un elevato tasso di remissione completa (80% nei giovani adulti) raggiunta dopo chemioterapia intensiva, la sopravvivenza a cinque anni dopo la diagnosi è solo del 30-40%. Molti pazienti infatti presentano una recidiva a causa della persistenza di MMR. Usando un’accurata combinazione di anticorpi monoclonali è possibile con la citofluorimetria una più specifica identificazione e quantificazione delle cellule leucemiche, quando presenti in quantità minima.
In generale lo studio della MMR nelle LMA presenta maggiori difficoltà rispetto allo stesso studio effettuato nelle LLA. Esso è dovuto alla maggiore eterogeneità antigenica dei blasti mieloidi rispetto ai blasti linfoidi: per questo motivo nello studio della MMR nelle LMA si è reso necessario ricercare l’espressione di marcatori aberranti, che vanno a definire i cosiddetti fenotipi associati alla leucemia (FAL).
Nell’ambito delle LMA, le aberrazioni più rilevanti sono: 1) espressione asincrona di antigeni (simultanea espressione di antigeni precoci e tardivi sulla medesima cellula, come CD34 e CD15); 2) infedeltà di linea cellulare (espressione di antigeni associati alla linea linfoide come CD2, CD5, Cd7, CD19 etc. su blasti mieloidi) (Figg.85 e 86); 3) iperespressione di alcuni antigeni; 4) aberrazioni legate alla proprietà di migrare nel light-scatter (l’espressione di antigeni associati alla linea linfoide nei blasti identifica cellule a più alto forward scatter e side scatter); 5) assenza di antigeni linea-specifica (assenza di CD13 o CD33 nei blasti mieloidi). Tra le aberrazioni più frequentemente riscontrate nelle diverse casistiche riportate in letteratura si evidenziano l’asincronismo di espressione antigenica (es. CD34-117/CD11b-CD15-CD65-CD64) e l’infedeltà di linea cellulare (es.CD2, CD19, CD56, CD7).
Nelle LMA, differenti combinazioni di anticorpi  permettono un migliore studio della MMR : CD13/CD33/CD34, CD13/CD33/CD117, CD13/CD34/CD117 (Fig.87). A tali combinazioni dovrebbero essere di volta in volta associati marcatori aberranti valutati alla diagnosi per facilitare l’identificazione del clone neoplastico (Macedo A et al, 1995; Bené MC and Kaeda JS, 2009; Al Mawali et al, 2009; Kern W et al, 2010).
Nelle LLA la combinazione migliore è rappresentata dalla marcatura contemporanea di CD19/CD10/CD34; aggiungendo il CD38 è possibile differenziare con maggiore sicurezza il clone patologico dagli ematogoni. Nello studio della MMR, con la valutazione di circa 105-106 leucociti si può raggiungere un livello di sensibilità di 10-4 -10-5, facendo attenzione che la sensibilità è strettamente influenzata dai livelli di espressione dei FAL sulla popolazione di blasti. Pertanto è generalmente accettato il concetto che vengano considerati FALs solo fenotipi presenti in più del 10% della popolazione patologica. Differenti lavori hanno dimostrato come nello studio della MMR si siano rivelati prognosticamente significativi cut-off di 1×10-3 cellule con fenotipo patologico nelle LMA ed 1×10-4 cellule patologiche nelle LLA (Bené MC and Kaeda JS, 2009; Coustan-Smith E, Campana D, 2010; Vidriales MB et al, 2003).
Nell’ambito delle Malattie linfoproliferative vi è un crescente interesse per lo studio della MMR nella LLC. Poiché cellule B del sistema immune fisiologicamente possono presentare un fenotipo simile alla LLC, in teoria decrescerebbe la sensibilità della MMR poiché il limite di specificità dovrebbe essere più alto. Neanche lo studio della clonalità con le catene leggere ha permesso di migliorare la sensibilità dello studio di MMR nella LLC. Pertanto alcuni lavori in letteratura hanno riportato le seguenti combinazioni come migliori per lo studio della MMR della CLL B: CD19/CD5/CD20/CD79b oppure tre combinazioni associando CD5 e CD19 con CD20/CD38, CD81/CD22 e CD79b/CD43 (Rawstron AC et al, 2007).
Nelle Figure 88, 89 e 90 sono riportate tre tabelle riassuntive dell’espressione antigenica di linea e di differenziazione, secondo la classificazione WHO2008 (Swerdlow SH et al, 2008): nella Figura 88 sono riportati gli antigeni di differenziazione della linea mieloide, nelle Figure 89 e 90, rispettivamente, il fenotipo delle neoplasie linfoidi B e T più frequenti.

 

Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_85Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_86Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_87

Fig.85                                            Fig.86                                            Fig. 87

Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_88Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_89Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_90

Fig.88                                            Fig.89                                            Fig. 90

Figura 85. Esempio di un fenotipo associato alla leucemia (FAL) utilizzato nello studio della MMR. (Al-Mawali A. et al. Am J Clin Path 2008) – Figura 86. I blasti identificati per CD45/SSC ed SSC/FSC mostrano un fenotipo associato alla leucemia (FAL) CD34/CD117/CD7 (Al-Mawali A. et al. Am J Clin Path 2008) – Figura 87. Monitoraggio della MMR in LMA (blasti in blu) (Benè MC et al. Haematologica 2010) – Figura 88. Espressione antigenica nei differenti livelli differenziativi della linea mieloide (Swerdlow SH  et al. 4th Ed Lyon, IARC 2008) – Figura 89. Immunofenotipo caratteristico delle più frequenti  neoplasie a cellule B mature (Swerdlow SH  et al. 4th Ed Lyon, IARC 2008) – Figura 90. Immunofenotipo caratteristico delle più frequenti  neoplasie a cellule T e NK mature (Swerdlow SH  et al. 4th Ed Lyon, IARC 2008).

 

CITOGENETICA E BIOLOGIA MOLECOLARE

 

Cariotipo

 

L’analisi del cariotipo rappresenta un esame imprescindibile in tutte le fasi di diagnosi, prognosi e follow up delle neoplasie ematologiche: l’individuazione di specifiche alterazioni citogenetiche consente infatti la corretta diagnosi di numerose leucemie. Storicamente l’identificazione del Cromosoma Filadelfia (Ph) come alterazione genetica specifica della leucemia mieloide cronica negli anni ’60 (Nowell PC, 1960) ha rappresentato il primo esempio di leucemia per la cui diagnosi è indispensabile l’esecuzione del cariotipo. A partire dalla prima Classificazione WHO1998, la citogenetica insieme alla morfologia, all’immunofenotipo e alla presentazione clinica, è stata inserita come parte integrante di un percorso diagnostico che, a seconda del tipo di leucemia, privilegia una tecnica rispetto alle altre: l’esame citogenetico è ad oggi il “gold standard” diagnostico di diverse leucemie, sia linfoidi che mieloidi. La citogenetica standard lavora sul cariogramma (Fig 91 A, B) ottenuto su cellule bloccate in metafase e fornisce informazioni sull’intero genoma. Lo sviluppo negli ultimi anni di nuove tecniche di genetica molecolare ha ampliato le possibilità diagnostiche consentendo l’identificazione di alterazioni molecolari specifiche, che si integrano con le informazioni ottenute con l’esame del cariotipo. A dimostrazione della rilevanza diagnostica oggi assunta da queste nuove tecniche di genetica molecolare, già fin dalla prima edizione della Classificazione WHO delle neoplasie emopoietiche (Jaffe ES et al, 2001) è stato introdotto, rispetto alla precedente Classificazione FAB (Bennett JM et al, 1982; Bennett JM et al, 1985), un nuovo sottogruppo di leucemie acute mieloidi identificate sulla base della presenza di una lesione citogenetica ricorrente, elenco aggiornato nella nuova edizione WHO2008 (Swerdlow SH et al, 2008) (Fig 92). Alterazioni clonali si riscontrano in circa il 50% dei pazienti con sindromi mielodisplastiche (SMD) e rivestono un ruolo fondamentale nella stratificazione prognostica. Nella Figura 93 (Swerdlow SH et al, 2008) sono riportate le alterazioni cromosomiche che, in presenza di una citopenia persistente, anche in assenza di evidenze morfologiche di displasia, consentono di porre diagnosi presuntiva di MDS. In questa ultima edizione è stato anche introdotto un nuovo gruppo di leucemie identificate non più sulla base della linea di appartenenza, mieloide o linfoide, ma sulla presenza di una specifica alterazione molecolare, le “neoplasie mieloidi e linfoidi con eosinofilia e alterazioni di PDGFRA, PDGFRB o FGFR1“( Swerdlow SH et al, 2008) (Fig. 94). Infine, alterazioni citogenetiche ricorrenti sono associate anche ad alcuni tipi di leucemie acute linfoblastiche e di linfomi.
In questa sezione vengono riportate quelle alterazioni cromosomiche strutturali di più frequente riscontro nelle neoplasie ematologiche.

 

Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_91Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_92

Fig.91                                            Fig.92

Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_93Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_94

Fig.93                                            Fig.94

Figura 91. A: Cariotipo umano maschile normale.  B: Cariotipo iperdiploide (81- 86 cromosomi) di un paziente maschio affetto da leucemia acuta mieloide secondaria (LMA-therapy related) – Figura 92. Classificazione WHO2008 delle leucemie acute (Swerdlow, 2008) – Figura 93. Alterazioni cromosomiche ricorrenti e loro frequenza alla diagnosi nelle sindromi mielodisplastiche (Swerdlow, 2008) – Figura 94. Classificazione WHO2008 delle neoplasie mieloidi: principali sottogruppi e caratteristiche diagnostiche (Swerdlow, 2008).

 

Traslocazione (t)

Con questo termine si indica il passaggio di una parte di un cromosoma su un altro: in genere questo trasferimento di DNA è reciproco e coinvolge due cromosomi. Alcune traslocazioni comportano la sintesi di tirosin-chinasi aberranti ovvero di altri trascritti aberranti; altre volte, invece, la nuova posizione induce l’attivazione di un oncogene. Le traslocazioni robertsoniane sono invece riarrangiamenti che coinvolgono due cromosomi acrocentrici (cromosomi in cui il centromero è situato molto vicino alla fine del cromosoma), con conseguente perdita del braccio corto: individui affetti da traslocazione robertsoniana nel cromosoma 21 hanno un’alta probabilità di generare figli affetti dalla sindrome di Down (SD).
Le traslocazioni più frequenti associate alle neoplasie emopoietiche sono:

  • la traslocazione t(9;22)(q34;q11) e varianti, caratteristica della leucemia mieloide cronica, causa un potenziamento dell’attività tirosin-chinasica di BCR-ABL1 con conseguente deregolazione dell’attività proliferativa e inibizione dei meccanismi di apoptosi cellulare (Shtivelman E et al, 1985; Morris CM, 2011) (Fig 95). Questa traslocazione si riscontra anche nelle leucemie con fenotipo misto (Matutes E et al, 2011; Weinberg OK, Arber DA, 2010) e in circa il 25% delle leucemie linfoblastiche acute dell’adulto (Moorman AV et al, 2010);
  • la t(5;12)(q31~33;p12) induce la formazione del gene di fusione ETV6-PDGFRB, distintivo delle neoplasie mieloidi associate a eosinofilia con riarrangiamento PDGFRB (Carroll M et al, 1996; Golub TR et al, 1997);
  • traslocazioni su diversi cromosomi (Fig 96), tutte con un punto di rottura 8p11, sottendono alla formazione di geni di fusioni contenenti FGFR1 che caratterizza uno gruppo di neoplasie mieloidi e linfoidi con eosinofilia (Macdonald D et al, 2002; Bain BJ, Fletcher SH, 2007);
  • le traslocazioni t(8;21)(q22;q22), t(16;16)(p13.1;q22) o inv(16)(p13.1;q22) e t(15;17)(q22;q12) identificano un gruppo di leucemie mieloidi acute con traslocazione citogenetica ricorrente: per la diagnosi è sufficiente il riscontro dell’alterazione citogenetica, a prescindere dalla percentuale dei blasti nel SP e/o nel MO (Byrd JC et al, 2002; Grimwade D et al, 1998; Slovak ML et al, 2000);
  • anche le traslocazioni t(9 ;11)(q22;q23), t(6;9)(p23;q34), t(3;3)(q21;q26.2) o inv(3)(q21;q26.2) e t(1;22)(p13;q13) identificano le leucemie mieloidi acute con traslocazione citogenetica ricorrente, ma, a differenza del precedente gruppo, per la diagnosi è indispensabile il riscontro di una quota di blasti nel SP e/o nel MO ≥ 20%. Nella Figura 97  sono riportate le alterazioni genetiche molecolari associate alle implicazioni prognostiche nei pazienti con leucemia mieloide acuta (Mrózek K et al, 2007; Mrózek K, Bloomfield CD, 2008);
  • le traslocazioni t(9;22), (p11;q23), t(12;21)(p13;q22), t(5;14)(q31;q32) e t(1;9)(q23;p13.3) identificano un gruppo di leucemie/linfomi linfoblastici B con traslocazione citogenetica ricorrente. In questo gruppo sono comprese anche quelle forme con corredo cromosomico iperdiploide (>20 <66 cromosomi) o ipodiploide (<46 cromosomi);
  • la t(4;11)(q21;q23) è frequente nella leucemia acuta linfoblastica B non altrimenti specificata (Abdelhaleem M et al, 2007);
  • la t(8;14)(q24;q11) si riscontra nella leucemia acuta linfoblastica T (Shima-Rich EA et al, 1997; Kasai M et al, 1994);
  • le t(11;18)(q21;q1), t(1;14)(p22;q32) e t(3;14)(p14.1;q32) sono frequentemente associate ai linfomi extranodali della zona marginale dei tessuti linfoidi associati alla mucosa (linfomi MALT), rispettivamente nei tumori gastrici e polmonari, nei tumori oculari e delle ghiandole salivari e nei tumori della tiroide e della cute. Nella Figura 98 sono riportate la distribuzione anatomica e la frequenza delle alterazioni citogenetiche nei linfomi MALT;
  • la t(14;18)(q32;q21) è presente in >90%dei pazienti con linfoma follicolare (Rowley JD, 1988; Horsman DE et al, 1995);
  • la t(11;14) è considerato l’evento genetico primario ed è presente in tutti i pazienti con linfoma mantellare (Weniger MA, Wiestner A, 2011; Williams ME et al, 2011). Questa traslocazione si osserva anche in circa il 40% dei soggetti con amiloidosi;
  • la t(8;14)(q24;q32) è presente nella maggior parte dei pazienti con linfoma di Burkitt (Zani VJ et al, 1996);
  • la t(2;5)(p23;q35) è la traslocazione  presente in >80% dei casi di linfoma cellulare anaplastico a grandi cellule ALK-positivo (Lamant L, 1996; Mussolin L et al, 2010). Nella Figura 99 sono riportate le traslocazioni e le proteine di fusione che coinvolgono la chinasi del linfoma anaplastico (ALK).

Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_95Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_96Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_97

Fig.95                                            Fig.96                                            Fig. 97

Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_98Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_99

Fig.98                                            Fig.99

Figura 95. Cariotipo di un paziente con Cromosoma di Philadelphia t(9;22)(q34;q11), risultato di una traslocazione bilanciata tra le braccia lunghe dei cromosomi 9 e 22 – Figura 96. Alterazioni cromosomiche e molecolari in un gruppo di pazienti con neoplasie mieloproliferative associate a riarrangiamenti FGFR1 (Swerdlow, 2008 modificato da Bain, 2007 – Figura 97. Significato prognostico di alterazioni genetiche e molecolare in pazienti con leucemia mieloide acuta (Swerdlow, 2008) – Figura 98. Sedi anatomiche e frequenza delle alterazioni cromosomiche nei linfomi MALT (Swerdlow, 2008 da Streubel 2004) – Figura 99. Traslocazioni e proteine di fusione che coinvolgono la chinasi del linfoma anaplastico (ALK) (Swerdlow, 2008).

 

Inversione (inv)

Con questo termine si indica una alterazione strutturale causata da una rotazione a 180° di un segmento di cromosoma: nella inversione pericentrica il segmento invertito include il centromero, nella inversione paracentrica il segmento invertito si integra del braccio lungo o corto dello stesso cromosoma.
Nella LMA la inv16(p13;q22) è pericentrica (Shigesada K et al, 2004), mentre la inv(3)(q21;q26.2) è paracentrica.
La inv(14)(q11;q32) rappresenta l’alterazione caratteristica della leucemia a prolinfociti T (Matutes E et al, 1991).

 

Delezione (del)

La delezione indica la perdita di un segmento di cromosoma: può essere interstiziale ovvero terminale quando il segmento perso era situato all’interno o alla fine del cromosoma.
Le delezioni del(5q), del(7q) e del(20q) sono frequenti nelle SMD e nelle LMA, le del(6q) e del(9p) nelle T-LLA e la del(13q14.3) nella LLC.
La delezione criptica del(4)(q12) determina la formazione del gene di fusione  FIP1L1-PDGFRA che è caratteristica del neoplasie linfoidi e mieloidi con riarrangiamento PDGFRA (Gotlib J et al, 2004).

 

Isocromosoma (i)

E’ un cromosoma strutturalmente alterato per delezione di un braccio associata a duplicazione dell’altro braccio che si posiziona in maniera speculare: può essere monocentrico o dicentrico a seconda del numero dei centromeri. Gli isocromosomi ricorrenti nelle neoplasie ematologiche (Mertens F et al, 1994) sono:

  • i(9q), i(17q) e i(22q) nella leucemia mieloide cronica;
  • i(X)(q13), i(17q) e i(21q) nelle sindromi mielodisplastiche;
  • i(11q), i(17q) e i(21q) nelle leucemie mieloidi acute;
  • i(7q), i(9q) e i(17q) nelle leucemie linfoidi acute;
  • i(1q), i(6p), i(7q) i(8q), i(9p), i(17q) e i(21q) nelle neoplasie linfoproliferative.

 

Monosomia

Per monosomia si intende la perdita di uno dei due cromosomi omologhi del corredo genetico cellulare.
La monosomia 7 si riscontra nel 25% dei pazienti con leucemia mielomonocitica juvenile (Hasle H et al, 1999; Niemeyer CM et al, 1997).
Le monosomie dei cromosomi 5, 7 e 13 sono incluse tra le alterazioni citogenetiche con significato prognostico nelle SMD (Fig. 93) e sono alterazioni frequenti nelle forme secondarie.

 

Trisomia

La trisomia è un’alterazione del cariotipo caratterizzata dalla presenza di un cromosoma aggiuntivo.
La trisomia del cromosoma 21 nella linea germinale identifica la sindrome di Down (SD): circa il 10% di neonati con SD presentano una emopoiesi transitoria anomala con caratteristiche cliniche e morfologiche indistinguibili dalla leucemia mieloide acuta. Inoltre i soggetti con SD hanno una incidenza di leucemia acuta nei primi 5 anni di vita 50 volte superiore rispetto alla popolazione non Down.
Le trisomie dei cromosomi 3 e 18 si riscontrano nei Linfomi MALT (Fig.98), mentre nelle SMD si osservano trisomie dei cromosomi 8 e 13.

 

FISH (Fluorescence In Situ Hybridization)

 

La FISH è una tecnica che utilizza sonde di DNA complementari a determinate sequenze genomiche legate a fluorocromi. Una volta identificato il segmento cromosomico che si vuole andare ad analizzare, si procede ad una denaturazione con riappaiamento del DNA in presenza della sonda con fluorescenza specifica. Avvenuta l’ibridazione si analizzano al microscopio a fluorescenza i nuclei del campione in esame. Diversi sono i tessuti che possono essere studiati con tale metodica, principalmente campioni di sangue midollare o periferico, ma anche altri fluidi corporei come liquor, liquido ascitico ed anche sezioni istologiche fissate in paraffina.
Mediante tale metodica si può analizzare sia la perdita che la acquisizione di materiale genetico all’interno della cellula così come la presenza di traslocazioni cromosomiche ricorrenti. Per l’identificazione di trisomie/monosomie vengono utilizzate sonde specifiche per il centromero del cromosoma in esame (sonde centromeriche, ad esempio trisomia cr8 o cr12), mentre per l’identificazione di alterazioni numeriche (delezioni/acquisizioni) di singoli geni o segmenti cromosomici si usano sonde geni- o segmento-specifiche (ad esempio del13q14, del17p13 o del5q).
In caso di traslocazioni bilanciate (come ad esempio BCR/ABL nella leucemia mieloide cronica o PML/RARα nella leucemia acuta promielocitica) i due geni coinvolti nella traslocazione vengono marcati con sonde a fluorescenza differente (rosso-verde) ed in caso di presenza di traslocazione un segmento “rosso” trasloca su un segmento “verde” e viceversa dando origine a due segnali di fusione “gialli” (sonde “dual color-dual fusion”). Se si vuole cercare la traslocazione di un gene, indipendentemente dal suo gene-partner, viene utilizzata la sonda “dual color-break apart” in cui la porzione N-terminale del gene viene identificata con un fluorocromo diverso da quello della porzione C-terminale (rosso-verde); in caso di traslocazione il segnale unico (giallo) viene diviso nei due segnali rosso-verde ora identificabili separatamente (ad esempio RARα nella leucemia promielocitica con traslocazioni differente dalla 15;17).
Rispetto alla citogenetica classica, che analizza solo nuclei in metafase, la FISH può essere utilizzata anche su nuclei in interfase, peculiarità che la rende molto utile in quelle emopatie in cui il clone neoplastico non presenta numerose metafasi, come ad esempio nella leucemia linfatica cronica, nei linfomi o nel mieloma multiplo. Sempre in riferimento alla citogenetica classica, questa tecnica è più rapida nell’esecuzione e nell’analisi e risulta pertanto preferibile nei casi in cui un corretto approccio diagnostico comporta importanti implicazioni terapeutiche, come avviene alla diagnosi di leucemia acuta promielocitica ad inizio della terapia con acido retinoico.
Questa metodica permette di evidenziare perdita-acquisizione di materiale genetico o presenza di traslocazione di specifici geni, ma non è in grado di identificare la presenza di mutazioni puntiformi: in questi casi si deve utilizzare la biologia molecolare. La sensibilità della FISH è senz’altro superiore a quella della citogenetica classica, perché in genere vengono analizzati dai duecento ai cinquecento nuclei, ma è inferiore a quella della biologia molecolare (sensibilità fino ad 1:10000). Pertanto questa metodica viene utilizzata prevalentemente al momento della diagnosi o in caso di recidiva, in presenza di un numero relativamente alto di cellule neoplastiche contenenti l’aberrazione specifica: invece, per la determinazione della malattia minima residua sono più indicate altre tecniche di biologia molecolare, come la RT-PCR.
Ogni porzione del genoma  è potenzialmente suscettibile di indagine FISH, ma in genere vengono testati i segmenti che con maggiore probabilità sono alterati nelle singole patologie in esame.

