Sindromi mieloproliferative croniche

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INTRODUZIONE

 

Le neoplasie mieloproliferative croniche (MPN) classiche bcr/abl negative comprendono la Policitemia Vera (PV), la Trombocitemia Essenziale (TE) e la Mielofibrosi Primaria (PMF) e sono caratterizzate da espansione clonale di una cellula staminale/progenitrice emopoietica. La loro storia naturale è segnata da complicazioni trombotiche/emorragiche e da una propensione alla trasformazione in mielofibrosi secondaria (MF) e leucemia acuta (LA). Dal 2005 in poi, sono state descritte più di 20 mutazioni e le più frequenti sono la mutazione di JAK2V617F, della Calreticolina (CALR) e di MPL. Queste tre mutazioni sono causa del fenotipo clinico ematologico (“driver mutations”) mentre altre mutazioni nei geni epigenetici come TET2, DNMT3A, IDH1/2, EZH2, ASXL sono associate alla progressione ematologica. Queste scoperte genetiche e gli studi di correlazione tra il genotipo e fenotipo hanno modificato la pratica clinica contribuendo ad un moderno approccio alla diagnosi, prognosi e terapia.

 

Policitemia Vera

 

Definizione

 

La PV è una MPN, caratterizzata:

a) clinicamente, dall’incremento assoluto della massa eritrocitaria, spesso accompagnata da leucocitosi, trombocitosi e splenomegalia;

b) istologicamente, da un quadro di panmielosi con iperplasia eritroide, granulocitaria e megacariocitaria;

c) biologicamente, dall’indipendenza dell’iperplasia eritroide dal fisiologico fattore di crescita, eritropoietina (EPO);

d) geneticamente, dalla mutazione V617F (95% dei casi) o da mutazioni rare localizzate nell’esone 12 del gene di JAK2.

 

Epidemiologia

 

L’incidenza della PV è stimata fra 2,3 e 2,8 per 100.000 persone all’anno, con un rapporto maschi/femmine di circa 1,2:1. La prevalenza della malattia è stata valutata in uno studio italiano che ha incluso 10.000 soggetti apparentemente sani tra i 18 e i 65 anni di età, selezionati per un elevato ematocrito e/o una elevata conta piastrinica e seguiti per 5 anni. I risultati hanno indicato una prevalenza di circa 30 casi per 100.000 persone (Ruggeri M, et al 2003). La stima è probabilmente conservativa perché la PV è più frequente nell’età avanzata e, essendo lo studio stato condotto in era pre-JAK2, probabilmente non ha incluso alcuni casi con malattia iniziale. L’età mediana alla diagnosi è 60 anni e la malattia è rara al di sotto dei 40 anni (circa 5% dei casi). Un piccolo numero di casi è stato descritto in età pediatrica (vedi MPN pediatriche) e sono segnalati casi familiari (vedi MPN familiari). Una maggiore probabilità di sviluppare la malattia è stata descritta nei familiari dei pazienti affetti, con un rischio calcolato pari a circa 7 volte rispetto alla popolazione di controllo.

 

Biologia e Genetica molecolare

 

Nel 1974, Prchal et al  (Prchal JF, 1974) hanno riportato per la prima volta che le colture di cellule emopoietiche di pazienti con PV formavano colonie eritroidi in vitro anche in assenza dell’aggiunta di EPO al terreno di coltura. Questo effetto è stato definito “endogenous (or EPO-independent) erythroid colonies (EEC)”. Successivamente, è stato dimostrato che le EEC di un singolo paziente con PV erano clonali, ovvero esprimevano tutte lo stesso allele della G6PD. Peraltro, il meccanismo responsabile della produzione di EEC rimaneva oscuro. Un importante indizio era l’osservazione che le cellule emopoietiche della PV erano ipersensibili non solo all’EPO, ma anche a molti altri fattori di crescita, facendo sospettare un’alterazione del meccanismo intracellulare di trasduzione del segnale comune ai differenti recettori citochinici.

La ricerca di questo meccanismo è stata coronata con successo nel 2005 quando differenti gruppi di ricerca hanno descritto la mutazione V617F del gene JAK2. La mutazione, originata da una sostituzione G>T al nucleotide 1849 dell’esone 14, causa la sostituzione della valina con la fenilalanina alla posizione 617 della proteina JAK2. Questo residuo è collocato in una parte della proteina (JK2, o pseudochinasi) che ne inibisce l’attività. Pertanto, la sostituzione aminoacidica rende inefficace il meccanismo inibitorio intra-molecolare e, di conseguenza, l’enzima JAK2 diviene costitutivamente attivo. Studi biochimici e sperimentali hanno dimostrato che la mutazione V617F di JAK2 causa l’attivazione citochina-indipendente dei meccanismi di trasduzione del segnale e induce, nei topi, una malattia simile alla PV, con eritrocitosi, bassi livelli di EPO, splenomegalia ed iperplasia midollare (Levine RL, 2008).

Attualmente, la mutazione V617F, e altre mutazioni più rare nell’esone 12 di JAK2, sono considerate un marcatore della malattia ed un possibile bersaglio per trattamenti mirati anche se il ruolo di JAK2 mutato come unico evento patogenetico della PV è dibattuto e attualmente oggetto di ulteriori studi.

 

Diagnosi

 

L’organizzazione mondiale della sanità (WHO) ha pubblicato nel 2016 la revisione della classificazione del 2008 di PV, ET e di PMF (Tabella I).

 

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Tabella I: Criteri diagnostici di PV, TE e MF secondo WHO-2016 (adattata da Barbui T, 2015b)

 

La precedente classificazione WHO-2008 era focalizzata sui valori soglia dell’emoglobina (Hb) e non considerava quelli dell’ematocrito (Hct) poiché si riteneva che questo parametro esprimesse meglio l’aumento della massa corpuscolare valutata con radioisotopi. Peraltro, studi clinici successivi avevano dimostrato che applicando i valori soglia richiesti dalla WHO-2008 si sottostimava la frequenza di PV rispetto a quanto veniva rilevato sia dall’aumento delle masse ematiche con metodica radioisotopica che dalla morfologia midollare. Quest’ultima è caratteristica della PV e mostra un tipico quadro di iperplasia delle tre serie emopoietiche.

Studi clinici (Barbui T, 2014b; Barbui T, 2014c) hanno accertato che nei casi con mutazione di JAK2, i valori soglia di emoglobina ed ematocrito che distinguevano la PV dalla ET JAK2 mutata, potevano essere inferiori a quelli richiesti dalla WHO-2008, e in questi casi con livelli di Hb e Hct borderline, si rendeva necessaria o la valutazione della massa eritrocitaria con radioisotopi (test attualmente obsoleto e non praticato nella maggior parte dei centri internazionali) o la valutazione morfologica del midollo osseo per differenziare le due entità. Veniva poi precisato che nei maschi con valori di emoglobina > 18,5 g/dl o ematocrito > 55,5% e nelle femmine con valori di emoglobina > 16,5 g/dl o ematocrito > 49,5% la biopsia ossea non era necessariamente richiesta poiché quei valori sono stati considerati un surrogato dell’incremento delle masse corpuscolari. Inoltre, veniva rimossa tra i criteri minori la determinazione delle colonie eritroidi spontanee, data la difficoltà di effettuare il test e la sua scarsa riproducibilità intrapaziente e