 

 

Leucemia mieloide cronica (LMC)

Elemento chiave nella diagnosi della LMC è l’identificazione della traslocazione bilanciata 9;22 con formazione del gene di fusione BCR/ABL. La sonda “LSI bcr/abl dual fusion DNA probe” si lega al segmento cromosomico 22q11.2 (breakpoint cluster region Verde) e al segmento 9q34 (abl oncogene Rosso). Nei nuclei normali in interfase si identificano due colori distinti per ogni segnale; nelle cellule patologiche sono presenti un solo segnale rosso, un singolo segnale verde e due segnali di fusione rosso-verde (uno per ogni cromosoma derivativo 9;22). (Fig.100)

 

Neoplasie mieloproliferative croniche Philadelphia negative 

In questo gruppo di neoplasie, una volta esclusa la presenza della t(9;22), possono venire identificate diverse alterazioni citogenetiche, descritte in circa il 30% delle mielofibrosi e delle policitemie vere, più rare nella trombocitemia Essenziale (Bacher U et al, 2005; Tefferi A et al, 2001): le più frequenti sono le trisomie del cr8 e del cr9, seguite dalle delezioni del13q e del20q. Tuttavia l’indagine di prima linea risulta la citogenetica classica con bandeggio cromosomico, mentre la FISH viene utilizzata in genere come test di conferma.

 

Sindromi mielodisplastiche (SMD)

Mediante citogenetica classica vengono identificate alterazioni cromosomiche in circa il 50% delle SMD-de novo ed in circa l’80% delle SMD therapy-related. Se la citogenetica indaga tutto il corredo cromosomico, la FISH esplora solo il segmento specifico della sonda testata; pertanto in questo gruppo di pazienti vengono ricercate quelle alterazioni che sono più frequentemente associate a questi disordini: trisomia 8, del(5q)/monosomia 5, del(7q)/monosomia 7, del(20q), -Y.
Un ruolo fondamentale è svolto dalla FISH in caso di assenza di metafasi in citogenetica; controverso è il ruolo della FISH in caso di studio citogenetico risultato negativo (Cherry AM et al, 2003; Bernasconi P et al, 2003; Rigolin GM et al, 2001), anche se in letteratura viene riportata la presenza di alterazioni evidenziate con metodica FISH in circa il 15% delle SMD con cariotipo normale (Bernasconi P et al, 2006).
Per identificare monosomia del cr5 o cr7 o delezione del5q o del7q si utilizzano sonde specifiche per il centromero del cromosoma 5/7 (segmento  5p15.2 e 7p11.1-q11.1 rispettivamente con fluorescenza verde) e sonde specifiche per il segmento 5q e 7q (segmento 5q31 e 7q31 rispettivamente, segnale rosso). In caso di monosomia si ha la perdita del segnale sia del centromero che del segmento q (si avrà quindi un solo segnale rosso ed uno verde), in caso di perdita del solo segmento 5q o 7q, si perderà solo un segnale rosso (si avranno quindi due segnali verdi ed un solo segnale rosso) (Fig.101).
In caso di trisomia per il cromosoma 8, si avranno tre segnali fluorescenti per il centromero di questo cromosoma quando le cellule vengono ibridate con sonda specifica (Fig.102). In caso di perdita del cromosoma Y, invece, viene perso il segnale di fluorescenza del centromero del cromosoma Y.
Nel caso di del20q, la sonda specifica (fluorescente in rosso) si lega al segmento 20q12; in caso di delezione di tale segmento, al posto dei due segnali (cellule normali) ne viene identificato solo uno.

 

Leucemia linfatica cronica (LLC)

Anomalie genomiche sono identificabili in circa l’80% dei pazienti con LLC (Dohner H et al, 2000). Alcune di queste sono associate a peggior prognosi (e.g. del17p o del11q) ed hanno implicazioni terapeutiche (scarsa risposta agli alchilanti e agli analoghi delle purine nei pazienti con del17p), ragion per cui viene consigliata l’esecuzione di quest’analisi prima di intraprendere un trattamento chemioterapico.
La più frequente alterazione (presente fin nel 50% dei casi) è la delezione del13q; la sonda specifica marca il segmento 13q14; una delezione del segmento viene quindi individuata mediante l’identificazione di un solo segnale anziché due all’interno della cellula (Fig. 103).
Analogamente, un solo segnale per il segmento 11q22 individua le delezione per il segmento 11q (che comporta la perdita del gene ATM). Ibridando i nuclei con sonde specifiche per il centromero del cromosoma 12 è possibile identificare le cellule con trisomia del cromosoma 12.
Nella delezione del segmento 17p si ha perdita del gene oncosoppressore p53. La sonda specifica marca in rosso il segmento 17p13; in questo caso viene utilizzato anche una sonda verde per il centromero del cr17.

 

Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_100Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_101

Fig.100                                            Fig.101

Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_102Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_103

Fig.102                                            Fig.103  

Figura 100. Analisi FISH positiva per t(9;22). Nel basto in interface si osserva un segnale di fusione nel cromosoma riarrangiato strutturalmente. Sonda: LSI bcr/abl dual color: Orange: 9q34; Green: 22q11 – Figura 101. Analisi FISH: del7q in un paziente con SMD. Sono evidenti due segnali verdi e un solo segnale rosso, per la perdita del segmento 7q – Figura 102. Analisi FISH: Trisomia 8 in un paziente con SMD. Sono evidenti tre segnali fluorescenti per il centromero del Cromosoma 8 quando le cellule vengono ibridate con sonda specifica – Figura 103. Analisi FISH: del13q in un paziente con leucemia linfatica cronica. Nella cellula in alto è presente un segnale singolo, a causa della perdita del segmento 13q14.

 

Linfoma non Hodgkin (LNH)

Anche se in questo gruppo di neoplasie la biologia molecolare svolge un ruolo più importante per la maggiore sensibilità, alterazioni citogenetiche ricorrenti possono essere individuati in quei linfomi con anomalie ricorrenti specifiche. In particolare la FISH può essere usata per evidenziare la traslocazione 14;18 del linfoma follicolare, la t(11;14) del linfoma mantellare (Fig 104) o la t(8;14) del linfoma di Burkitt (Fig 105): alterazioni meno frequenti del linfoma di Burkitt possono essere la t(8;2) o la t(8;22), tutte comunque coinvolgenti il geneMYC. In tutti i casi si tratta di sonde dual color-dual fusion che, analogamente a quanto descritto per la t(9;22) della LMC, evidenziano mediante segnale di fusione l’avvenuta traslocazione specifica. Per la t(8;14) i sementi marcati sono 14q32 e 8q24, per la t(11;14) sono i segmenti 14q32.3 e l’11q13, e per la t(14;18) i segmenti 14q32 e 18q21.

 

Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_104Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_105

Fig.104                                           Fig.105  

Figura 104. Analisi FISH: t(11;14) (q13;q32) in un paziente con linfoma mantellare. Sono evidenti due segnali di fusione insieme ai singoli segnali green e orange nei cromosomi omologhi normali. Sonda LSI IGH/CCND1 dual color: Orange: CCND1 11q13; Green: IGH  14q32) – Figura 105. Analisi FISH: t(8;14) in un paziente con linfoma di Burkitt. Sonda LSI IgH/Myc/CEP-8 DF: positiva per t(8;14)(q11;q32).  Sinistra: CEP 8: spectrum aqua  Destra: gene MYC (8q24) orange; locus IgH (14q32 ) green.

 

Mieloma multiplo (MM)

Analogamente ai linfociti della LLC, anche le plasmacellule presentano un basso tasso di metafasi, per cui anche in questa patologia la FISH è divenuta la principale metodica per l’individuazione di alterazioni cromosomiche. Per aumentarne tuttavia la sensibilità, è necessario eseguire tale metodica su cellule purificate oppure associando la rilevazione in fluorescenza delle catene leggere di superficie delle plasmacellule.
Analogamente alla LLC, si può ricercare la delezione del 13q o del 17p: la prima, molto frequente, con un ruolo prognostico ridimensionato negli ultimi anni, la seconda, meno frequente, ma con ruolo prognostico sfavorevole.
Le principali traslocazioni bilanciate che si ricercano nel mieloma multiplo riguardano il locus delle catene pesanti delle Immunoglobuline (IgH) situato sul cromosoma 14; i principali partner di traslocazione sono il segmento 11q23 nella t(11;14), il segmento 4p16 nella t(4;14) e il segmento 16q23 nella t(14;16).

 

Leucemia linfoblastica acuta (LLA) 

In questa patologia la FISH viene utilizzata per identificare la t(9;22); anche se il punto di rottura del gene BCRè differente rispetto a quello coinvolto nella t(9;22) della LMC, il razionale e il risultato visivo sono identici a quelli identificati per l’analisi di BCR-ABL della leucemia mieloide cronica.
Altra anomalia, frequente soprattutto nelle LLA del bambino, è quella che coinvolge il gene MLL, segmento 11q23. Poiché sono stati identificati più di 50 partner di traslocazione del gene MLL, viene utilizzata una sonda break-apart, dove la porzione N-terminale del gene viene marcata con fluorescenza diversa rispetto alla regione C-terminale. La cellula normale ha, così, due unici segnali di fusione; in caso di traslocazione, si ha un segnale di fusione, mentre l’altro gene, traslocato, presenta la separazione dei due segnali, indipendentemente dal segmento partner.

 

Leucemia mieloide acuta (LMA)

L’analisi citogenetica convenzionale con bandeggio cromosomico rimane il gold standard nella diagnostica genetica delle LMA: infatti le alterazioni descritte come possibili sono troppo numerose per essere testate tutte contemporaneamente al momento della diagnosi. La FISH tuttavia è in grado di identificare quelle alterazioni ricorrenti che fanno classificare un tipo di leucemia come “LMA con alterazioni citogenetiche ricorrenti” secondo WHO. Sonde dual-color/dual-fusion possono essere utilizzate per identificare, in questo gruppo, le t(8;21) o la t(15;17); sonde break-apart sono utilizzate per identificare l’inversione del cr16 o la t(16;16), per la traslocazione del gene MLL (segmento 11q23) o per identificare la traslocazione del gene RARα, indipendentemente dal partner di fusione nella leucemia promielocitica variante.

 

Allotrapianto di cellule staminali

In caso di allotrapianto di cellule staminali mis-match per il sesso, l’attecchimento, il chimerismo o la perdita di quest’ultimo, può essere messo in evidenza ibridando i centromeri dei cromosomi sessuali con fluorocromi differenti.

 

GENETICA MOLECOLARE

 

Le Metodiche

 

Le metodiche di diagnostica molecolare delle malattie del sangue sono rivolte all’individuazione di alterazioni geniche distintive a livello di DNA o RNA associate a specifiche entità nosografiche. L’avvento di nuove metodiche globali di studio del genoma ha permesso l’identificazione di nuovi marcatori molecolari di malattia e arricchito il pannello di test diagnostici al momento a disposizione dell’ematologo.

Le metodiche di studio delle alterazioni molecolari in ematologia includono: la Reazione Polimerasica a Catena (Polymerase Chain Reaction, PCR), la Reazione Polimerasica a Catena in tempo reale (PCR quantitativa o real time PCR), il Sequenziamento genico con il Metodo di Sanger, le metodiche di sequenziamento  di nuova generazione (Next Generation Sequencing o Deep Sequencing), l’Ibridizzazione Genomica Comparativa (Comparative Genomic Hybridization, CGH), il Profilo di Espressione Genica mediante Microarray (Gene Expression Profiling), Studio dei Polimorfismi a Singolo Nucleotide mediante SNP arrays. Fatta eccezione per le metodiche di PCR, real-time PCR e Sequenziamento con Metodo Sanger, le altre tecnologie hanno al momento limitata applicazione nella diagnostica routinaria della comune pratica clinica a causa dei costi elevati e del complessità tecnica e interpretativa, ma hanno consentito l’identificazione di nuove lesioni genetiche con la successiva messa appunto di metodiche più accessibili ed economiche di larga applicazione nella diagnostica molecolare di routine.

La Reazione Polimerasica a Catena (PCR) è la metodica di base per lo studio delle alterazioni molecolari in ematologia e viene utilizzata per l’identificazione dei trascritti dei geni di fusione risultanti da traslocazioni cromosomiche ricorrenti, i riarrangiamenti dei geni delle Immunoglobuline e del T-cell receptor, le mutazioni ricorrenti di oncogeni e geni oncosoppressori, i polimorfismi enzimatici e dei fattori della coagulazione. Il riscontro di queste lesioni genetiche può assumere significato diagnostico, prognostico, di marcatore di malattia minima residua e fornire indicazioni nella scelta del trattamento, grazie alla disponibilità dei nuovi farmaci biologici. La metodica di PCR utilizza l’enzima Taq Polimerasi e oligonucleotidi sintetici (primers) per l’amplificazione di segmenti di DNA, mediante cicli di denaturazione, allineamento (annealing) e elongazione eseguiti all’interno di un termociclatore. Lo stampo (template) della reazione di PCR può essere rappresentato da DNA genomico ottenuto da cellule mononucleate midollari, leucociti del sangue periferico o campioni tissutali. La Reverse Trascriptase PCR (RT-PCR) è una variante della PCR che amplifica il cDNA ottenuto dalla retrotrascrizione dell’RNA e consente di studiare le alterazioni molecolari su geni espressi, quali ad esempio la presenza di trascritti di fusione delle traslocazioni cromosomiche ricorrenti.

I primers sono sequenze di 20-30 nucleotidi complementari alle estremità 5’ e 3’ rispettivamente delle 2 eliche del segmento di DNA da amplificare. Per l’identificazione dei geni di fusioni risultanti da traslocazioni cromosomiche, uno dei 2 oligonucleotidi utilizzati è complementare alla sequenza del segmento di gene di fusione appartenente ad uno dei due cromosomi, l’altro oligonucleotide al segmento appartenente all’altro cromosoma. La reazione darà luogo all’amplificazione dei soli campioni con la traslocazione cromosomica target. Per l’identificazione di mutazioni puntiformi o polimorfismi, uno dei due oligonucleotidi può essere complementare alla sequenza mutata, dando luogo all’amplificazione solo in caso della presenza della mutazione (PCR con oligonucleotidi allele specifici, o ASO-PCR). In alternativa la mutazione o polimorfismo può trovarsi all’interno della sequenza amplificata ed essere riconosciuta mediante l’uso di enzimi di restrizione che tagliano il frammento di DNA nel punto in cui è presente la mutazione: in questo caso la presenza o assenza della mutazione può introdurre o abolire un sito di restrizione per l’enzima (Restriction Fragment Lenght Polymorphysm PCR o RFLP-PCR). Per aumentare la sensibilità e la specificità della metodica, la nested-PCR utilizza oligonucleotidi interni al prodotto di una prima reazione di PCR che funge da stampo.

I prodotti di amplificazione vengono visualizzati mediante corsa elettroforetica su gel di agarosio. La presenza di mutazioni all’interno del prodotto di PCR può essere messa in evidenza anche mediante Analisi della Curva di Melting mediante termociclatori in real time. L’analisi della curva di melting mette in evidenza le diverse caratteristiche di dissociazione della doppia elica del DNA dovute a mutazioni di singoli nucleotidi, grazie all’uso di fluorocromi (SYBR green o Eva green) con o senza probes marcate.

Per l’identificazione delle mutazioni il prodotto della reazione di PCR può essere sequenziato secondo il metodo Sanger. Il Sequenziamento con Metodo Sanger si basa sull’utilizzo di nucleotidi modificati (dideossitrifosfato, ddNTPs) che si differenziano dai nucleotidi naturali per l’assenza del gruppo idrossilico sul carbonio 2′ e 3′ della molecola. Questi ddNTP vengono incorporanti nel filamento di DNA di nuova sintesi ad opera della DNA polimerasi con la successiva interruzione della elongazione in diversi punti prima della fine del DNA stampo. I ddNTP sono marcati con isotopi radioattivi o sostanze fluorescenti in modo da poter visualizzare le bande dei segmenti di DNA neosintetizzati dopo corsa elettroforetica. La metodica tradizionale prevedeva quattro distinte reazioni di amplificazione, una per ogni singolo ddNTP utilizzato, con successiva corsa elettroforetica su gel di poliacrilamide. L’uso dei sequenziatori automatizzati consente di eseguire una sola reazione di sequenziamento con l’uso tutti e 4 i ddNTP (ddGTP, ddATP, ddCTP, ddTTP) marcati con fluorofori diversi, cosicché ogni filamento di DNA emetterà una luce di colore diverso in base al nucleotide (ddNTP) col quale terminerà. Si otterrà pertanto la sequenza dei nucleotidi del filamento di DNA analizzato con i corrispondenti picchi di colore diverso per ogni nucleotide. Le mutazioni e i polimorfismi vengono identificati mediante confronto con le sequenze di riferimento disponibili sui database online (GenBank, RefSeq).

La real-time PCR, o PCR quantitativa, consente di amplificare e quantificare il DNA mediante l’uso di fluorocromi (SYBR green) che si intercalano nel DNA amplificato producendo un segnale luminoso proporzionale alle copie di DNA amplificato. Molto più comunemente la PCR quantitativa prevede l’uso di un oligonucleotide (sonda o probe) marcato con 2 fluorocromi e complementare alla sequenza interna del DNA da amplificare. Ogni sonda contiene un colorante fluorescente (reporter) all’estremità 5’ e un colorante spegnitore (quencher) all’estremità 3’. Durante i cicli di denaturazione, allineamento ed elongazione, la sonda di lega allo stampo di DNA nella zona compresa tra i due primers (forward e reverse); quando la Taq Polimerasi, dotata di attività esonucleasica, replicando lo stampo di DNA, incontra la sonda appaiata all’interno dello stampo di DNA, la sonda viene degradata ed il quencher viene allontanato dal reporter consentendo a quest’ultimo di emettere la fluorescenza. Quest’ultima aumenterà con la degradazione della sonda e con l’accumularsi del prodotto amplificato. La curva di fluorescenza ottenuta ha un andamento sigmoidale ed il ciclo in cui la fluorescenza inizia ad aumentare in maniera esponenziale è definito ciclo soglia (Ct). La quantificazione dell’espressione del trascritto viene eseguita in base all’espressione di un gene di riferimento (es. GAPDH, ABL, etc.) che viene amplificato contestualmente. Il calcolo del numero di copie viene ottenuto attraverso una curva standard con progressive diluizioni di plasmidi con il gene target e il gene di riferimento.

La real time PCR è molto spesso combinata con la RT-PCR in modo da quantificare i livelli di espressione dei geni target (qRT-PCR). Viene comunemente utilizzata per il monitoraggio della malattia minima residua valutando i livelli di marcatori molecolari della malattia, quali trascritti di fusione di traslocazioni cromosomiche ricorrenti e riarrangiamenti clonali delle immunoglobuline o TCR.

 

Gli Esami di Diagnostica Molecolare di Esecuzione Routinaria

 

Gli esami di diagnostica molecolare in oncoematologica vengono eseguiti previa specifica indicazione legata alle informazioni derivanti dalla clinica e dagli esami laboratoristici e morfologici di primo livello. In molti casi il riscontro di una determinata alterazione molecolare identifica una distinta entità nosografica con ben definite caratteristiche cliniche e biologiche. In altri casi la presenza di una alterazione molecolare, pur non essendo specifica per una distinta patologia, contribuisce a influenzare la prognosi e le scelte terapeutiche. Le alterazioni molecolari ruotinariamente ricercate nell’iter diagnostico delle neoplasie del tessuto emopoietico consistono in geni di fusione, derivanti da traslocazioni cromosomiche ricorrenti, o mutazioni o espressione di singoli oncogeni. Il pannello di test diagnostici è in continua evoluzione ed è stato particolarmente arricchito negli ultimi anni grazie agli avanzamenti ottenuti con le metodiche di Gene Expression Profiling e soprattutto con la Next Generation Sequencing (Deep Sequencing). Le tabelle IV e V riassumono le più comuni alterazioni molecolari (mutazioni e geni di fusione) utilizzati nella diagnostica molecolare delle leucemie acute.

 

Tabella IV: Geni di fusione nelle leucemie acute che identificano entità nosografiche con alterazioni genetiche ricorrenti secondo la classificazione WHO (2008).

 

Tabella V: Mutazioni genetiche ricorrenti nei pazienti con AML con effetto sulla prognosi (adattata da Patel et al, 2012)

 

La tabella VI riporta le alterazioni molecolari utilizzate nell’iter diagnostico  delle neoplasie mieloproliferative croniche. La tabella VII sintetizza i test di biologia molecolare utilizzati nello studio delle neoplasie linfoproliferative.

 

Tabella VI: Comuni alterazioni genetiche ricercate nei pazienti con Neoplasia Mieloproliferativa Cronica

 

Tabella VII: Test molecolari utilizzati nell’iter diagnostico delle Neoplasie del tessuto linfoide

 

Segue la descrizione delle metodiche più comunemente utilizzate nei comuni laboratori di diagnostica molecolare delle Divisioni di Ematologia.

  • BCR-ABL

Il gene di fusione BCR-ABL, risultato della traslocazione cromosomica t(9;22)(q34;q11) (cromosoma Philadelphia) è il marcatore molecolare della Leucemia Mieloide Cronica (LMC) e si riscontra anche nel 5% delle Leucemie Linfoblastiche Acute (LLA) del bambino,  dal 20 al 50% delle LLA dell’adulto e in <2% dei casi di Leucemia Mieloide Acuta (LMA) dell’adulto. Questa traslocazione unisce le sequenze al 3’ del proto-oncogene ad attività tirosinchinasica c-ABL sul cromosoma 9 con le sequenze al 5’ del gene BCR sul cromosoma 22. I punti di rottura di c-ABL sul cromosoma 9 si verificano generalmente al 5’ dell’esone 2 e raramente a livello dell’introne 2.  I punti di rottura del gene BCR sul cromosoma 22 sono invece più variabili potendosi localizzare a livello degli introni 13 e 14 (major breakpoint cluster region o M-bcr), a livello del 1° esone (minor breakpoint cluster region o m-bcr) o tra gli esoni 19 e 20 (micro breakpoint cluster region o µ-bcr), dando così luogo a diversi trascritti di fusione.  La proteina d fusione BCR-ABL può così avere peso molecolare di 190 kDa (p190), 210 kDA (p210) e 230 kDa (p230), a seconda dei punti di rottura sul gene BCR.  BCR-ABL p190, risultante dai trascritti e1-a2 (95% dei casi) oppure e1-a3 (raro), con rottura su BCR a livello  del m-bcr, si riscontra nel 60% delle LLA Ph+ ed in sporadici casi di LMC (Fig. 106).

BCR-ABL p210, risultante dai trascritti b3a2 (55% dei casi), b2a2 (40% dei casi), b2a3 (raro) e b3a3 (raro), con rottura su BCR a livello  del M-bcr,  si riscontra nella quasi totalità dei casi di LMC Ph+ e nel 40% dei casi di LLA Ph+ (Fig. 107). BCR-ABL p230, con rottura su BCR a livello del µ-bcr, si riscontra in alcuni casi di LMC Ph+ con decorso generalmente indolente.

Il riscontro del gene di fusione BCR-ABL riveste particolare importanza nella diagnostica delle Neoplasie Mieloproliferative Croniche e delle Leucemie Linfoblastiche Acute in quanto, oltre a definire specifiche entità nosografiche con distinte caratteristiche cliniche e prognostiche,  identifica pazienti candidabili ad una terapia mirata con inibitori delle tirosinchinasi, quali imatinib (Glivec), dasatinib (Sprycel) e nilotinib (Tasigna), diretti ad inibire l’attività del gene di fusione BCR-ABL e in grado di indurre remissioni ematologiche, genetiche e molecolari della malattia.
Il trascritto di fusione BCR-ABL viene routinariamente identificato mediante nested-RT PCR (van Dongen JJ et al, 1999), con due reazioni distinte per la p190 e p210 (Fig. 106 e Fig. 107).

 

Figura 106. Elettroforesi su gel di agarosio della nested RT-PCR per la ricerca di BCR-ABL p190. Colonne 1 e 2: campioni negativi; Colonna 3: campione positivo per trascritto e1a2; Colonna 4: controllo positivo; Colonna 5: controllo negativo; Colonna 6: pesi molecolari 100 bp (Immagine cortesemente fornita dal Dr F. Guidi, Istituto di Ematologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma).

 



Figura 107. Elettroforesi su gel di agarosio della nested RT-PCR per la ricerca di BCR-ABL p210. Colonne 1-6 e 9: campioni negativi; Colonna 7: campione positivo per trascritto b2a2; Colonna 8: campione positivo per trascritto b3a2; Colonna 10: controllo positivo per trascritto b3a2; Colonna 11: controllo negativo; Colonna 12: pesi molecolari 100 bp (Immagine cortesemente fornita dal Dr F. Guidi, Istituto di Ematologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma).

 

La sensibilità della metodica è nell’ordine di 10-4–10-5. La ricerca di BCR-ABL viene eseguita generalmente su RNA isolato sia da sangue midollare che da sangue periferico.  Pazienti risultati positivi per BCR-ABL vengono successivamente monitorati mediante real-time RT-PCR quantitativa su RNA ottenuto dal leucociti in toto del sangue periferico dopo lisi dei globuli rossi. Le copie di BCR-ABL vengono calcolare utilizzando una curva standard ottenuta con progressiva diluizione del plasmide con l’inserto BCR-ABL. I livelli di BCR-ABL vengono espressi in scala internazionale come percentuale del gene di controllo (ABL) e standardizzati mediante un fattore di conversione calcolato per ogni laboratorio. Un livello di BCR-ABL <0.1% è considerato come Risposta Molecolare Maggiore (MMR) nei pazienti con LMC in trattamento con inibitori delle tirosinchinasi (Hughes T et al, 2006). BCR-ABL quantitativo viene determinato nei pazienti con LMC Ph+ ogni 3 mesi (Baccarani et al, 2009).
La ricerca della mutazioni di BCR-ABL è indicata: 1) alla diagnosi solo nei pazienti con LMC in fase accelerata o blastica; 2) durante la terapia di prima linea con imatinib in casi di fallimento, di incrementi dei livelli di trascritto BCR-ABL con perdita della MMR o in ogni caso di risposta sub ottimale; 3) durante la terapia di seconda linea con dasatinib o nipotini in caso di fallimento ematologico o citogenetico. Lo screening per le mutazioni di BCR-ABL è eseguito con sequenziamento diretto da solo oppure in combinazione con la cromatografia liquida denaturante ad alta performance dove disponibile (Soverini et al, 2011).

  • PML-RARA

Il gene di fusione PML-RARA si riscontra nelle Leucemie Acute a Promielociti (LAP) con la traslocazione  t(15;17)(q22;q21). Il punto di rottura a livello del gene codificante per il recettore alpha per l’Acido Retinoico (RARA) sul cromosoma 17 si localizza a livello del introne 2. Al contrario tre regioni sul gene PML sul cromosoma 15 possono essere interessate dai breakpoints della traslocazione: l’ introne 6 (bcr1; 55% dei casi),  l’esone 6 (bcr2; 5%), e l’introne 3 (bcr3; 40%).

Esistono due isoforme di PML-RARA: la forma Long (L), corrispondente ai trascritti bcr1 e bcr2, e la forma Short (S), corrispondente al trascritto bcr3. Le due isoforme vengono identificate con due diverse reazioni di nested RT-PCR (Fig. 108) (van Dongen JJ et al, 1999).

 

Figura 108. Elettroforesi in gel di agarosio della nested RT-PCR per la ricerca di PML-RARalpha. Isoforma L: colonne 1-8 (colonne da 1 a 6: campioni; colonna 7: controllo positivo; colonna 8: controllo negativo). Colonna 10: pesi molecolari 100 bp. Isoforma S: colonne 10-15 (colonne da 10 a 13: campioni; colonna 14: controllo positivo, colonna 15: controllo negativo). Il campione in colonna 1 è risultato positivo per PML-RARalpha trascritto bcr1 (Immagine cortesemente fornita dal Dr F. Guidi, Istituto di Ematologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma).

 

La forma S ha generalmente una prognosi peggiore. La sensibilità della metodica è nell’ordine di 10-4. La maggior parte dei pazienti trattati con terapia di combinazione ATRA+antracicline ottiene la remissione molecolare. La persistenza del trascritto al termine della terapia di consolidamento è altamente predittivo della recidiva di malattia. Il monitoraggio del trascritto PML-RARA nel follow-up dei pazienti con LAP dopo il completamento della terapia viene eseguito su sangue midollare ogni 3 mesi e la ricorrenza della positività della RT-PCR è altamente predittivo di recidiva, con una mediana di circa 3 mesi tra la recidiva molecolare e la recidiva ematologica della LAP.

I livelli del trascritto PML-RARA possono essere quantificati mediante qRT-PCR. Non è stata osservata alcuna relazione tra riduzione logaritmica di PML-RARA dopo terapia di induzione e rischio di recidiva, ma il monitoraggio sequenziale della malattia minima residua (MRD) per determinare una positività persistente o ricorrente alla PCR è risultato essere il fattore prognostico indipendente più forte per la recidiva clinica e la sopravvivenza libera da recidiva (Grimwade et al, 2009).

 

  • RUNX1-RUNXT1

Il gene di fusione RUNX1-RUNXT1 (AML1-ETO) è il prodotto della traslocazione t(8;21)(q22;q22), presente nel 7% delle LMA de novo e in rari casi di LMA therapy-related. In base alla classificazione WHO i pazienti con t(8;21)(q22;q22) vengono classificati tra le Leucemie con alterazioni genetiche ricorrenti. La presenza della t(8;21) si associa generalmente ad una prognosi favorevole.

Il trascritto di fusione RUNX1-RUNXT1 viene evidenziato mediante RT-PCR in virtualmente tutti i casi di LMA positivi per la t(8;21) ma anche in alcuni pazienti negativi per la t(8;21) alla citogenetica convenzionale o con cariotipo complesso (van Dongen JJ et al, 1999). I prodotti dei PCR sono di dimensioni costanti e risultano dalla fusione in-frame dell’esone 5 di gene RUNX1 e dell’esone 2 del gene RUNXT1 (Fig. 109).

 

Figura 109. Elettroforesi in gel di agarosio della nested RT-PCR per la ricerca di AML1-ETO. Colonna 1: pesi molecolari (100 bp); colonne da 1 a 6: campioni; colonna 7: controllo positivo; colonna 8: controllo negativo. Il campione in colonna 6 è positivo per la ricerca del gene di fusione AML1-ETO (Immagine cortesemente fornita dal Dr F. Guidi, Istituto di Ematologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma).

 

Incerto è il significato della positività per RUNX1-RUNXT1 nel follow-up, in quanto è stata descritta la persistenza della positività per il trascritto anche in pazienti in remissione a lungo termine dopo trapianto allogenico. Comunque, la quantificazione del trascritto RUNX1-RUNXT1 mediante qRT-PCR su campioni di sangue midollare dopo la terapia di induzione e consolidamento, e su campioni di sangue midollare e periferico durante il follow-up, influenza significativamente il rischio di recidiva: una riduzione > 3 logaritmi di RUNX1-RUNX1T1 dopo il ciclo 1 di chemioterapia di induzione è associata a una più bassa incidenza cumulativa di recidiva, mentre durante il follow-up un tasso di recidiva del 100% si associa a una soglia di MRD di > 500 copie su campioni di midollo osseo e > 100 copie su campioni di sangue periferico (Yin et al, 2012).

  • CBFB-MYH11

Il gene di fusione CBFB-MYH11 è il prodotto della inversione pericentromerica inv(16)(p13;q22) o della traslocazione t(16;16)(p13;q22), a seguito della quale il gene CBFB (core binding factor β subunit), localizzato sul cromosoma 16q22 viene fuso con il gene MYH11 (myosin heavy chain 11) sul cromosoma 16p13. Il breakpoint del gene CBFB è a livello dell’introne 5, mentre la porzione 5’ del gene MYH11 viene deleta nell’aberrazione cromosomica. Sebbene siano stati descritti dieci diversi trascritti, il trascritto A si ritrova nel 85% dei casi. L’inversione inv(16)(p13;q22) e la traslocazione t(16;16)(p13;q22) sono di difficile identificazione con la citogenetica convenzionale, mentre il trascritto di fusione CBFB-MYH11 viene comunemente identificato mediante RT-PCR (Fig. 110) (van Dongen JJ et al, 1999).

 

Figura 110. Elettroforesi in gel di agarosio della nested RT-PCR per la ricerca di CBFB-MYH11. Colonne da 1 a 5: campioni; colonna 6: controllo positivo; colonna 7: controllo negativo; colonna 8: pesi molecolare (100 bp). Il campione nelle colonne 1 è positivo per la ricerca di CBFB-MYH11 (Immagine cortesemente fornita dal Dr F. Guidi, Istituto di Ematologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma).

 

Il gene di fusione CBFB-MYH11 si riscontra nel 5-8% di tutti i casi di Leucemia Mieloide Acuta, frequentemente con differenziazione granulocitaria e monocitaria e anomala componente eosinofila midollare. Si associa generalmente ad una buona prognosi.
Il valore della determinazione del trascritto CBFB-MYH11 nel follow-up dei pazienti con Leucemia Acuta Mieloide con inv(16)(p13;q22) o t(16;16)(p13;q22) ha dato risultati incerti. La PCR negatività durante la terapia di consolidamento o nel follow-up è stata associata a minor rischio di recidiva. I livelli di trascritto di CBFB-MYH11 valutati mediante qRT-PCR sono altamente predittivi del rischio di recidiva: un livello < 10 copie di CBFB-MY11 per 105 copie di ABL su campioni di sangue periferico dopo terapia di induzione e consolidamento è associato a una più bassa CIR, mentre valori soglia di MRD associati a un tasso di recidiva del 100% sono > 50 copie nel midollo osseo e > 10 copie su sangue periferico (Yin et al, 2012).

  • Mutazioni di FLT3

Il fms-like receptor tyrosine kinase-3 (FLT3) è un recettore di membrane ad attività tirosin-chinasica di classe 3 che risulta mutato in circa un terzo dei pazienti con leucemia mieloide acuta. Le due mutazioni più comuni sono le internal tandem duplication (FLT3/ITD) delle sequenze codificanti il dominio juxta-membrana e le mutazioni missenso del dominio chinasico a livello dell’aminoacido D835 (FLT3/KDM), che si ritrovano rispettivamente nel 15-35% e nel 5-10% dei pazienti con Leucemia Acuta Mieloide. Sono state descritte altre mutazioni delle sequenze vicino a D835, incluse inserzioni, mutazioni puntiformi e delezioni. Le mutazioni di FLT3 rappresentano la più frequente alterazione genetica riportata nei pazienti con leucemia mieloide acuta. Le mutazioni FLT3/ITD si associano a leucocitosi e prognosi sfavorevole. Il significato clinico delle mutazioni FLT3/KDM è controverso.
L’identificazione delle mutazioni di FLT3 è raccomandato in tutti i pazienti con leucemia acuta mieloide in quanto è importante nella stratificazione del rischio e nella pianificazione del trattamento. Inoltre rende i pazienti suscettibili all’uso di inibitori di FLT3 in associazione alla chemioterapia convenzionale. La ricerca delle mutazioni di FLT3 viene inoltre utilizzata anche come marcatore di malattia minima residua.
La ricerca delle mutazioni ITD viene eseguita mediante RT-PCR che evidenza nei campioni mutati la comparsa di una banda supplementare di dimensioni superiori all’amplificato wild-type (Fig. 111) (Nakao M et al, 1996).

 

Figura 111. Elettroforesi in gel di agarosio del RT-PCR per ricerca mutazione FLT3 ITD. Colonna 1, 6, 7 e 8: campioni mutati; Colonne 2, 3, 4 e 5: campioni non mutati; Colonna 9: controllo negativo (Immagine cortesemente fornita dal Dr F. Guidi, Istituto di Ematologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma).

 

La mutazione D835 viene studiata mediante RT-PCR e successiva digestione del prodotto amplificato con l’enzima di restrizione Eco RV. I campioni wild-type vengono completamente digeriti dall’enzima con la presenza di due bande di 68 bp e 46 bp, mentre i campioni mutati vengono digeriti solo parzialmente con la persistenza di una banda di 114 bp non digerita (Fig. 112) (Yamamoto Y et al, 2001).

 

Figura 112. Elettroforesi in gel di agarosio del RT-PCR e successiva digestione enzimatica per ricerca mutazione FLT3 D835. M = pesi molecolari; wild = campione non mutato; Mt = campione mutato (immagine da Yamamoto Y et al, 2001).

 

  • Mutazioni di NPM1

Il gene della nucleofosmina (NPM1), codifica per una proteina che fa da shuttle tra nucleolo, nucleo e citoplasma e funziona come “chaperone” molecolare interagendo con diverse proteine, controlla formazione ed esporto di ribosomi, stabilizza la proteina p14Arf nel nucleolo e regola la duplicazione del centrosoma.
Mutazioni di NPM1 si osservano nel 30% delle Leucemie Acute Mieloidi (50-60% delle forme con cariotipo normale), sono mutualmente esclusive con altre alterazioni genetiche ricorrenti e si associano a dislocazione citoplasmatica della nucleofosmina, osservabile in immunoistochimica (Falini B et al, 2005). La classificazione WHO del 2008 identifica come categoria provvisoria tra le Leucemie Mieloidi Acute con ricorrenti alterazioni genetiche le forme con mutazione di NPM1, che presentano distinte caratteristiche genetiche, patologiche, immunofenotipiche e prognostiche.  In particolare le mutazioni di NPM1 si associano a negatività per CD34, cariotipo normale nel 85% dei casi, variabilità morfologica con interessamento multilineare, maggiore frequenza nelle AML de novo e negli adulti, e relativa buona prognosi in assenza delle mutazioni di FLT3-ITD.
Sono state identificate circa 50 varianti molecolari delle mutazioni di NPM1. Il tipo A,  presente nel 75% dei casi, consiste nell’inserzione da 4 nucleotidi TCTG in posizione 956 a livello dell’esone 12 terminale, con alterazione dei residui di triptofano necessari per la corretta localizzazione nucleolare della proteina e formazione di un segnale C-terminale che favorisce la dislocazione nel citoplasma. Le mutazioni B e D consistono nell’inserzione di un tetranucleotide CATG o CCTG in posizione 959 e comprono il 15-20% dei casi. Le mutazioni di NPM1 sono stabili durante il decorso della malattia e possono essere utilizzate con marker per il monitoraggio della malattia minima  residua.
Diverse metodiche sono correntemente utilizzate per la ricerca delle mutazioni di NPM1, utilizzando come substrato il DNA o l’RNA. Differiscono in sensibilità diagnostica intesa come capacità di identificare il maggior numero di mutazioni diverse, e in sensibilità analitica, come proporzione di blasti necessaria per ottenere un risultato positivo.  La PCR con oligonucleotidi allele-specifici (ASO-PCR), la PCR con analisi della melting curve e le PCR e RT-PCR quantitative si associano ad una elevata sensibilità analitica e possono essere utilizzate per lo studio della malattia minima residua (Wertheim G et al, 2008).
La ricerca della dislocazione citoplasmatica dell’NPM1 in immunoistochimica su biopsie osteomidollari  è  predittiva al 100% per la presenza delle mutazioni di NPM1 e rappresenta un valido surrogato diagnostico degli studi molecolari, semplice ed economico, non utilizzabile tuttavia per lo studio della malattia minima residua.

  • Mutazioni di CEBPA

Il gene CEBPA codifica per il fattore di trascrizione CCAAT/enhancer binding protein alpha che svolge un ruolo cruciale nella differenziazione granulocitaria. Mutazioni del gene CEBPA si riscontrano nel 5-14% dei pazienti con AML e si associano comunemente ad una prognosi favorevole. Le mutazioni possono interessare la porzione N-terminale con abolizione della sintesi dell’isoforma funzionale di 42 kDa (p42) in favore della sintesi dell’isoforma di 30 kDa (p30) ad attività inibitoria, oppure la porzione C-terminale con alterazione delle capacità di legare il DNA e di omodimerizzazione ed eterodimerizzazione della proteina. Raramente le mutazioni di CEBPA si ritrovano a livello germinale e sono considerate responsabili di casi familiari di AML. La classificazione WHO delle neoplasie del tessuto emopoietico identifica le AML con mutazione del gene CEBPA come distinta entità nosografica provvisoria. Nel comune iter diagnostico delle AML, la ricerca delle mutazioni per CEBPA è rilevante nella stratificazione prognostica dei pazienti a cariotipo intermedio con citogenetica normale, con sopravvivenza a 5 anni del 65% per pazienti con doppia mutazione (CEBPAdm), del 56% per i pazienti con mutazione singola (CEBPAsm) e del 39% per i pazienti senza mutazioni (CEBPAwt).  La prognosi dei pazienti CEBPAsm è influenzata dal genotipo per FLT3 e NPM1, mentre il genotipo CEBPAdm si associa solo raramente alla presenza di altre mutazioni e viene considerata una entità nosografica distinta con uno specifico profilo di espressione genica (Wouters et al, 2009; Taskesen et al, 2011). La ricerca delle mutazioni di CEBPA viene eseguita mediante sequenziamento diretto della regione codificante di CEBPA, consistente in un unico esone, mediante 3 o 4 distinte reazioni di PCR. Per ridurre il numero di sequenziamenti ed i costi della procedura, si utilizzano metodiche di screening coma la cromatografia  liquida denaturante ad alta performance (dHPLC)  e l’analisi della lunghezza dei frammenti basata sulla PCR con elettroforesi capillare (PCR-CE), che consentono di identificare gli ampliconi con mutazioni da sottoporre a sequenziamento (Wouters et al, 2009 PubMed; Fuster et al, 2012).

  • Espressione di WT1

Il monitoraggio della MRD mediante RQ-PCR dopo chemioterapia di induzione e consolidamento e dopo trapianto di cellule staminale emopoietiche influenza significativamente il rischio di recidiva in pazienti affetti da AML. Tuttavia molti  pazienti con AML non hanno un marcatore molecolare, ad esempio un gene di fusione, da usare per il monitoraggio della MRD. Il gene Wilms tumor WT1 è iperespresso in circa il 90% dei pazienti con AML, e suoi livelli di espressione sono superiori di 2 logaritmi rispetto ai livelli superiori dei controlli normali nel 46%  dei campioni di sangue periferico e nel 13% dei campioni di midollo osseo. Per questi pazienti, le determinazione dei livelli di espressioni di WT1 in RQ-PCR su SP o MO rappresenta un utile marcatore per la MRD. L’MRD Workpackage dell’European LeukemiaNet (ENL) ha valutato 10 diverse metodiche di RQ-PCR per WT1 e selezionato un test standardizzato con migliore affidabilità. La riduzione superiore a 2 logaritmi del trascritto di WT1 dopo terapia di induzione e di consolidamento rispetto ai livelli pretrattamento si associa a un ridotto rischio di recidiva. In particolare l’entità della riduzione dei livelli di WT1 dopo terapia di induzione rappresenta un fattore predittivo indipendente di recidiva (Cilloni et al, 2009).

  • Mutazione di JAK2

Il gene JAK2 si localizza sul cromosoma 9p24 e codifica per una tirosinchinasi citoplasmatica che svolge un ruolo chiave nella trasduzione del segnale da parte di molteplici fattori di crescita.
La mutazione di JAK2 V617F (1849G>T) a livello dell’esone 14 è frequente nelle Neoplasie Mieloproloferative Philadelphia-negative ed in particolare si riscontra nel 96% dei pazienti con Policitemia Vera, nel 55% dei casi di Trombocitemia Essenziale e nel 65% dei casi di Mielofibrosi Idiopatica (Baxter EJ et al, 2005).
Meno frequentemente si riscontra in altre neoplasie del tessuto emopoietico come Sindromi Mielodisplastice e Leucemie Acute Mieloidi. Questa mutazione colpisce il dominio pseudochinasico non catalitico di JAK2 e ne altera la sua attività regolatoria. La mutazione si può presentare anche in omozigosi per effetto della ricombinazione mitotica nei pazienti con Policitemia Vera e Mielofibrosi Idiopatica. Un carico allelico più elevato si associa a un maggior rischio trombotico e di evoluzione in mielofibrosi nei pazienti con Policitemia Vera e un maggior rischio trombotico nei pazienti con Trombocitemia Essenziale.
Le mutazioni di JAK2 a livello dell’esone 12 si riscontrano nel 2% dei pazienti con Policitemia Vera e solo in pazienti negativi per la mutazione V617F. Si associano generalmente con eritrocitosi isolata, giovane età e bassi livelli sierici di Eritropoietina.
Data la sua alta prevalenza, la mutazione JAK2 V617F è un utile marker di clonalità nelle neoplasie mieloproliferative croniche. Lo screening per la mutazione JAK2 V617F è indicato nell’iter diagnostico delle eritrocitosi, trombocitosi, trombosi venose splancniche e granulocitosi BCR-ABL-negative non altrimenti spiegate.
Le mutazioni V617F di JAK2  vengono messe in evidenza mediante una PCR allele specifica (AS-PCR) che utilizza un primer reverse comune e 2 primer forward. Il primo primer forward è specifico per l’allele mutante e contiene un mismatch al terzo nucleotide all’estremità 3’ per aumentare la specificità (prodotto di amplificazione 203 bp); il secondo primer forward amplifica un prodotto di 364 bp sia per l’allele normale che mutante, che funziona da controllo interno (Fig. 113) (Baxter EJ et al, 2005). La determinazione del carico allelico viene eseguita mediante ASO-PCR quantitativa.
Le mutazioni dell’esone 12 di JAK2 vengono studiate mediante amplificazione con PCR e sequenziamento. Non venendo eseguite ruotinariamente, andrebbero ricercate nei pazienti con Policitemia Vera o Eritrocitosi Idiopatica, negativi per la mutazione V617F.

 

Figura 113. Elettroforesi in gel di agarosio dei prodotti della PCR per la ricerca della mutazione di JAK2 V617F. I pazienti wild type presentano una sola banda di 364 bp (campioni 6, 8-12), mentre i pazienti mutati presentano 2 bande ripsettivamente di 364 bp e 203 bp (campioni 1-5 e 7). PV= Policitemia Vera; ET = Trombocitemia Essenziale; IMF =Mielofibrosi idiopatica (immagine da Baxter EJ et al, 2005).

 

  • Mutazioni del gene MPL

Il gene MPL (myeloproliferative leukemia virus oncogene) mappa sul cromosoma 1p34 e codifica per il recettore della trombopoietina. La mutazione W515L/K a livello dell’esone 10 del gene MPL è stata descritta nel 5% dei pazienti con Trombocitemia Essenziale, fino al 10% dei pazienti con Mielofibrosi Primaria. La mutazione MPL S505N è stata invece descritta in casi di trombocitosi familiare. Entrambe le mutazioni risultano nell’attivazione costitutiva del recettore per la trombopoietina contribuendo alla proliferazione dei megacariociti. Diversi metodi vengono utilizzati per la ricerca delle mutazioni dell’esone 10 del gene MPL, tra cui il Sequenziamento diretto, l’ASO-PCR, l’ASO-qPCR, il pirosequenziamento e l’High Resolution Melting (HRM). La sensibilità si aggira intorno al 5% per tutti i metodi eccetto per la ASO-qPCR dove raggiunge il 0.1-0.5%. La presenza delle mutazioni MPL W515L/K rappresenta un criterio maggiore per la diagnosi di Trombocitemia Essenziale e Mielofibrosi Primaria in base alla revisione della Classificazione WHO delle neoplasie mieloidi (Arber et al, 2016) e la ricerca è indicata nei pazienti di diagnosi sospetta di Trombocitemia Essenziale e Mielofibrosi Primaria, negative per la mutazione JAK2 V617F e di CALR (Langabeer et al, 2015).

  • Mutazioni del gene CALR

Il gene CALR, localizzato sul cromosoma 19p13.2, codifica per la calreticulina, una proteina chaperone multifunzionale legante il calcio e localizzata nel reticolo endoplasmico. Mutazioni di CALR, identificante mediante whole exome sequencing, sono state descritte nel 20-25% dei pazienti con Trombocitemia essenziale e Mielofibrosi Primaria e sono assenti nei pazienti con Policitemia Vera. Tali mutazioni sono mutualmente esclusive con le mutazioni di JAK2 e MPL. Nella Trombocitemia Essenziale le mutazioni di CALR si associano ad età più giovane, sesso maschile, più alta conta piastrinica e più bassi livelli di emoglobina e globuli bianchi, minore rischio trombotico e cardiovascolare. Nella Mielofibrosi Primaria tali mutazioni si associato ad età più giovane, più alta conta piastrinica e più bassa frequenza di leucocitosi, anemia e trasfusione dipendenza, mutazioni dei geni dello splicing e migliore sopravvivenza (Tefferi et al, 2016). Le mutazioni di CALR ricadono in genere nell’esone 9 e possono essere: tipo 1, una delezione di 52 bp; tipo 2, una inserzione di 5-bp TTGTC; “tipo 1-like” o  “tipo-2-like” in base alla somiglianza strutturale con le varianti CALR tipo-1 e tipo-2 rispettivamente. Queste mutazioni determinano un frame-shift della sequenza codificante con alterazione del porzione C-terminale della proteina che viene a mancare del motivo KDEL che la mantiene nel Reticolo Endoplasmico. Le metodiche utilizzate per lo screening della mutazioni dell’esone 9 di CALR comprendo l’High Resolution Melting (HRM), la PCR con analisi delle dimensioni dei frammenti e il sequenziamento diretto secondo Sanger, con sensibilità del 96.4%, 98.2% e 89.3% rispettivamente, e specificità del 96.3%, 100% e 100% rispettivamente (Park et al, 2015).

  • Mutazioni del gene CSFR3

Il gene CSF3R codifica per il recettore del fattore di crescita CSF3 (colony-stimulating factor 3) essenziale per la crescita e la differenziazione dei granulociti. Mutazioni del gene CSFR3 erano state descritte in pazienti con neutropenia congenita severa. Mediante un approccio integrato basato sul deep sequencing  abbinato alla inibizione delle tirosin-chinasi con siRNA o piccole molecole, sono state identificate mutazioni del gene CSFR3 nel 90% dei pazienti (8 su 9) con Leucemia Neutrofila Cronica (CNL) e nel  45% dei pazienti (8 su 18) con Leucemia Mieloide Cronica Atipica (aCML). La maggior parte delle mutazioni ricadono nella regione prossimale alla membrana che media i segnali di proliferazione e sopravvivenza cellulare (CSF3R T618I (n = 12) e CSF3R T615A (n = 2). Queste mutazione possono essere isolate o associate a mutazioni non senso che troncano la coda citoplasmatica (una regione importante per la trasduzione della maturazione e soppressione della proliferazione). Entrambe le mutazioni mostrano la capacità di trasformazione in vitro attivando in particolare le vie di segnalazione  JAK-STAT (attivata dalle mutazioni prossimali alla membrana) e la via SRC family –TNK2 (attivata dalle mutazioni che troncano la coda intra-citoplasmatica), risultante in una diversa sensibilità agli inibitori delle chinasi, quali ruxolitinib  e dasatinib rispettivamente (Maxson et al, 2013). Successivamente le mutazioni di CSF3R sono state riportate nel 100% di 12 pazienti con CNL, tutte coinvolgenti il dominio prossimale alla membrana, e in 10 casi su 12 rappresentate dalla CSF3R T618I (Pardanani et al, 2013).
La presenza della mutazione T618I o di altra mutazione del dominio prossimale alla membrana del gene CSFR3 è adesso inclusa tra i criteri diagnostici della CNL nella revisione del 2016 della classificazione WHO delle neoplasie mieloidi (Arber et al, 2016).

  • FIP1L1-PDGFRA

Il gene di fusione FIP1L1-PDGFRA si forma per delezione criptica a livello del cromosoma 4q12 e la sua presenza può associarsi a Leucemia Eosinofila Cronica, e meno comunemente a Leucemia Mieloide Acuta o Leucemia/Linfoma Linfoblastico T con eosinofilia. La classificazione WHO identifica come nuova entità nosografica le Neoplasie Mieloidi/Linfoidi con eosinofilia associate a FIP1L1-PDGFRA. Diverse geni di fusione varianti sono stati descritti, che vedono il gene PDGFRA fuso ad altri partner genici, quali KIF5B, CDK5RAP2, STRN, ETV6 e BCR.  Sia FIP1L1-PDGFRA che le altri varianti molecolari sono molto sensibili all’imatinib a dosi più basse di BCR-ABL. Il gene di fusione FIP1L1-PDGFRA viene messo in evidenza mediante nested-RT-PCR (Fig. 114) (Cools et al, 2003).

 

Figura 114. Elettroforesi in gel di agarosio della nested-RT-PCR per la ricerca di  FIP1L1-PDGFRA. Colonna 1: pesi molecolare (100 bp); colonne 2 e 3: campioni; colonna 4: controllo positivo; colonna 5: contollo negativo. I campioni nelle colonne 2 e 3 sono positivi per la ricerca di FIP1L1-PDGRFA; (Immagine cortesemente fornita dal Dr F. Guidi, Istituto di Ematologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma).

 

  • Mutazione c-Kit D816V

Il proto-oncogene c-kit codifica per un recettore ad attività tirosinchinasica transmembrana di tipo III. Il suo ligando è lo Stem Cell Factor. Dopo il legame con il ligando, c-kit dimerizza e si autoforsforila con conseguente attivazione della tirosinchinasi intrinseca del recettore e fosforilazione di proteine a valle promuovendo proliferazione, maturazione e sopravvivenza cellulare.
Mutazioni di c-kit sono state descritte in diverse neoplasie. La mutazione attivante D816V di c-Kit si ritrova in circa l’80% dei casi di Mastocitosi sistemica e rappresenta un potenziale target terapeutico. Inoltre la ricerca della mutazione di c-Kit D816V è rilevante clinicamente in quanto è uno dei criteri minori per porre diagnosi di Mastocitosi Sistemica. Pazienti con la mutazione D816V di c-kit non rispondono all’imatinib, ma possomo essere sensibili al Dasatinib. Mutazioni di c-Kit, incluse la D816V e le mutazioni dell’esone 8, si riscontrano nel 2-5% delle AML e fino al 12-48% delle Core-Binding Factor (CBF) AML, dove assumono un significato prognostico sfavorevole.
Diverse metodiche sono state utilizzate per la ricerca della mutazione D816V di c-kit.  Il sequenziamento diretto del DNA e l’high-performance liquid chromatography (HPLC) denaturante non vengono comunemente usate di routine data la bassa sensibilità. Altre metodiche includono la PNA (peptide nucleic acid) directed PCR clamping, PCR seguita da restrizione enzimatica e la PCR con oligonucleotidi allele specifici (ASO-PCR). Quest’ultima utilizza due coppie di oligonucleotidi per 2 distinte reazioni di PCR. La prima reazione amplifica una porzione dell’esone 17 di c-kit indipendentemente dalla presenza della mutazione, come controllo dell’amplificabilità del DNA del campione. Nella seconda reazione viene utilizzato un primer forward allele mutante-specifico che si appaia al suo 3’ solo con la sequenza mutata e consente l’amplificazione solo dell’allele mutante e non del wild type. L’ASO-PCR è una metodica sensibile e specifica per la ricerca della mutazione di c-Kit D816V, in grado di identificare la mutazione in presenza di <1% di cellule tumorali, ma non mette in evidenza altre mutazioni di c-kit diverse dalla D816V (Fig. 115) (Schumacher et al, 2008).

 

Figura 115. ASO-PCR per la ricerca della mutazione c-Kit D816V. Il campione del paziente con la mutazione amplifica un prodotto di 184 bp, corrispondente all’allele wild-type, e un prodotto di 90 bp corrispondente all’allele mutante (Immagine cortesemente fornita dal Dr F. Guidi, Istituto di Ematologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma).

 

  • Analisi del riarrangiamento dei geni delle immunoglobuline e del T-cell receptor

Nella maggior parte dei pazienti con sospetta malattia linfoproliferativa, l’istologia e la citologia con l’ausilio dell’immunoistochimica e dell’immunofenotipo in citofluorimetria a flusso sono sufficienti per distinguere tra neoplasia linfoproliferativa e proliferazione linfocitaria reattiva. In una minoranza dei casi la diagnosi deve essere supportata da test di clonalità linfocitaria, che si basano sul presupposto che tutte le cellule tumorali abbiano la stessa origine clonale.
Durante la differenziazione linfocitaria, il riarrangiamento dei geni che codificano per le immunoglobuline (Ig) o il T-cell receptor (TCR) crea delle sequenze di DNA uniche. La quasi totalità nelle neoplasie linfoidi ha sequenze clonalmente riarrangiante dei geni delle Ig o del TCR, che possono essere utilizzate come marcatori di clonalità.
I loci dei geni delle Ig e del TCR contengono molteplici diversi segmenti genici denominati variable (V), diversity (D), e joining (J) che sono soggetti a processi di riarrangiamento ad opera degli enzimi RAG1 e RAG2 durante le fasi precoci della differenziazione linfocitaria. I geni per le catene pesanti delle immunoglobuline (IgH), il TCR beta (TCRB) e il TCR delta (TCRD) producono riarrangiamenti V-D-J, mentre i geni per le catene leggere delle immunoglobuline kappa (IgK) e lambda (IgL), il TCR alpha (TCRA) e il TCR gamma (TCRG) danno luogo a riarrangiamenti V-J. I segmenti di DNA tra i geni riarrangianti vengono deleti. Le possibili ricombinazioni dei segmenti genici V-D-J sono calcolante nell’ordine di 2 x106 per le Ig, 3 x106 per il TCRαβ, e 5 x106 per il TCR γδ. L’inserzione random o la delezione di nucleotidi nei siti di giunzione delle sequenze VDJ aumenta ulteriormente il repertorio di combinazioni ad oltre 1012. Inoltre il processo di ipermutazione somatica che avviene nei linfociti B del centro germinativo dopo l’incontro con l’antigene contribuisce ulteriormente alla diversificazione delle sequenze di DNA mediante sostituzioni, delezioni ed inserzioni di singoli nucleotidi.
Test molecolari di clonalità B e T linfocitaria sono indicati: in caso sospetta neoplasia a cellule B quando la morfologia o l’immunofenotipo non sono conclusivi; in tutti i casi di proliferazioni a cellule T; nelle proliferazioni linfocitarie in pazienti immunodepressi, in particolare dopo-trapianto; per stabilire relazioni di clonalità tra due distinte neoplasie linfoidi nelle stesso paziente,  per discriminare tra recidiva e seconda neoplasia; occasionalmente a completamento della classificazione e della stadiazione dei linfomi.
La metodica del Southern Blot, utilizzata in passato per la ricerca della clonalità dei geni delle Ig e del TCR, è stata rimpiazzata negli ultimi decenni dalla Reazione Polimerasica a catena (PCR), che consente l’uso di DNA in minori quantità e anche di qualità inferiore, rendendo possibile la ricerca della clonalità anche su esigui campioni di tessuto o liquidi biologici o su campioni inclusi in paraffina. I limiti di queste metodiche sono legate alla percentuale di linfociti normali in cui risulta diluita la popolazione neoplastica, con una sensibilità nell’identificare cellule clonali che può variare dal 1 al 10%. Inoltre clonalità non è sempre sinonimo di malignità, e riarrangiamenti clonali cross-lineage sono stati descritti in diverse neoplasie.
Le metodiche di PCR più utilizzate per determinare la clonalità B o T linfocitaria riguardano i geni per le IgH e il TCRG. La quasi totalità delle neoplasie linfoidi T (>98%) ha riarrangiamento clonale del TCRG, pur esprimendo il recettore TCRαβ.
Il BIOMED-2 Concerted Action BMH4-CT98-3936 ha standardizzato i protocolli di PCR e i set di primers per i test diagnostici di clonalità (van Dongen et al. Leukemia 2003). Per il riarrangiamento completo dei geni IgH tre diverse multiplex PCR vengono utilizzate (FR1, FR2 e FR3) con 3 diversi sets di primers che legano le sequenze VH e un singolo consensus primer che lega un regione ad alta omologia sul gene JH. Tre distinte multiplex PCR servono per studiare i riarrangiamenti del TCRB, 2 multiplex PCR per i riarrangiamenti IgH DH-JH incompleti, IgK e TCRG,  mentre 1 sola multiplex PCR è sufficiente per studiare i riarrangiamenti IgL e TCRD.
I prodotti di PCR dei test di clonalità vengono visualizzati mediante analisi eteroduplex o GeneScanning (Fig. 116). L’analisi eteroduplex viene eseguita mediante denaturazione prodotti di PCR ad alta temperature seguita dalla rapida e casuale rinaturazione a bassa temperatura. Questo processo determina la formazione di molteplici eteroduplex con diverse velocità di migrazione in caso di proliferazioni linfocitarie policlonali, mentre porta alla formazione di omoduplex con identica e più rapida migrazione in caso di proliferazioni linfocitarie clonali. La corsa dei prodotti di PCR su gel di poliacrilamide al 6% visualizza così una singola banda in caso di omoduplex, mentre gli eteroduplex formanuo uno smear in posizione più alta (Fig. 116b).
L’analisi in GeneScanning dei prodotti di PCR prevede l’uso di primers marcati con fluorocromi  e l’uso di sequenziatori automatici. I prodotti di PCR a singola catena marcati con fluorocromi vengono separati su polimeri di sequenziamento capillare e analizzati mediante scanning automatizzato con un laser. In caso di proliferazioni linfocitarie policlonali viene osservata una distribuzione Gaussiana di molteplici picchi, mentre le proliferazioni clonali danno luogo ad un singolo picco risultato di un solo tipo di prodotto di  PCR (Fig. 116c).

 

Figura 116. Rappresentazione schematica dell’analisi in eteroduplex e GeneScanning dei prodotti di PCR ottenuti dal riarrangiamento dei geni per le Ig e TCR (immagine da Van Dongen JJ et al, 2003).

 

Le linee guida per l’uso dei test di clonalità sono state recentemente codificate dal consorzio internazionale EuroClonality/BIOMED-2 e sono riassunte nella Figura 117 (Langerak et al, 2012).

 

Figura 117. Protocollo EuroClonality/BIOMED-2 multiplex PCR per l’uso dei test di clonalità PCR-based in sospette malattie linfoproliferative con diagnosi non conclusive o non comune per istologia immunofenotipo e presentazione clinica (Langerak et al, 2012).

 

La sequenza dei prodotti di PCR derivanti dal riarrangiamento clonale dei geni Ig o TCR consente di disegnare primers forward specifici che legano le sequenze uniche V-N-D-N-J o V-N-J del singolo paziente. Questi oligonucleotidi allele-specifici in combinazione con probes e primers reverse che legano le sequenze germline J corrispondenti consentono di monitorare  la malattia linfoproliferiva mediante PCR allele specifica in real time quantitativa (ASO-RQPCR). La metodica ASO-RQPCR ha una sensibilità diagnostica nell’ordine di 10-4 – 10-5 e viene utilizzata sia su campioni di sangue midollare che sangue periferico. Il monitoraggio molecolare di malattia mediante ASO-RQPCR dopo terapia e dopo trapianto di cellule staminali emopoietiche è stato dimostrato essere importante nel predire il rischio di recidiva, la sopravvivenza libera da progressione (PFS) e la sopravvivenza globale dei pazienti con diversi tipi di malattie linfoproliferative, incluse la leucemia linfoblastica acuta, la leucemia linfatica cronica, il mieloma multiplo, i linfomi follicolare e mantellare  (Bruggerman et al, 2006; Dreger et al, 2005; Ferrero et al, 2011; Pott et al, 2010).
Oltre che per finalità diagnostiche, lo studio delle sequenze riarrangiate dei geni per le catene pesanti delle Ig ha prodotto significative nuove conoscenze sulla patogenesi delle malattie linfoproliferative. In particolare la selezione stereotipata non casuale di geni per le regioni variabili delle Ig che contribuiscono alla Complementary Determining Regions (CDR) della molecola Ig nell’ambito di distinti sottotipi di neoplasie linfoidi ha rafforzato l’ipotesi della selezione antigene-guidata del clone linfoide neoplastico. Inoltre l’analisi del fenomeno dell’ipermutazioni somatiche a livello delle regioni variabili delle Ig ha consentito di definire l’origine del clone linfoide neoplastico come pre-centro germinativo, dal gentro germinativo e post-centro germinativo. Le sequenze delle regioni variabili delle catene pesanti dell’immunoglobuline (IgVH) sono state definite come mutate o non mutate in base alla presenza di mutazioni superiori o inferiori al 2% dopo comparazione con le sequenze germline. Nella leucemia linfatica cronica, l’analisi dello stato mutazionale delle IgVH viene routinariamente eseguita e la presenza di IgVH non mutate rappresenta un parametro prognostico sfavorevole. Lo studio dello stato mutazionale IgVH viene eseguito su DNA genomico o, molto più comunemente su RNA retrotrascritto a cDNA, mediante una multiplex PCR con l’uso di una miscela di primers 5’ specifici per ogni sequenza leader delle famiglie da VH1 a VH6, insieme con una miscela di primers complementari alle regioni germ line JH o primers 3’ complementari alla regione costante. I prodotti di PCR vengono sequenziati mediante sequenziatori automatici e le sequenze nucleotidiche allineate con le sequenze germline presenti sui databse nucleotidici (EMBL/GenBank o V-BASE sequence directory). Le sequenze con più del 98% di omologia con le sequenze germline vengono considerate non mutate (Hamblin et al, 1999).

  • t(11;14)(q13;q32)

La traslocazione t(11;14)(q13;q32) è caratteristica del Linfoma Mantellare e si riscontra sporadicamente in altre malattie linfoproloferative a fenotipo B. I punti di rottura si localizzano in una regione di 360 kb al 5’ del gene ciclina D1 (CCND1). Nella metà dei casi di linfoma mantellare, i breakpoints si localizzano a livello di una regione di 85 bp denominata major translocation cluster region, BCL1-MTC. Nella maggior parte dei casi, la rottura a livello del locus IgH 14q32 interessa i geni JH, giustapponendo l’enhancer IGH-Eµ alle sequenze sul cromosoma 11q13, con conseguente attivazione trascrizionale del gene ciclina D1. La ciclina D1 insieme a CDK4 fosforila inattivando pRB e permette la progressione del ciclo cellulare attraverso la fase G1. La ciclina D1 non è espressa nei linfociti B e nei linfomi diversi dal mantellare. Poiché la presenza della traslocazione t(11;14)(q13;q32) correla con l’espressione della ciclina D1, sia l’espressione che la presenza della traslocazione sono elementi addizionali della diagnosi differenziale dei linfomi B.
Il gold standard per l’identificazione la traslocazione t(11;14) è la FISH in interfase, capace di individuare la traslocazione nella quasi totalità dei casi di linfoma mantellare. Le metodiche basate su PCR riescono ad identificare circa il 40% dei casi con un’alta percentuale di falsi negativi, ma sono utili nel monitorare la malattia minima residua (Fig. 118) (Van Dongen JJ et al, 2003).

 

Figura 118. Elettroforesi in gel di agarosio della nested-PCR per la ricerca della t(11;14). Colonne da 1 a 7: campioni; colonna 7: controllo positivo; colonna 8: controllo negativo. Il campione in colonna 6 è positivo per la t(11;14) (Immagine cortesemente fornita dal Dr F. Guidi, Istituto di Ematologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma).

 

  • t(14;18)(q32;q21)

La traslocazione t(14;18) si riscontra nel 90% dei linfomi follicolari e nel 20% dei Linfomi diffusi a grandi cellule B. La ricerca della t(14;18) è importante sia per la diagnosi che per il monitoraggio della malattia minima residua.
In conseguenza della traslocazione il gene antiapoptotico BCL2 sul cromosoma 18q21 viene posto sotto il controllo degli enhancer del locus IgH sul cromosoma 14q32.3, risultante nella deregolazione del suo normale pattern di espressione.
La rottura sul locus IgH avviene nel corso il processo di ricombinazione VDJ e una delle sei regioni germline JH viene ad essere strettamente giustapposta al gene BCL2. I pattern di rottura sul cromosoma 18q21 sono variabili. La maggior parte dei breakpoints cadono in una regione di 150 bp, denominata Major Breakpoint Region (MBR), localizzata alla regione 3’ non tradotta dell’esone 3.  Un’altra regione di rottura è posizionata 4 kb a valle dell’MBR, denominata 3’ MBR, che si estende per 3.8 kb. La minor cluster region (mcr) è localizzata 20 kb al 3’ della regione MBR e copre una regione di 500 bp. Sono stati descritti anche altri siti di rottura al 5’ di BCL2, ma la loro frequenza è rara e non vengono ruotinariamente amplificati mediante PCR.
Le tecniche di diagnostica molecolare basate sulla PCR riescono ad evidenziare solo il 60% delle traslocazioni t(14;18), con un’alta percentuale di falsi negativi (Van Dongen JJ et al, 2003). Il test è di facile applicabilità e consente di monitorare la malattia minima residua (Fig. 119 A e B).

 

 

Fig. 119A                                      Fig. 119B

Figura 119. A) Elettroforetica in gel di agarosio della PCR per t(14;18) riarrangiamento MBR. Colonne 1-6: campioni; colonna 7: controllo positivo; colonna 8: controllo negativo; colonna 9: pesi molecolari (100 bp). Il campione in colonna 4 è positivo per la t(14;18) riarrangiamento MBR (Immagine cortesemente fornita dal Dr F. Guidi, Istituto di Ematologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma). B) Elettroforetica in gel di agarosio della PCR per t(14;18) riarrangiamento mcr. Colonne 1-6: campioni; colonna 7: controllo positivo; colonna 8: controllo negativo; colonna 9: pesi molecolari (100 bp). Il campione in colonna 1 è positivo per la t(14;18) riarrangiamento mcr (Immagine cortesemente fornita dal Dr F. Guidi, Istituto di Ematologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma).

 

  • Mutazione del gene BRAF V600E

Il sequenziamento dell’intero esoma delle cellule  leucemiche e delle corrispondenti cellule normali di un paziente indice affetto da leucemia a cellule capellute (hairy cell leukemia, HCL) ha portato all’identificazione della mutazione puntiforme allo stato eterozigote a livello dell’esone 15 dell’oncogene BRAF con sostituzione dell’acido glutammico al posto della valina in posizione 600 (V600E). Tale mutazione era stata precedentemente descritta nei melanomi e nei carcinomi papillari della tiroide ed è stata confermata essere presente nel 100% dei casi di HCL mentre risulta assente nelle altre neoplasie linfoproliferative a cellule B, inclusi il linfoma marginale splenico, i linfomi splenici della polpa rossa e la HCL variante (Tiacci et al, 2011). La mutazione V600E  porta alla attivazione costitutiva della proteina BRAF con conseguente fosforilazione dei bersagli a valle MEK e ERK, che contribuiscono alla aumentata proliferazione cellulare e alla trasformazione neoplastica. Il metodo di sequenziamento ha una bassa sensibilità nell’identificare BRAF V600E richiedendo almeno la presenza del 30% di cellule leucemiche circolanti nel sangue periferico. Per la ricerca della mutazione di BRAF V600E nella comune pratica clinica, è stata messa appunto una PCR allele specifica semplice e non costosa, con una specificità diagnostica del 100% ed una sensibilità di identificare l’allele mutante dello 0.1% (Tiacci et al, 2012). Il test consiste in 2 distinte reazioni di PCR che hanno in comune il primer reverse, ma che si differenziano per il primer forward, l’uno specifico per l’allele wild type l’altro per l’allele mutato. I prodotti di PCR vengono evidenziati mediante elettroforesi su gel di agarosio.

  • Mutazione del gene MYD88 L265P

Il sequenziamento dell’intero genoma di 30 pazienti con Marcoglobulinemia di Waldenstom ha portato all’identificazione nelle cellule linfoplasmocitarie della mutazione somatica (T→C) in posizione 38182641 sul cromosoma 3p22.2 corrispondente alla sostituzione aminoacidica L265P del gene MYD88. Tale mutazione, confermata col sequenziamento con metodo Sanger, si riscontrava sia negli elementi linfoplasmacellulari neoplastici midollari e tissutali ma non nei tessuti normali dello stesso paziente ed è stata riscontrata nel 91% dei pazienti con Macroglobulinemia di Waldestrom e linfomi linfoplasmociti non IgM secernenti, ma è rara o assente in altri sottotipi di malattia linfoproliferativa, quali il mieloma plasmacellulare, linfoma della zona marginale, gammopatie monoclonali IgM di incerto significato (Treon et al, 2012). Questa mutazione è descritta anche, mediante un approccio indipendente con sequeziamento dell’intero esoma, nel 29% dei linfomi diffusi a grandi cellule B sottotipo a cellule B attivate (ABC DLBCL), ma non in altri sottotipi di Linfomia a grandi cellule e nel Linfoma di Burkitt. La mutazione L265P di MYD88 riveste un ruolo patogenetico importante in quanto promuove la sopravvivenza cellulare assemblando il complesso proteico contenete IRAK1 e IRAK4, con conseguente attivazione della chinasi IRAK4, fosforilazione di IRAK1, segnalazione attraverso NF-κB, attivazione di STAT3 ad opera della chinasi JAK e secrezione di IL-6, IL-10 e interferon-β (Ngo et al, 2011).
A parte il Sequenziamento con Metodo Sanger, diverse metodiche sono disponibili per una ricerca semplice, rapida e non costosa della mutazione MYD88, tra cui la PCR-RFLP, l’analisi ad alta risoluzione della curve di melting, la ASO-PCR (Fig. 120) (Gachard et al, 2013; Wang et al, 2012; Xu et at, 2013). La ricerca della mutazione MYD88 L265P può rappresentare un utile strumento diagnostico per la diagnostica differenziale tra malattie linfoproliferative borderline quali la macroglobulinemia di Waldenstrom/linfoma linfoplasmocitico, linfomi della zona marginale e linfomi linfocitici, nonché potrà avere implicazioni terapeutiche per futuri sviluppi di terapie target.

 

Figura 120. Mismatch PCR-RFLP per l’identificazione della mutazione MYD88. Colonna 1: pesi molecolari (100 bp); colonne 2-5: campioni; colonna65: controllo negativo. I campioni delle colonne 2 e 5 sono positivi per la mutazione MYD88 L265P (Immagine cortesemente fornita dal Dr F. Guidi, Istituto di Ematologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma).

 

  • Gene expression profiling

Le neoplasie del tessuto emopoietico originano dell’accumulo di molteplici aberrazioni genetiche ed epigenetiche acquisite a livello somatico nelle cellule staminali/progenitori emopoietici, risultanti in un’alterata espressione genica. L’identificazione di specifiche alterazioni citogenetiche e molecolari è alla base dell’attuale classificazione delle neoplasie del tessuto emopoietico e riveste considerevole importanza nella pianificazione del trattamento e stratificazione prognostica dei pazienti.
All’inizio degli anni 2000, l’avvento di nuove tecnologie nello studio del genoma ha permesso una migliore caratterizzazione delle alterazioni molecolari alla base della eterogeneità clinica e biologica delle neoplasie mieloidi e linfoidi. Il gene expression profiling (GEP) basato sulla tecnologia dei microarray, valutando l’espressione contemporanea di migliaia di geni, ha identificato specifici profili di espressione genica associati a distinte malattie. In particolare il GEP ha consentito di identificare caratteristici pattern di espressione genica in sottoclassi di neoplasie mielodi e linfoidi con specifiche aberrazioni genetiche e/o molecolari, di identificare nuovi sottoclassi di leucemie e di predire la risposta alla terapia standard, offrendo contemporaneamente nuovi approfondimenti sulla patogenesi delle neoplasie e identificando nuovi target molecolari per la scoperta di nuovi farmaci (Theilgaard-Mönch et al, 2011).
Sebbene diverse tecnologie e piattaforme di microarray sono state utilizzate, c’è una forte evidenza che la tecnologia del GEP può essere standardizzata per la diagnostica in quanto distinti patterns di espressione genica sono molto robusti con alta riproducibilità sia all’interno della stessa piattaforma che tra piattaforme diverse.
Il programma di studio collaborativo Microarray Innovations in Leukemia (MILE) nato intorno al gruppo di studio internazionale European LeukemiaNet comprendente 11 laboratori di tre diversi continenti, ha valutato l’accuratezza clinica dei profili di espressione genica, confrontati con il corrente algoritmo diagnostico di routine, per 16 sottoclassi di leucemie acute e croniche, sindromi mielodisplastiche e un gruppo di controllo comprendente midolli normali e di disordini non maligni. In una prima coorte di 2096 pazienti, il GEP ha ottenuto un’accuratezza diagnostica del 92.2% per 18 distinti sottotipi di malattie con una specificità mediana del 99.7%. In una seconda coorte di 1152 pazienti raccolti in maniera prospettica, la classificazione basata sul GEP ha raggiunto una sensibilità mediana del 99.7% e una specificità mediana del 99.8% per 14 sottotipi standard di leucemie acute (Haferlac et al, 2010).
Il GEP è in grado di predire la presenza di alterazioni genetiche ricorrenti nei pazienti con Leucemia Mieloide Acuta, quali t(8;21), inv16, t(15;17) e le alterazioni del gene MLL/t(11q23), e di alterazioni molecolari quali mutazioni di CEBPA and NPM1. Inoltre mediante studi di GEP, è stato identificato un pannello di 133 geni in grado di predire la prognosi dei pazienti (Bullinger et al, 2004).
Studi di GEP nei pazienti con Sindromi Mielodisplastiche sono stati eseguiti sia su cellule purificate CD34+ o CD133+, che su cellule mononucleate midollari non frazionate, con risultati più eterogenei rispetto agli studi sulle leucemie acute. In generale, studi di GEP hanno mostrato comunemente deregolazione di pathways genetici connessi con la segnalazione dell’Interferon e della trombopoietina e della via di Wnt. Le forme di Sindromi Mielodisplastiche a basso rischio presentano deregolazione dei geni della sorveglianza immunitaria, dell’apoptosi e delle vie di segnalazione delle chemochine, mentre le forme ad alto rischio sono caratterizzate da alterazione della risposta al danno del DNA e dei checkpoint del ciclo cellulare. Distinti profili di espressione genetica sono stati descritti nelle forme con alterazioni genetiche ricorrenti quali 5q-, trisomia 8 e 7-/del(7q). Nello studio MILE, l’accuratezza diagnostica del GEP è stata tuttavia solo del 50% su campioni di cellule mononucleate midollari non frazionate di pazienti con Sindrome Mielodisplastica, ma ha permesso l’identificazione di un profilo genico con valore prognostico associato ad un maggior rischio di trasformazione in Leucemia Acuta (Theilgaard-Mönch et al, 2011).
Gli studi di GEP hanno permesso identificare nell’ambito dei Linfomi Diffusi a Grandi cellule B (DLBCL) due principali sottotipi molecolari: il primo caratterizzato dall’espressione di un set di geni tipici del linfocita B del centro germinativo è denominato germinal center B-cell like (GCB) DLBCL; l’altro sottotipo, denominato activated B-cell like (ABC) DLBCL, esprime un set di geni up-regolati nei linfociti B attivati del sangue periferico e ha una prognosi peggiore rispetto ai GCB-DLBCL. Un piccolo subset di pazienti presenta un profilo di espressione genica diversa sia dal GCB – che dal ABC-DLBCL e viene denominato inclassificabile (Alizedh et al, 2000). Il linfoma a cellule B primitivo del mediastino presenta caratteristiche molecolari diverse dal GCB- e ABC-DLBCL, con arricchimento in geni coinvolti nella via di segnalazione dell’IL13 somigliando dal punto di vista molecolare più al Linfoma di Hodgkin (Savage et al, 2003).
L’uso del GEP è al momento riservato solo a studi clinici e non è ancora entrato nella routinario algortimo diagnostico delle neoplasie del tessuto emopoietico. Sebbene abbia enormi potenzialità nell’identificare molteplici alterazioni genetico/molecolari importati per la classificazione e stratificazione prognostica delle leucemie, è una tecnologia in continua evoluzione che necessita di un significativo supporto tecnico ed analitico. Inoltre ulteriori studi sono necessari per conferire il giusto significato all’enorme quantità di dati ottenuta con l’analisi del GEP.

  • Next generation sequencing

Il sequenziamento del DNA mediante Next-Generation Sequencing (NGS) o deep sequencing rappresenta la principale innovazione nella diagnostica molecolare in oncoematologia degli ultimi anni. Rispetto al sequenziamento tradizionale, la NGS consente il sequenziamento massivo e parallelo di frammenti di DNA che coprono grandi porzioni del genoma se non l’intero genoma, con una maggiore accuratezza, minori errori di sequenza, tempi ridotti e costi contenuti rispetto al sequenziamento tradizionale. C’è stata una rapida proliferazione del numero di piattaforme NGS disponibili sul mercato, tra cui Illumina,  Applied Biosystems SOLiD System, 454 Life Sciences (Roche), Helicos HeliScope, Complete Genomics, Pacific Biosciences PacBio, Life Technologies Ion Torrent e Oxford Nanopore.
Le applicazioni della NGS allo studio delle neoplasie del tessuto emopoietico e linfoide includono il sequenziamento dell’intero genoma (Whole-Genome Sequencing, WGS), delle sole regioni codificanti (Whole-Exome Sequencing, WES)  di un ristretto numero di geni di importanza per la patologia in corso di studio (targeted-NSG), o del trascrittoma (RNA-seq). La NSG può essere applicata inoltre allo studio dei marcatori epigenetici e della struttura della cromatina dell’intero genoma mediante metodi di sequenza alternativi come il ChIP-seq, il methyl-seq e il DNase-seq.
La WGS offre la possibilità di identificare un range completo di alterazioni genomiche tra cui mutazioni puntiformi, inserzioni/delezioni (indels), cambiamenti in numero di copie, riarrangiamenti strutturali quali traslocazioni, riarrangiamenti criptici, inversioni e riarrangiamenti complessi dell’intero genoma. La profondità della resa del sequenziamento (sequencing depth coverage) è del 20-40X. Vengono generalmente analizzati in modo abbinato il campione patologico e campione normale del paziente per distinguere tra polimorfismo e mutazione somatica.
La WES è una metodica più economica che mira ad indentificare mutazioni nelle sole sequenze codificanti per le proteine, pari circa all’1% del genoma, con conseguente riduzione dell’enorme mole di dati da analizzare e dei tempi. LA WES prevede una fase di arricchimento del DNA genomico per gli esoni (exome-capture) tramite oliconucleotidi antisenso e separazione con biglie magnetiche. Visto che l’85% delle mutazioni ricade nelle regioni codificanti, la WES rappresenta una valida alternativa alla WGS. Gli svantaggi sono rappresentati dall’impossibilità di identificare traslocazioni cromosomiche, che spesso coinvolgono regioni introniche, e alterazioni strutturali quali grosse delezioni o inserzioni. La profondità della resa del sequenziamento è del 100X garantendo una maggiore sensibilità rispetto alla WGS per la ricerca di mutazioni somatiche a bassa frequenza.
La RNA-seq o sequenza del trascrittoma è una tecnica che consente di sequenziare geni trascritti, RNA codificanti e non codificanti (ncRNA). Rispetto alla WGS, la RNA-seq dà informazioni sul livello di espressione genica, identifica trascritti di fusione espressi e modificazioni post-trascrizionali quali splicing alternativo, varianti di singoli nucleotidi (SNV) e eventi di RNA editing.
La targeted-NGS consiste nel sequenziamento di un ristretto pannello di geni significativi per la patologia oggetto di studio, previo arricchimento del DNA genomico per sequenze target, con sensibile riduzione dei costi,  tempi e quantità di dati prodotti alla fine processo, con una maggiore utilità nel contesto clinico. Questo approccio migliora ulteriormente la profondità della resa del sequenziamento a 500-1000X, permettendo il rilevamento di varianti alleliche inferiori al 2%.
Le fasi della NGS sono simili tra le varie metodiche con alcune variazioni a seconda della piattaforma utilizzata ed includono: preparazione del template, sequenziamento degli acidi nucleici, imaging e analisi dei dati. La preparazione del template consiste nella costruzione e amplificazione di una library di acidi nucleici (DNA genomico o cDNA), tagliando il campione di DNA in frammenti di circa 500 bp o meno e legando le sequenze adapter alle estremità dei frammenti. Le libraries vengono quindi amplificate prima del sequenziamento mediante emulsion PCR o amplificazione in fase solida a seconda della metodica utilizzata, e soggette a sequenziamento. In alcune tecnologie il sequenziamento avviene per sintesi con utilizzo dei frammenti della library come template per la sintesi di frammenti di cDNA e registrazione digitale dei nucleotidi inseriti mediante metodi fluorimetrici o iono-sensibili (semiconductor-sequencing). I dati ottenuti vengono processati per rimuovere gli adapters, eliminazione delle letture di bassa qualità, allineamento alla sequenza di riferimento o ricostruzione della sequenza, e analisi della sequenza completa.
L’avvento della NSG ha consentito l’identificazione di numerose nuove lesioni genetiche e potenziali nuovi target terapeutici,  che hanno contribuito a definire meglio la patogenesi, la classificazione e la prognosi di diverse neoplasie mieloidi e linfoidi, dimostrando come un approccio molecolare basato sullo studio del singolo gene non rispecchia la complessità della patologia e non è in grado di fornire al clinico tutte informazioni prognostiche derivanti dalla biologia della malattia.
Nelle leucemia mieloidi acute (AML) la NGS ha portato alla scoperta di nuove lesioni genetiche, soprattutto nei pazienti con cariotipo normale, tra cui le mutazioni dei geni DNMT3A, IDH1, IDH2, TET2, ASXL1, che hanno mostrato significato prognostico in diversi studi clinici. Le mutazioni del gene DNMT3A sono presenti nel 29-36% dei pazienti con leucemia mieloide acuta a cariotipo normale (CN-AML), in prevalenza rappresentate da mutazioni missenso a livello dell’aminoacido R882, inattivano l’enzima DNMT3A e sono state associate a inferiore OS e RFS. Mutazioni ricorrenti dei geni per le isoforme IDH1 e IDH2 dell’isocitrato deidrogenasi si riscontrano nell’16% delle CN-AML, riguardano i codoni R132 dell’IDH1 e R140 o R172 dell’IDH2, risultando in un aumento dell’attività di questi enzimi con aumentata trasformazione dell’alfa-ketoglutarato a 2-idrossiglutarato, e si associano a prognosi sfavorevole in termini di OS e DFS nei pazienti con cariotipo normale. Le mutazioni del gene TET2, coinvolto nella demetilazione del DNA, si riscontrano nel 24% delle AML, ma anche in altre neoplasie mieloidi, e si associano ad una prognosi sfavorevole nei pazienti con cariotipo intermedio. Le mutazioni del gene ASXL1, che codifica per una proteina del gruppo Polycomb, si riscontrano nel 5-10% delle AML, soprattutto in pazienti con cariotipo intermedio e si associano a inferiore OS (Ilyas et al, 2015; White et al, 2014).
L’avvento delle nuove metodiche di  high-throughput sequencing ha portato all’identificazione di lesioni genetiche nel 80-90% delle Sindromi Mielodisplastiche (MDS), rispetto al 20-30% della citogenetica convenzionale, aumentando significativamente le conoscenze sulla patogenesi molecolare di queste malattie e la stratificazione prognostica dei pazienti. I geni comunemente mutati nelle MDS presentano una significativa sovrapposizione con quelli mutati nelle AML e possono essere divisi in 5 categorie funzionali, comprendenti i geni coinvolti nello spliceosoma  (U2AF1, SF3B1, SRSF2, e ZRSR2), modificatori epigenetici (TET2, DNMT3A, BCOR, ASXL1, IDH1, and IDH2), coesine (STAG2, RAD21, e SMC3), fattori di trascrizione (RUNX1, WT1, and ETV6), e molecole di segnalazione (NF1, NRAS, CBL, PTPN11, JAK2, and FLT3). Le mutazioni di SF3B1 sono più frequenti nei pazienti con anemia refrattaria con sideroblasti ad anello (RARS) e citopenia refrattaria con displasia multilineare e sideroblasti ad anello (RCMD-RS), e conferiscono un significato prognostico favorevole (Malcovati et al 2013).  Le mutazioni dei geni TP53, EZH2, ETV6, RUNX1, e ASXL1 sono state associate ad una ridotta sopravvivenza nei pazienti con MDS, in maniera indipendente dall’IPSS. Diversi pannelli di targeted-NGS sono stati sviluppati e validati su ampie coorti di pazienti. Dall’analisi mutazionale di 104 mediante deep-sequencing su 944 pazienti con vari sottotipi di MDS, Haferlach et al. hanno riscontrato mutazioni nel 90% dei pazienti, con una frequenza mediana di 3 mutazioni per pazienti. Quarantasei geni risultavano mutati in maniera significativa con 6 geni che erano mutati in più del 10% dei pazienti (TET2, SF3B1, ASXL1, SRSF2, DNMT3A, e RUNX1). Lo stato mutazionale di 14 geni in associazione ai fattori prognostici convenzionali dell’IPSS-R è stato utilizzato per definire un nuovo modello prognostico che discrimina 4 gruppi di rischio (basso, intermedio, alto e molto alto) con sopravvivenza a 3 anni di 95.2, 69.3, 32.8 e 5.3% (P<0.001) (Haferlach et al 2014).
L’applicazione di tecniche di NGS ha documentato lesioni genetiche ricorrenti patogeneticamente rilevanti in molteplici malattie linfoproliferative, tra cui la leucemia linfatica cronica, il linfoma diffuso a grandi cellule B, il linfoma di Burkitt, il linfoma marginale splenico, il linfoma mantellare, la leucemia a cellule capellute e la Macroglobulinemia di Waldenström.
La WES applicata alla Leucemia Linfatica Cronica ha portato all’identificazione di mutazioni dei geni NOTCH1, BIRC3 e SF3B1 che sebbene poco comuni nei pazienti di nuova diagnosi, sono significativamente più rappresentate nei pazienti con malattia chemio-refrattaria e nei pazienti con trasformazioni in sindrome di Richter. La NGS è inoltre in grado di identificare mutazioni e delezioni dei geni TP53 e ATM, con sensibilità superiore rispetto al Sanger sequencing e alla FISH, e consente l’identificazione di subcloni con significativo impatto sulla prognosi. In considerazione della relativa bassa complessità genetica della Leucemia Linfatica Cronica, un approccio mediante targeted NGS è auspicabile per una corretta stratificazione del rischio dei pazienti e conseguente migliore scelta terapeutica, mediante identificazione di mutazioni/delezioni dei geni TP53 e ATM, stato mutazionale e stereotipia dei geni IGVH, e mutazioni dei geni NOTCH1m BIRC3 e SF3B1 (Zent et al, 2014).
Nella Macroglobulinemia di Waldenstrom (WM) la WGS ha identificato mutazioni attivanti ricorrenti dei geni MYD88 L265P e CXCR4, rispettivamente nel 90% e 27% dei pazienti affetti. Tali mutazioni si associano alle caratteristiche cliniche dei pazienti ed hanno un impatto sulla prognosi. Le mutazioni di MYD88 L265P sono state già descritte in precedenza. Le mutazioni di CXCR4 sono mutazioni non-senso o frameshift simili a quelle osservate a livello germline nella sindrome WHIM (warts, hypogammaglobulinemia, infections and myelokathexis), e portano ad una forma del recettore tronca della porzione intracellulare e costitutivamente attiva. Lo stato mutazionale dei geni MYD88 e CXCR4 influenza la risposta dei pazienti con WM all’ibrutinib, con ORR del 100% nei pazienti MYD88(L265P)CXCR4(WT), del 85% nei pazienti MYD88(L265P)CXCR4(WHIM), e del 71,4% nei pazienti MYD88(WT)CXCR4(WT) (Treon et al, 2015).
Le metodiche di NGS applicate ai linfomi diffusi a grandi cellule B (DLBCL) hanno rivelato un complessa eterogeneità genetica caratterizzata prevalentemente da mutazioni di geni che svolgono ruoli cruciali nella modificazione della cromatina, nelle vie di segnalazione (BCR signaling, Toll-like receptor signaling, NOTCH1 signaling, NFkB pathway e PI3K pathway), nel controllo del ciclo cellulare e dell’apoptosi. I DLBCL a fenotipo activated B cell-type (ABC) si caratterizzano per le mutazioni di MYD88, attivatore delle vie di NF-kB e JAK-STAT3 a seguito della stimolazione del Toll-like receptor e dei recettori delle interleukine, in circa il 30% dei casi (più comune la sostituzione L265P), e dei geni per il CD79A e CD79B, coinvolti nel BCR signaling, nel 18% dei casi. I DLBCL a fenotipo germinal-center B cell-like, così come i linfomi follicolari, si caratterizzano per le mutazioni di EZH2 (nel 23% dei DLBCL GCB e 11% dei FL), MEP2B  (nel 12% dei DLBCL GCB e 11% dei FL), BCL2, GNA13 e SGK1. Comuni ad entrambi i sottotipi di DLBCL sono le mutazioni di CARD11, attivatore di NF-kB (nel 10% dei DLBCL), di CREBBP e EP300, codificanti per istone-acetiltransferasi (nel 32% dei GCB e 13% dei non-GBC), di MLL2, codificante per un’istone metiltransferasi (nel 33% dei DLBCL, ma presente anche nel 90% dei linfomi follicolari) e FOXO1 (nel 8.6% dei DLBCL). Nonostante la significativa eterogeneità molecolare, questi geni mutati sono stati utilizzati come potenziali bersaglio di terapie target ed il loro significato prognostico è stato validato in trial clinici con l’uso di targeted-NSG (Jardin el at, 2014).
L’uso di metodiche di deep sequencing applicato ai geni delle regioni variabili delle Immunoglobuline (IgVH) e del T-cell receptor (TCR) è stato applicato anche al monitoraggio della malattia minima residua dopo terapia nelle leucemie linfoblastiche acute, nei linfomi e nei mielomi, rivelando una sensibilità superiore rispetto alla metodiche convenzionali di citofluorimetria e di ASO-PCR.
La NGS è stata utilizzata anche sul circulating-tumor DNA (ctDNA) per la ricerca di mutazioni tumore-specifiche e dei riarrangiamenti dei geni per le IgVH e TCR. Il ctDNA ha una breve emivita (circa 2 ore) che consente rispetto ad altri biomarcatori una valutazione più attuale dello stato del tumore e compare nel sangue dei pazienti settimane se non mesi prima della visualizzazione del tumore con le metodiche diagnostiche e  di imaging, rappresentando un campione ideale per il monitoraggio molecolare dei pazienti con sensibilità superiore rispetto al sangue intero.
In conclusione, un profilo genetico-molecolare mediante deep-sequencing rappresenta un approccio fattibile e altamente promettente per una migliore comprensione della patogenesi e una maggiore accuratezza diagnostica, sottoclassificazione biologica e stratificazione prognostica dei pazienti con neoplasie del tessuto emopoietico e linfoide. Considerando la progressiva riduzione dei costi e perciò la disponibilità di questa tecnologia per lo studio di grossi numeri di pazienti, in un futuro molto prossimo il profilo molecolare mediante target-NGS dovrà essere integrato con le correnti metodiche morfologiche, citofluorimetriche e genetico-molecolari nell’iter diagnostico delle neoplasie ematologiche con un significativo impatto sulle decisioni terapeutiche.

Infine, la NGS permette il riscontro di mutazioni somatiche nel sangue periferico e/o nel midollo osseo anche in individui normal, definendo la presenza di unaemopoiesi clonale .

 

BIOPSIA OSTEOMIDOLLARE

 

La biopsia osteomidollare è una procedura che permette di valutare la struttura e l’architettura midollare del paziente  ma, rispetto all’aspirato midollare, è una tecnica meno sensibile nell’identificare la morfologia e i dettagli delle cellule e nel valutare la percentuale di distribuzione delle differenti classi cellulari. Con questa metodica la distribuzione midollare delle cellule a più bassa frequenza come i megacariociti e le cellule dello stroma può essere valutata in maniera accurata. Esistono quindi precise indicazioni diagnostiche, rappresentate dalle seguenti condizioni:
a) pazienti con un midollo ipocellulato e/o aplastico e/o con fibrosi midollare;
b) pazienti in cui il prelievo di sangue midollare è risultato inadeguato o insufficiente (punctio sicca);
c) pazienti con lesioni focali sospette per patologie granulomatose e/o linfomatose;
d) pazienti con pancitopenia associata a leucoeritroblastosi nell’analisi dello striscio periferico che induca a  sospettare una fibrosi midollare e/o mieloftisi e/o presenza di metastasi tumorali;
e) pazienti con neoplasia mieloproliferativa cronica Ph negativa;
f) pazienti con mieloma multiplo;
g) pazienti con citopenia periferica.
In particolare, nell’ambito delle neoplasie linfoproliferative la biopsia ossea deve essere considerata indagine elettiva nei linfomi non Hodgkin (LNH) con stadio avanzato di malattia (III-IV) e, indipendentemente dallo stadio di malattia, in tutti i LNH di basso grado che mostrano spesso un’infiltrazione del midollo.
Nei linfomi di Hodgkin tale procedura andrebbe riservata ai pazienti in cui si associa una citopenia o nei pazienti con infezione concomitante da HIV, i quali si presentano spesso con uno stadio di malattia avanzato (IVB). Più in generale la biopsia ossea viene eseguita nelle neoplasie linfoproliferative per la stadiazione iniziale e nel follow-up, in quanto più sensibile dell’aspirato aspirato midollare nel valutare la presenza di infiltrati linfocitari clonali, specialmente in presenza di un incremento delle fibre reticolari nelle aree infiltrate.
Nel mieloma multiplo questa tecnica ha una funzione essenziale nella diagnosi non solo in presenza di fibrosi o di ipocellularità, ma anche nei casi di infiltrazione plasmacellulare focale.
La biopsia ossea riveste un ruolo importante nella diagnostica delle neoplasie mieloproliferative Ph  negative  in quanto fornisce informazioni utili sia per la diagnosi differenziale tra policitemia vera (PV) (Fig 122), trombocitemia essenziale (TE) e mielofibrosi primitiva (MP), sia per l’identificazione delle rispettive fasi prodromiche. In particolare, una panmielosi midollare associata alla presenza di megacariociti iperlobati più frequentemente aggregati in cluster identifica la PV e la pre-PV, mentre la iperplasia megacariocitaria con megacariociti prevalentemente non aggregati, di dimensioni abnormi e con abbondante citoplasma identifica la TE. La MP nella fase prefibrotica appare contraddistinta da ipercellularità con un aumento dei megacariociti che appaiono caratteristicamente pleiomorfici: megacariociti di grosse dimensioni coesistono con forme di dimensioni notevolmente ridotte e con la presenza di atipie nucleari (Kvasnicka HM, Thiele J, 2010) (Fig. 123). Al fine di identificare i megacariociti visto il pleiomorfismo cellulare, può essere utile ricorrere alle tecniche di immunoistochimica con l’utilizzo di marcatori megacariocitari, come CD42 e CD61 (Wilkins BS, 2011) (Fig. 124).
La  MP negli stadi MF0-MF1 non presenta una modifica delle fibre reticoliniche e collagene che invece appaiono notevolmente aumentati nella fase fibrotica (MF2-MF3), fase in cui è possibile identificare con la immunoistochimica la presenza di blasti CD34 positivi più spesso riuniti in cluster. Nella Figura 125 è illustrato un caso di leucemia mieloide cronica atipica con fibrosi midollare diffusa e miosclerosi (Grado MF3).

 

Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_122Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_123

Fig.122                                            Fig.123

Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_124Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_125

Fig.124                                            Fig.125

Figura 122. Biopsia ossea di policitemia vera: è evidente un marcato aumento dei precursori eritroidi e granulocitari. I megacariociti sono aumentati e polimorfi – Figura 123. Neoplasie mieloproliferative: fase prodromica. A) midollo ipercellulato nella PV con iperproliferazione trilineare(panmielosi). B) Midollo normocellulato della TE ma con la presenza di megacariociti di grosse dimensioni, spesso con nuclei iperlobati.  C) Cluster di megacariociti anormali nella MP (Kvaniska, 2010) – Figura 124. Megacariociti: l’utilizzo di CD61(A) permette di evidenziare una maggiore  variabilità di dimensioni  dei megacariociti, difficilmente apprezzabile nel preparato con H&E (B)(Wilkins, 2011) – Figura 125. Leucemia mieloide cronica atipica con fibrosi midollare. Biopsia ossea: A, B, C & D) Infiltrazione di granulociti immaturi e di ALIP (precursori immaturi a localizzazione abnorme). E) Fibrosi diffusa e severa con miosclerosi (MF3).

 

La immunoistochimica applicata ai preparati di biopsia ossea è una metodica che, utilizzando anticorpi monoclonali, consente l’identificazione simultanea dell’espressione antigenica e della morfologia delle cellule da identificare. Pertanto, anche nei casi in cui l’aspirato risulta sufficiente per la diagnosi definitiva, la biopsia ossea può comunque svolgere un importate ruolo per l’applicazione della tecnica di immunoistochimica.

Pannelli base di Primo Livello consentono di identificare la linea cellulare neoplastica.
Nell’ambito della diagnostica delle neoplasie linfoproliferative, un pannello di screening di primo livello deve includere gli anticorpi monoclonali CD3, CD19, CD79a e CD20 che sono, rispettivamente, marcatori pan-T e pan-B. Nella Figura 126 si evidenzia una infiltrazione di un LNH B ad alto grado di malignità (IV stadio). Nella Figura 127 (Zhang QY, Foucar K, 2009) e nella Figura 128 (Arber DA, George TI, 2005) sono illustrati rispettivamente il pattern di infiltrazione intrasinusoidale in un linfoma splenico marginale e in un linfoma follicolare. La possibilità di effettuare, sempre con metodica immunoistochimica, uno studio dei fattori di trascrizione MUM1/IRF4 consente ulteriori discriminazioni diagnostiche (Fig. 129) (Falini B et al, 2000). MUM1/IRF4 è una proteina della famiglia dei fattori di regolazione dell’interferone (IRF) ed è stata inizialmente  descritta come regolatore a valle dei segnali dell’interferone. E’ presente in quantità differenti nel sistema emopoietico a seconda della linea cellulare e dello stadio maturativo. E’ però principalmente presente nelle plasmacellule e nei linfociti maturi del centro germinativo, quindi in quelli che costituiscono la light zone, ed appare mutuamente esclusivo con il Bcl-6. Nelle neoplasie ematologiche è fortemente espresso nel mieloma multiplo, nel linfoma linfoplasmocitico, nel linfoma di Hodgkin e in quasi la metà dei linfomi diffusi a grandi cellule B, che sono CD10 negativi e Bcl-6 negativi e hanno una prognosi peggiore. MUM1/IRF4 è invece sembrato inizialmente essere assente nel linfoma follicolare e nel linfoma mantellare. In realtà recenti dati della letteratura evidenziano come il linfoma follicolare di grado 3a/3b presenti una più debole espressione di CD10 e Bcl-6 ed una espressione di MUM1 che quindi è in grado di identificare un sottogruppo ad alto grado. Nel caso in cui si sospetti un linfoma di Hodgkin deve essere aggiunto il CD30 (Fig. 130) (Zhang QY, Foucar K, 2009).
Nello screening delle neoplasie mieloproliferative, sindromi mielodisplastiche e leucemie acute, l’utilizzo del CD34 (Fig. 131) (Bennett JM, Orazi A, 2009) fornisce una conferma dei risultati ottenuti con altre indagini diagnostiche, morfologia e citofluorimetria. L’impiego del CD34 nei preparati istologici della biopsia ossea è indispensabile per la diagnosi nelle forme ipocellulate ovvero in quei casi in cui il prelievo di aspirato midollare non sia risultato sufficiente (punctio sicca). La determinazione della mieloperossiodasi (MPO), quando positiva, conferma l’appartenenza dei blasti alla linea granulocitica. I piccoli megacariociti atipici nelle neoplasie nieloproliferative Ph negative (in particolare nella mielofibrosi) e i micromegacariociti nelle sindromi mielodisplastiche possono risultare difficilmente identificabili alla semplice osservazione in Ematossilina & Eosina, pertanto in questi casi un ruolo diagnostico rilevante viene assunto dai marcatori CD42b o CD61.
Infiltrati di macrofagi ed altre patologie che mimano infiltrazione granulomatose sono frequentemente causa di incertezze diagnostiche: l’utilizzo del CD68 è fondamentale per confermare la presenza di macrofagi. Poiché anche le mastcellule esprimono il CD68, in caso di dubbio diagnostico, la vera natura di queste cellule deve essere confermata con il CD117 o la triptasi.
Infine nel sospetto di metastasi di tumore solido si può utilizzare per la diagnosi differenziale un pannello di primo livello che include CD45 (marcatore pan-leucocitario) CAM5.2 (per la citocheratina), EMA (antigene epiteliale di membrana), S100 (positivo negli schannomi, ependimomi e astrogliomi) e Melan A per i melanomi.

L’impiego di pannelli più estesi, di Secondo Livello, di anticorpi monoclonali risulta a volte indispensabile per la formulazione diagnostica.
Nell’ambito dei linfomi non Hodgkin B (LNH B) al pannello base si aggiunge lo studio di CD5, CD23 e CD10 per completare lo studio del fenotipo.
Importante è lo studio di Bcl-6, un fattore di trascrizione che sopprime p53 nei linfociti B del centro germinativo: la sua costitutiva espressione protegge la linea cellulare B dall’apoptosi indotta da danni sul DNA. Bcl-6 permette le fisiologiche mutazioni del DNA nei linfociti B come la mutazione somatica e lo switch isotipico. Generalmente la down-regulation di Bcl-6 permette al linfocito maturo di uscire dal centro germinativo mentre la iper-espressione si riscontra in numerosi LNH B, particolarmente nel LNH B diffuso a grandi cellule.
Anche lo studio della ciclina D1 assume un ruolo importante nella diagnosi del LNH mantellare (Fig. 132) dal momento che la traslocazione t(11;14) o il riarrangiamento 11q23 inducono una iper-espressione della ciclina D1(Fig. 133) (Zhang QY, Foucar K, 2009). La t(11;14) è presente in circa il 70% dei linfomi mantellari. Va sempre considerato anche il Ki-67, una proteina strettamente associata al ciclo cellulare, è espressa durante le fasi G1,G2, S e mitosi ma è assente nella fase G0, per cui Ki-67 rappresenta un eccellente marcatore della frazione di crescita di una determinata popolazione cellulare.
Bcl-2 risulta iperespresso nel linfoma follicolare (particolarmente se di grado I-II) e in circa il 20% dei linfomi di Burkitt, mentre nel LNH B diffuso a grandi cellule ne identifica un sottogruppo che origina dal centro germinativo.

 

Fig. 126 Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_126  Fig. 127 Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_127 Fig. 128 Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_128

 

Fig. 129 Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_129  Fig. 130  Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_130 Fig. 131  Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_131

Fig. 132 Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_132 Fig. 133 Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_133 

Figura 126. Biopsia ossea: LNH-B ad alto grado Stadio IV: Le cellule linfomatose sono positive per CD20 e PAX-5 – Figura 127. Linfoma della zona marginale splenico: la colorazione con H&E e CD20 mostra un pattern intrasinusoidale di infiltrazione (Zhang, 2009) – Figura 128. Linfoma follicolare: è il linfoma che più frequentemente si organizza a formare nel midollo osseo centri germinativi e strutture follicolari (A e B) (Arber, 2005) – Figura 129. Espressione di MUM1: A) Linfoma diffuso a gradi cellule B (DLBC) che mostra diffusa colorazione nucleare e citoplasmatica con MUM1(sezione di linfonodo). B) DLBC negativo per la colorazione di MUM1, l’elemento evidenziato è un normale linfocito (sezione di linfonodo). C) Plasmacellule che mostrano una forte espressione nucleare e citoplasmatica della proteina (biopsia ossea) (Falini, 2005) – Figura 130. Linfoma di Hodgkin: immagine citologica della cellula di Reed Sternberg (a sinistra). La cellula di Reed-Sternberg con linfociti ed istiociti (centro). Cellule di Reed Sternberg che mostrano una colorazione citoplasmatica e di membrana con il CD30 e nucleare con il PAX-5 (destra) (Zhang, 2009) – Figura 131. Leucemia acuta mieloide ipocellulare:  A) Numerosi cluster di cellule immature in un midollo ipocellulato. B) Molti blasti sono positivi al CD34 (Bennett, 2009) – Figura 132. Biopsia ossea: Linfoma mantellare, variante blastoide pleiomorfica. Biopsia midollare: A & B) Infiltrazione midollare di cellule linfomatose C) CD20 positive e D) CD5 positive – Figura 133. Linfoma mantellare: caratteristiche morfologiche nel sangue periferico (in alto a sinistra) e nell’aspirato midollare (in basso a sinistra). La biopsia ossea mostra un pattern d’ infiltrazione interstiziale da parte di elementi positivi al CD20 (in alto a destra) ed alla ciclina D1 (in basso a destra) (Zhang, 2009).

                                       

Nei casi in cui si sospetti un Burkitt oppure un linfoma linfoblastico va sempre esclusa la diagnosi di una leucemia linfoblastica utilizzando i  marcatori  TdT e CD34. Anche PAX-5, proteina che gioca un ruolo importante nel processo di sviluppo e differenziazione della cellula B, può essere di valido aiuto, assieme al CD22 e Cd79a citoplasmatico nella diagnosi di una leucemia linfoblastica acuta B (Fig. 134) (Nasr MR et al, 2010).
Nel sospetto di  hairy cell leukemia vanno aggiunti il CD25 ed il CD103.
Nel linfoma di Hodgkin, insieme al CD30, il CD15 va sempre utilizzato per confermare la presenza delle cellule di Reed Sternberg. Inoltre è necessario effettuare la ricerca della proteina EBV-LMP1, uno dei prodotti genici del virus di Ebstein Barr, che risulta essenziale per la trasformazione neoplastica dei linfociti B.
Nel mieloma multiplo bisogna estendere il pannello base con il CD138 (marcatore plasmacellulare) e il CD56 (che identifica le plasmacellule patologiche) e studiare la clonalità; se non si conosce la natura della catena pesante si possono aggiungere anticorpi per le IgA, IgG, IgD  e/o IgM (Fig.135)(Bayer-Gardner IB et al, 2001).
Nello studio delle neoplasie linfoproliferative a cellule T vanno inclusi nel pannello gli anticorpi monoclonali CD2, CD4, CD5, CD7, CD8 e CD25. Nella sindrome di Sezary i linfociti sono maturi e generalmente CD4 positivi mentre mancano dell’espressione di CD7 (Fig.136) (Zhang QY, Foucar K, 2009). Il CD30 andrebbe sempre considerato nelle neoplasie linfoproliferative T al fine di identificare il linfoma anaplastico a grandi cellule mentre il CD10 è di aiuto nella diagnosi del linfoma T angioimmunoblastico. Il linfoma T epato-splenico è CD4 e CD8 negativo (Fig.137), mentre risulta positivo per CD3 e per il recettore ϒδ.
Per studiare le neoplasie linfoproliferative a cellule NK si utilizzano gli anticorpi monoclonali CD56, CD57 e la ricerca dei mediatori citotossici come la perforina, granzima B e FAS.

 

Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_134Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_135

Fig.134                                            Fig.135

Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_136Zini_piattaforme_di-diagnosi_in ematologia_Figura_137

Fig.136                                            Fig.137

Figura 134. Leucemia linfoblastica acuta: A) omogenea diffusione in H&E. B) Forte positività nucleare al PAX-5. C) CD79a intracitoplasmatico . D) Positività citoplasmatica e di membrana al CD22 (Nasr, 2010) – Figura 135. Mieloma multiplo:  A) Gran parte delle plasmacellule nella sezione esaminate sono CD138 positive. B) Le plasmacellule CD138 negative sono morfologicamente indistinguibili da quelle CD138 positive. C) Le plasmacellule presenti all’interno della matrice extracellulare sono CD138 positive. D) Plasmacellule CD138 positive si trovano negli spazi intrasinusoidali ed intravascolari (Bayer-Garner, 2001) – Figura 136. Sindrome di Sézary: aspetto morfologico di una cellula di Sezary (a sinistra), pattern di infiltrazione alla colorazione con H&E (centro) e colorazione con il CD3 (a destra) (Zhang, 2009) – Figura 137. Linfoma T epato-splenico: Biopsia epatica: A & B) Infiltratione di cellule atipiche con nuclei di dimensioni variabili, profilo irregolare e abbondante citoplasma con prevalente distribuzione intra-sinusoidale: la emopoiesi midollare trilineare è ben rappresentate. C) Le cellule linfomatose sono CD3 positive e D) TIA-1 positive, mentre sono risultate negative per CD4, CD8, CD20 e granzime.

 

Follow-up

La  biopsia ossea associata all’immunoistochimica può essere utilizzata come procedura per valutare lo stato della malattia nel follow-up dei pazienti, perché consente di confrontare le caratteristiche cellulari morfologiche e antigeniche con quelle riscontrate alla diagnosi. Ovviamente i pannelli da utilizzare sono differenti a seconda della patologia da studiare e a seconda del pattern identificato alla diagnosi. Sinteticamente nei linfomi non Hodgkin B è sufficiente associare al CD3 il CD20, CD79a e Ki-67 mentre nei linfomi non Hodgkin T si utilizzano in genere il CD2, CD3, CD4, CD8 e CD20. Nel linfoma di Hodgkin si deve aggiungere lo studio con CD30 al pannello base, mentre il mieloma multiplo va studiato utilizzando CD138,  κ/λ e MUM1/IRF4.

Il laboratorio di emocoagulazione in oncoematologia

 

Il laboratorio di emocoagulazione

 

Il laboratorio di emocoagulazione ha come finalità precipua quella di studiare il funzionamento del sistema emostatico. Per emostasi (dal greco aı‛móστaσις, composto di αἶμα, “sangue” e στάσις, “stasi”) si intende l’arresto di un’emorragia che si può realizzare spontaneamente con il meccanismo della coagulazione, cioè con una serie di reazioni bio­chimiche e cellulari, sequenziali e sinergiche, finalizzate a impedire la perdita di sangue dai vasi. È pertanto un meccanismo di difesa deputato al mantenimento dell’in­tegrità dei vasi sanguigni e della fluidità del sangue ed il suo mancato o rallentato funzionamento può essere causa di diatesi emorragica.
Quando l’attivazione della cascata coagulativa avviene invece in maniera incongrua o sproporzionata (lesione endoteliale, stasi circolatoria, ipercoagulabilità plasmatica) si instaura un processo trombotico ed il tappo emostatico non necessario diventa trombo che occupa lo spazio intravascolare arterioso o venoso.
L’emostasi coinvolge fattori vascolari, piastrinici e pla­smatici. Classicamente, il processo emostatico si distingue in emostasi primaria (articolata nella fase vascolare e nella fase piastrinica) e in emostasi secondaria (fase pla­smatica o coagulativa).
Il processo emostatico può quindi essere suddiviso in quattro fasi, tenendo sempre presente, però, che i vari sistemi coinvolti si influenzano vicendevolmente e sono intima­mente interconnessi. Le fasi sono le seguenti:

  • fase vascolare;
  • fase piastrinica;
  • fase coagulativa;
  • fase fibrinolitica.

Fase vascolare. All’inizio c’è un breve periodo di vasoco­strizione, dovuto a meccanismi neurogeni riflessi e a fat­tori umorali come l’endotelina, che è un potente vasocostrittore di origine endoteliale. La contrazione vascolare è più evidente nei vasi con parete muscolare ben definita e serve a ridurre momentaneamente la perdita di sangue.
Fase piastrinica. La lesione delle cellule endoteliali espone il tessuto connettivo sottoendoteliale altamente trombo­genico, al quale le piastrine aderiscono con successivo processo di attivazione, che comporta un cambiamento nella forma piastrinica (shape change) e una reazione di esocitosi.
I fattori che si liberano dai granuli piastrinici (ADP, trom­bossano A2, serotonina e altri) reclutano ulteriori pia­strine che aggregano le prime, così da formare il tappo piastrinico. Tale reazione piastrinica avviene entro pochi minuti dalla lesione e, insieme alla vasocostrizione, co­stituisce la cosiddetta emostasi primaria.
Fase coagulativa. In caso di lesioni capillari, l’emostasi primaria è sufficiente a riparare il danno. Se si tratta di lesioni di vasi di calibro maggiore, l’esposizione del suben­dotelio e di fattore tissutale (tissue factor, TF) nel sito di lesione, insieme ai fattori piastrinici, attiva il sistema della coagulazione, che porta alla formazione di trombina. La trombina converte il fibrinogeno in fibrina, formando il coagulo di fibrina e stimolando un ulteriore reclutamento di piastrine. Tutto ciò richiede più tempo e il processo viene definito emo­stasi secondaria. Viene quindi prodotto il tappo emo­statico secondario o permanente. La fibrina polimerizzata e le piastrine formano una massa solida che tampona l’emorragia nel sito della lesione.
Fase fibrinolitica. Una volta che la lesione vascolare è stata riparata, si verifica la dissoluzione del coagulo stesso mediante il processo della fibrinolisi.
Tutti i meccanismi deputati al mantenimento della fluidità del sangue e dell’integrità dell’apparato vascolare, per esse­re efficaci, devono intervenire rapidamente e devono rima­nere il più possibile confinati a livello della lesione. Questo obiettivo viene raggiunto mediante un complesso sistema di controllo a opera di inibitori specifici sia dei fattori della coagulazione sia della fibrinolisi. Tale sistema di controllo è complesso ed estremamente efficace, e le concentrazioni plasmatiche delle molecole di controllo sono molto più elevate di quelle dei fattori sui quali agiscono.
Nell’organismo integro vi è sempre una certa attivazione del sistema emostatico. Infatti, anche in condizioni fisiologi­che, non esiste un’assoluta integrità vascolare: continui microtraumi determinano minime lesioni endoteliali per cui una parte del fibrinogeno viene continuamente convertita in fibrina (cosiddetta emostasi fisiologica). In uno stato di equilibrio emostatico funzionale, la fibrina viene continua­mente rimossa mediante il processo della fibrinolisi. L’emo­stasi fisiologica risulta da un equilibrio fra i meccanismi favorenti il processo emostatico nella sua generalità e i si­stemi a esso antagonisti.
Lo spostamento dell’equilibrio (cosiddetta bilancia emo­statica) nel senso di un aumento o di una diminuzione dell’attività emostatica ha importanti conseguenze pato­logiche. Nonostante le alterazioni dell’emostasi possano essere dovute a numerose cause e seguire molte vie pato­genetiche, le manifestazioni cliniche finali si possono ri­condurre a due quadri fondamentali:

  • un’incontrollata attivazione intravasale dell’emostasi, che dà luogo a manifestazioni trombotiche;
  • un difetto del sistema emostatico, che dà luogo a manifestazioni emorragiche.

 

Esami di laboratorio per lo studio dell’emostasi

 

Gli esami di laboratorio impiegati per lo studio dell’emo­stasi si dividono in immunologici e funzionali.
Le tecniche immunologiche impiegate per la determina­zione della concentrazione antigenica dei fattori implica­ti nell’emostasi non differiscono da quanto applicato in qualunque settore diagnostico (per es. metodiche immu­noenzimatiche).
Più peculiari sono i test funzionali, che possono essere distinti in metodi coagulativi, metodi cromogenici e me­todi aggregometrici.
I metodi coagulativi sono effettuati sul plasma ottenuto da sangue prelevato in citrato di sodio, un chelante de­bole che pertanto rende indisponibili gli ioni calcio e impedisce il proseguimento del processo emostatico inne­scato al momento del prelievo. L’aggiunta, nel sistema in vitro, di ioni calcio permette la ripresa di tale processo e la rilevazione della formazione di fibrina. Tra i metodi coagulativi vi sono alcuni test globali impiegati come primo filtro per la valutazione del processo coagulativo.
I test cromogenici si basano sull’idrolisi di un substrato cromogenico a cui è stato legato un gruppo cromoforo (per es. paranitroanilina). La liberazione del gruppo cromoforo provoca una variazione dell’assorbanza diret­tamente proporzionale all’idrolisi del substrato. La me­todica può essere di tipo diretto, misurando la variazione di assorbanza provocata dall’idrolisi causata da una serin-proteasi (per es. proteina C) direttamente sul substrato, o di tipo indiretto, misurando mediante la variazione di assorbanza la capacità di idrolisi di un reagente fornito nel kit diagnostico in relazione alla concentrazione nel plasma in esame dell’inibitore che si sta testando (per es. l’idrolisi provocata dalla trombina o dal FXa aggiunto nel sistema in relazione ai livelli di antitrombina: tanto mino­re il livello di antitrombina nel plasma in esame, quanto maggiori l’idrolisi del substrato e la conseguente assor­banza).
I test aggregometrici sono volti a studiare la funzionalità delle piastrine. L’aggregometria ottica, eseguita su plasma ricco di piastrine, è un metodo in vitro per determinare l’entità dell’aggregazione, indotta da agonisti quali ADP, TxA2 o collagene, su una sospensione piastrinica. Le variazio­ni della densità ottica permettono di monitorare la rispo­sta piastrinica.

 

Test dell’emostasi di primo livello

 

Tempo di tromboplastina parziale attivato (aPTT). È il tempo necessario affinché un’aliquota di plasma povero di piastrine coaguli in seguito all’aggiunta di un attivatore della fase di contatto (caolino, acido ellagico, silice micro­nizzata), fosfolipidi in funzione di sostituto piastrinico e ioni calcio a 37 °C. Il range di normalità varia notevol­mente a seconda del tipo di attivatore, di regola da 28 a 34 secondi. L’aPTT è sensibile a difetti di circa il 30-40% di tutti i fattori della coagulazione, eccetto che per il FVII e il FXIII. L’eparina prolunga l’aPTT, per cui quest’ultimo viene utilizzato spesso per il monitoraggio della terapia epari­nica. Un tempo prolungato può anche essere causato da un difetto di uno o più fattori della coagulazione o dalla presenza di un inibitore di un fattore della coagulazione.
Tempo di protrombina (PT o tempo di Quick). In questo test il plasma viene ricalcificato in presenza di un’alta concentrazione di TF (tromboplastina tissutale). Il tes
t individua i casi in cui siano presenti anomalie di FV, FVII e FX, della protrombina e del fibrinogeno; il PT normale varia da 10 a 12 secondi, in rapporto al particolare reagente impiegato, contenente TF, e ad altri dettagli tecnici. Un PT più lungo di 2 secondi rispetto al valore normale di con­trollo del laboratorio deve essere considerato anormale e ne va indagato il motivo. Il PT è un esame utile per lo screening dei disturbi della coagulazione in varie condi­zioni acquisite (per es. carenza di vitamina K, epatopatie, CID). Il PT viene anche impiegato per controllare la tera­pia con anticoagulanti cumarinici. Il range terapeutico del PT dipende dalla tromboplastina utilizzata in ogni labora­torio. Il rapporto internazionale normalizzato (Internatio­nal Normalized Ratio, INR, valore normale 0,9-1,1) è stato introdotto dalla WHO (World Health Organization) per standardizzare internazionalmente il controllo della terapia anticoagulante. L’INR è il rapporto del PT del paziente rispetto al PT del controllo elevato all’indice di sensibilità internazionale (ISI), che viene determinato paragonando ogni reagente con la tromboplastina della WHO.
Tempo di trombina. Per determinare il tempo di trombina, il plasma da saggiare e un plasma normale di controllo vengono fatti coagulare con l’aggiunta di un reagente contenente trombina bovina diluito, in modo tale da dare un tempo di coagulazione di circa 15 secondi per il plasma di controllo. Poiché il test è indipendente dalle reazioni che generano trombina, esso è usato per riconoscere specificamente le anomalie che interessano la reazione trombina-fibrinogeno: eparina, presenza in alta quantità di prodotti di degradazione della fibrina e alterazioni qualitative del fibrinogeno.
Stabilità del coagulo di fibrina. Viene saggiata facendo coagulare 0,2 mL di plasma con 0,2 mL di cloruro di Ca e incubando un coagulo in 3 mL di una soluzione di NaCl e un altro coagulo in 3 mL di urea 5M per 24 ore a 37 °C. La lisi del coagulo incubato in soluzione di NaCl indica un’eccessiva fibrinolisi. La lisi del coagulo incubato con urea indica un difetto di FXIII. Un test normale non esclude un’anomalia della fibrinolisi di lieve entità ma potenzialmente significativa dal punto di vista clinico (per es. una riduzione del tasso plasmatico di a2-antipla­smina dal 10 al 30% del range normale).
Prodotti di degradazione della fibrina. Possono essere misurati aggiungendo plasma non diluito (e a varie dilui­zioni) a particelle di lattice ricoperte di anticorpi mono­clonali che reagiscono esclusivamente con derivati della fibrina che contengono D-dimeri, generati quando la fibrina che ha subito legami covalenti crociati ad opera del FXIIIa è degradata dalla plasmina. La positività del test dimostrata dall’agglutinazione delle particelle di lattice. Gli anticorpi non reagiscono con il fibrinogeno, ragione per la quale il test può essere effettuato con del plasma, né con i prodotti di degradazione del fibrinogeno, poiché questi non hanno subito i legami covalenti crociati.

 

Test dell’emostasi di secondo livello

 

Tra i test di secondo livello va considerato il dosaggio dei singoli fattori eseguito in maniera mirata a seconda dei risultati dei test globali.
Un prolungamento isolato del PT in presenza di valori normali di aPTT orienta verso un difetto di FVII (via estrinseca secondo la denominazione convenzionale); in caso di prolungamento dell’aPTT in presenza di valori normali del PT, i fattori della coagulazione che vanno indagati sono FXII, FXI, FIX e il complesso del FVIII (FVIII coagulante, antigene von Willebrand, cofattore ristocetinico): i fattori, cioè, storicamente identificati come la via intrinseca della coagulazione. Un prolunga­mento molto marcato è caratteristicamente presente in caso di difetto della fase di contatto (FXII, PKK, HMWK).
In caso di prolungamento di entrambi i test bisognerà richiedere il dosaggio di FV, FX, FII e del fibrinogeno (cosiddetta via comune).
PT e aPTT possono essere alterati contemporaneamente anche nei casi di carenza multipla, come nelle alterazioni acquisite della coagulazione che si riscontrano, per esem­pio, in corso di trattamento con anticoagulanti orali o eparina, nelle epatopatie e nella sindrome da CID.
Per quanto riguarda le carenze di inibitori fisiolo­gici della coagulazione, con conseguente diatesi trombo­tica, non è stato per ora validato nessun test globale di screening corrispondente ai test di primo filtro per l’identificazione di una diatesi emorragica e la ricerca delle singole altera­zioni va effettuata in maniera mirata con l’esecuzione di un pannello diagnostico di test mirati al dosaggio della singola proteina (per es. dosaggio antitrombina, proteina C anticoagulante, proteina S libera).

 

Le alterazioni emostatiche nelle leucemie acute

 

Nelle leucemie acute all’esordio, ma anche durante il decorso della malattia, per il contributo di chemioterapia ed infezioni intercorrenti, eventi trombotici e manifestazioni emorragiche possono verificarsi contemporaneamente come parte di una stessa sindrome detta” trombo-emorragica” (THS) (Falanga A et al, 2007); tale quadro si esprime laboratoristicamente con un’alterazione di tutti i principali parametri emostatici, delineando il più delle volte un quadro di Coagulazione Intravascolare Disseminata (CID)(Barbui T et al, 2001) (Figura 138).

 

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Figura 138. Fisiopatologia della CID

 

Uno stato “ipercoagulante” è presente virtualmente in tutti questi pazienti, in alcuni casi anche senza manifestazioni cliniche. Sebbene la patogenesi dell’ipercoagulabilità sia complessa, un ruolo fondamentale è svolto da importanti cambiamenti molecolari delle cellule leucemiche: queste cellule iperesprimono fattori procoagulanti, come molecole di adesione e citochine capaci sia di indurre cambiamenti nella parete vascolare e sia di stimolare l’aumento delle interazioni cellulari. Recenti studi molecolari in modelli sperimentali di tumori umani hanno dimostrato che la trasformazione neoplastica mediata da oncogeni e geni soppressori induce direttamente la coagulazione del sangue.
Il modello di THS per eccellenza è la leucemia acuta a promielociti (LAP) (Falanga A et al, 2011): la traslocazione 15;17 induce l’iperespressione del TF, trigger dalla fase plasmatica della cascata coagulativa, rendendo il paziente “ipercoagulante”. Vengono amplificate  in senso protrombotico le diverse fasi del processo coagulativo; questo comporta un iperconsumo dei fattori della coagulazione (attivatori ed inibitori) che alla fine determina una clinica a doppia impronta trombo-emorragica.
L’iperespressione di TF, verosimilmente veicolato nel plasma da microparticelle costituite da frammenti di membrana dei promielociti patologici, è uno dei maggiori determinanti della coagulopatia della LAP, ma non l’unico, tanto che nella LAP i test di laboratorio mostrano un profondo squilibrio emostatico con attivazione della coagulazione, della fibrinolisi e di sistemi proteolitici aspecifici.
I fattori endogeni espressi dalle cellule leucemiche includono anche proteine fibrinolitiche ed enzimi proteolitici (proteasi) specifici o meno per i fattori della coagulazione (un esempio è il Cancer Procoagulant (CP), cistein-proteasi che attiva il fattore X). Inoltre le cellule neoplastiche stesse hanno un’aumentata capacità di aderire all’endotelio vascolare e di secernere interleuchina-1beta (IL-1beta) e tumor necrosis factor (TNF) che a loro volta stimolano l’attività protrombotica di cellule endoteliali e leucociti.
L’acido all-transretinoico (ATRA), la cui introduzione precoce nel trattamento di questi pazienti ha cambiato la storia naturale della LAP, può interferire in tutte le principali proprietà emostatiche delle cellule leucemiche, riducendone così il potenziale procoagulante, parallelamente all’induzione della differenziazione cellulare.

Diagnosi di laboratorio

 

Nessun test singolo è abbastanza sensibile e specifico per porre diagnosi di CID. La diagnosi si basa sulla combina­zione del quadro clinico e dei dati di laboratorio, ancor più attendibili e informativi se valutati in maniera seriata (Barbui T et al, 2001).
Inoltre, mentre la CID acuta tipicamente supera i mecca­nismi anticoagulanti compensatori, risultando in una deplezione di fattori e in una marcata alterazione di tutti gli esami di laboratorio, la CID cronica o localizzata può produrre solo minime anomalie nei test coagulativi.
Dal momento che la formazione di fibrina è la compo­nente centrale della CID, è evidente che, se i livelli pla­smatici di fibrina solubile risultano elevati, la diagnosi di CID può essere consistente; tuttavia, tale dato, nella maggior parte dei casi, non è disponibile in tempo utile, dato che non sono routinariamente disponibili i test messi a punto per distinguere fibrinogeno, fibrina stabi­lizzata (cross-linked) e fibrina solubile.
Altri test di laboratorio comunemente usati risultano spesso alterati in caso di CID. Tipicamente è presente una piastrinopenia da moderata a severa,che nel caso delle leucemie acute può sommarsi alla piastrinopenia da infiltrazione midollare, e talora sono evidenziabili, allo striscio di sangue periferi­co, frammenti eritrocitari, indice di microangiopatia.
La fibrinolisi è anch’essa una componente importante della CID. La dimostrazione di un aumento significativo dei prodotti di de­gradazione del fibrinogeno (FDPs) e della fibrina stabilizzata (D-dimeri) è indispensabile per la diagnosi di CID, in quanto indice dell’effettiva formazione in eccesso di fibrina che va incontro a dissoluzione, sebbene non in maniera suffi­ciente a bilanciarne la produzione. Va tuttavia rammenta­to che altre condizioni come il tromboembolismo venoso, i traumi, la gravidanza, recenti interventi chirurgici, stati infettivi e infiammatori si accompagnano all’aumento dei valori suddetti, limitando notevolmente la specificità di questi test.
Come prevedibile conseguenza dell’imponente deposi­zione di fibrina che caratterizza la CID, i livelli di fibrino­geno sono ridotti. In realtà, la misurazione del fibrinogeno, ancor più di altri parametri, è utile se seriata; questa proteina si comporta come un reattivo di fase acuta e pertanto, nonostante il consumo, può mantenersi inizialmente nel range di normalità e diventa quindi fondamentale porre attenzione alle variazioni, più che ai valori assoluti.
Dato il perdurante consumo di fattori della coagulazione, tipicamente i tempi coagulativi globa­li (PT e aPTT) risultano prolungati. I singoli fattori della coagulazione risultano infatti ridotti, in particolare i fat­tori V e VII.
I livelli di antitrombina risultano generalmente ridotti nei casi di coagulopatia da consumo: fa eccezione la CID in corso di LAP, in cui i livelli di antitrombina solitamente persistono normali. Tale dato è a genesi non completamente chiara e rientra tra le osservazioni che fanno ritenere la patogenesi della CID in corso di LAP differente da quanto osservato in altre situazioni.
Va sottolineato nuovamente che in molti casi, soprattutto di leucemie acute non-LAP con CID subclinica, più che la singola determinazione, sono le modificazioni verificate in prelievi seriati a condurre alla diagnosi (conta piastri­nica in progressiva riduzione, progressivo allungamento dei tempi di coagulazione per consumo dei fattori e ridu­zione dei livelli degli inibitori).
Recenti evidenze suggeriscono che i livelli di trombomo­dulina sierica correlino bene con il decorso clinico della CID, la disfunzione multiorgano e la mortalità. La trombomodulina, che rappresenta un mar­catore di danno endoteliale, si presenta elevata nella CID e non solo correla con la severità della coagulopatia, ma potrebbe essere anche utilizzata come marcatore per la diagnosi precoce e il monitoraggio della CID. Comunque, per ora, tale dosaggio trova applicazione solo in ambiti di ricerca.
Test di laboratorio recenti e sofisticati non utilizzati nella corrente pratica clinica ma nell’ambito di ricerca dedicata, hanno permesso di meglio caratterizzare la coagulopatia che si determina nelle leucemie acute in particolare mieloidi; i frammenti di protrombina (F1+2), i complessi trombina-antitrombina (TAT) ed il fibrinopeptide A (FPA) sono abnormemente elevati e sono presenti  i marcatori plasmatici indicativi di iperfibrinolisi (alti livelli di FDPs, di urochinasi-attivatore del plasminogeno e  ridotti livelli di plasminogeno e alfa2 antiplasmina); infine alti livelli di elastasi leucocitaria e di prodotti di split del fibrinogeno elastasi-mediati dimostrano l’attività di proteasi non specifiche.
I test di laboratorio che dimostrano la generazione di trombina e l’aumento dei D-dimeri provano che l’iperfibrinolisi si verifica in risposta all’attivazione della coagulazione e alla formazione di fibrina nelle leucemie.
Nella CID delle leucemie acute, i livelli di antitrombina e proteina C spesso non sono ridotti (dato che differenzia questa CID da quella che si verifica in altri contesti). Questo dato ha portato ad ipotizzare una quota di iperfibrinolisi primaria nella patogenesi di questa specifica coagulopatia, C’è da sottolineare che entrambe le proteine sono a  sintesi epatica e la funzionalità epatica in altri setting clinici può essere compromessa, cosa che non accade abitualmente nelle leucemia.
La diagnosi di CID si basa su molteplici valutazioni clini­che e laboratoristiche. L’ISTH nel 2001 ha proposto un semplice sistema di score per la diagnosi di CID scom­pensata applicabile in pazienti con patologia notoriamen­te associata a CID (Figura 139). Un punteggio di 5 o più fa porre diagnosi di CID, mentre un punteggio inferiore non può escludere la CID, ma non depone per un quadro con­clamato. Nel primo caso lo score va ripetuto quotidiana­mente, nel secondo dopo 1-2 giorni. Questo sistema ha dimostrato un’elevata sensibilità (fino al 93%) e specifi­cità (fino al 98%) per la diagnosi di CID.

 

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Figura 139. Algoritmo per la diagnosi di CID(International Society on Thrombosis and Haemostasis, ISTH)

 

Nelle leucemie della linea mieloide, prima fra tutte la LAP, il quadro di coagulopatia da consumo, in particolare nelle fasi precoci di malattia, è nella maggioranza dei casi accompagnato da manifestazioni preminenti di tipo emorragico, cui contribuisce la trombocitopenia da infiltrazione midollare. Tuttavia in letteratura (De Stefano V et al, 2005) l’incidenza segnalata di eventi trombotici complessivi nella storia della malattia è significativa ed è del 2% nelle non-LAP e 6% circa nelle LAP; quest’ultimo dato in alcune serie raggiunge percentuali più alte in corso di terapia con ATRA, associazione non confermata.
Le leucemie linfoblasti che (LAL) presentano globalmente, sia negli adulti che nei bambini, più frequentemente complicanze trombotiche (incidenza fino al 10% in corso di chemioterapia) (De Stefano V et al, 2005; De Stefano V et al, 2015; Sarris AH et al, 1992). Le più pericolose sono le trombosi venose cerebrali e l’embolia polmonare che corrispondono a più di un terzo degli eventi registrati.
Un altro terzo degli eventi trombotici descritti sono localizzati agli arti superiori ed in concomitanza con la presenza di cateteri venosi.
Tali eventi sono stati spesso messi in correlazione con l’uso di asparaginasi (De Stefano V et al, 2015) e sono stati individuati come fattori di rischio la durata del trattamento e il concomitante uso di prednisone, antracicline e contraccettivi orali.
L’asparaginasi è considerato il principale responsabile delle complicanze vascolari in corso di terapia per LAL. E’ noto avere tossicità epatica, pancreatica, sul sistema nervoso centrale e per creare squilibri al livello emostatico in relazione alla deplezione iatrogena di asparagina. In particolare si possono osservare, in corso di trattamento, significative riduzioni nei livelli di fibrinogeno, plasminogeno, alfa2-anti-plasmina, antitrombina e proteina C. Queste alterazioni sono state considerate suggestive di uno stato protrombotico iatrogeno, come sostenuto anche dall’incremento dei livelli di FPA, TAT e F1+2.
Studi sulla possibilità di profilassi (De Stefano et al, 2005) attraverso supplementazione di fattori della coagulazione (plasma fresco congelato, concentrati di AT) o profilassi farmacologica (eparina o anticoagulanti orali) non sono stati conclusivi per la scarsa numerosità del campione, l’eterogeneità dei trattamenti e la scelta degli obiettivi clinici dello studio.
Infine, i report che documentano una significativa incidenza di eventi tromboembolici in pazienti con LAL, anche in assenza di trattamento con asparaginasi, fanno sorgere il dubbio sul reale e soprattutto esclusivo ruolo di questo farmaco nella patogenesi degli eventi  trombo embolici nella LAL.
Il quadro laboratoristico dei pazienti con episodi trombotici in corso di LAL documenta comunque uno stato di attivazione sistemica della coagulazione a tipo CID (Sarris AH et al, 1992), facendo propendere anche per questi pazienti per una patogenesi legata alla aumentata trombino-formazione piuttosto che ad un effetto diretto e specifico del farmaco.

 

Le alterazioni emostatiche nei disordini  linfoproliferativi

 

Le neoplasie linfoproliferative non sono associate di per sé ad alterazioni della bilancia emostatica. Gli esami di primo livello non evidenziano in genere anomalie coagulative (PT, PTT e fibrinogeno nei limiti). Questi disordini, tuttavia, alterando il quadro immunologico del paziente, sono associati alla comparsa di patologie autoimmuni; in quest’ottica si può inquadrare la comparsa di inibitori di specifici fattori della coagulazione. La malattia di von Willebrand (MVW) acquisita, ad esempio, può manifestarsi in pazienti con gammopatia monoclonale e patolologie linfoproliferative (in circa il 50% dei casi di malattia di von Willebrand acquisita vi è la contemporanea presenza di queste patologie ematologiche). Non è nota la vera prevalenza della MVW acquisita essendo il difetto spesso sottodiagnosticato (o misdiagnosticato) dato l’ampio spettro di manifestazioni ciniche associate. Mentre nel caso degli inibitori per il FVIII l’anticorpo neutralizza il fattore, nella MVW acquisita vari sono i meccanismi patogenetici proposti: la presenza di un inibitore specifico contro il VWF, sebbene sia l’ipotesi più plausibile, non sempre viene messa in evidenza; in alcuni casi è stata dimostrata la presenza di recettori anomali a livello delle cellule linfoidi/neoplastiche che adsorbono il fattore. Gli esami di laboratorio sono gli stessi per la MVW congenita: negli esami di I livello si evidenzia un prolungamento del PTT (più o meno marcato in relazione all’entità del fattore residuo disponibile). Nella diagnostica di laboratorio successiva bisogna tenere in considerazione non solo i livelli di antigene circolante (VWF:Ag), ma anche l’attività del fattore, espressa con il VWF:CoRi o mediante agglutinazione del plasma ricco di piastrine in presenza di ristocetina (RIPA). Per l’inquadramento diagnostico devono essere determinati anche i livelli di fattore VIII circolante. Il tempo di sanguinamento (che valuta l’emostasi primaria) risulta in genere prolungato. Quest’ultimo test, tuttavia, presenta dei problemi di standardizzazione e può risultare nella norma nei casi di MVW lieve. La ricerca degli inibitori (contrariamente a quanto avviene per l’emofilia acquisita) non sempre risulta positiva; questo può essere dovuto sia al meccanismo patogenetico diverso (che può non essere su base immunitaria), che alla presenza di auto-anticorpi non-neutralizzanti il fattore (ma che ne aumentano il catabolismo plasmatico). La distinzione tra forma acquisita e congenita deve anche avvalersi di un’attenta anamnesi personale (precedenti interventi chirurgici, precedenti referti di laboratorio) e familiare (se possibile, lo studio dei familiari di primo grado). Nel caso di MVW acquisita sono descritti casi di remissione spontanea della diatesi emorragica nei pazienti oncologici, così come sono descritte risoluzioni dopo chemio- radioterapia in caso di linfomi (Tiede A et al, 2011).
L’emofilia A acquisita da anticorpo inibitore del FVIII è un’evenienza rara che si manifesta approssimativamente in un caso su 1,3-1,6 milioni di abitanti/anno ed è spesso una situazione complicata da gravi manifestazioni emorragiche e da un elevato tasso di mortalità (riportato tra 8% e 22%). Anticorpi inibitori possono manifestarsi in corso di malattie linfoproliferative, ma anche in gravidanza e nel puerperio e in pazienti con neoplasia solida, tuttavia in circa la metà dei casi non è evidenziabile la causa predisponente. L’APTT risulta allungato e non si ha correzione dopo incubazione per 2 ore a 37° con eguali volumi di plasma normale (mixing test) per la presenza di inibitori circolanti. Il dosaggio del fattore VIII è ridotto e si possono evidenziare inibitori contro il fattore VIII.
Sono descritti inibitori del fibrinogeno o del fattore XIII; aneddotici gli inibitori del fattore V, X o XI. La presenza di un inibitore può essere sospettata quando un tempo di coagulazione (aPTT, INR) risulta isolatamente allungato (eccezion fatta per gli inibitori del FXIII); la conferma si ha mediante prove di diluizione e correzione con plasma normale e mediante il dosaggio dei singoli fattori.
Sul versante trombotico, la presenza di compressione vasale da parte di pacchetti linfonodali/lesioni solide, costituisce un fattore di rischio per il tromboembolismo venoso. In acuto, la diagnosi può essere confermata da elevati livelli di D-dimero (sebbene di quest’ultimo sia riconosciuto a livello diagnostico il ruolo predittivo negativo). Lo screening per la trombofilia congenita (difetto di antitrombina e proteina C ed S anticoagulante, aumentati livelli di fattore VIII,  presenza del fattore V Leiden e protrombina mutata G20210A) e acquisita (presenza di lupus anticoagulante, anticorpi antifosfolipidi e aumentati livelli di omocisteina) non è al momento giustificato nella pratica routinaria.

 

Le discrasie plasmacellulari

 

Le discrasie plasmacellulari (gammopatia monoclonale di incerto significato, mieloma multiplo ed amiloidosi) possono anch’esse essere associate alla presenza di difetti acquisiti della coagulazione (MVW in primis, vedi paragrafo precedente). Anomalie coagulative negli esami di coagulazione di primo livello (PT, aPTT) sono spesso riscontrate nei pazienti con mieloma, soprattutto in presenza di elevati livelli di proteina M; il meccanismo patogenetico spesso riportato è l’interferenza della proteina M con la polimerizzazione dei monomeri di fibrina. In presenza di amiloidosi si può osservare un prolungamento di PT e aPTT associato ad una riduzione dell’attività del fattore X; in questi casi è stata riportata un’aumentata clearance del fattore X per adsorbimento di quest’ultimo sulle fibrille di amiloide AL (Eby C, 2009).
Le discrasie plasmacellulari sono associate anche ad un aumento del rischio trombotico, rischio ancor più significativo in presenza di trattamento con farmaci immunomodulanti (IMIDs) (talidomide e lenalidomide). Il meccanismo patogenetico associato a questo incremento del rischio è multifattoriale. Condizioni predisponenti possono essere legate sia a caratteristiche del paziente, come età avanzata, ipomobilità, uso di cateteri venosi, anamnesi positiva per eventi trombo-embolici, sia a caratteristiche proprie della patologia, come l’incremento di citochine pro-infiammatorie (IL-6 e fattore di crescita dell’endotelio) o l’incremento dei livelli di fattore VIII e fattore Von Willebrand circolanti. L’entità del rischio trombotico associato al trattamento con IMIDs giustifica al momento l’utilizzo della profilassi primaria antitrombotica in questi pazienti (De Stefano V et al, 2014).

 

Letture consigliate:
Manuale di malattie del sangue Elsevier 2012. Bosi A,De Stefano V, Di Raimondo F, La Nasa G.

 

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A cura di:

Professore Associato in Ematologia, Università Cattolica del Sacro Cuore. Direttore UOC Emotrasfusione, Direttore Banca Cordone Ombelicale UNICATT, Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS – Roma

Ricercatore Universitario settore MED/15 presso l’istituto di ematologia dell’Università Cattolica del S.Cuore, Roma

Ematologia IRCCS “Casa Sollievo della Sofferenza” di San Giovanni Rotondo

Dirigente medico di I livello presso il Servizio di Ematologia del Policlinico A. Gemelli-Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma.

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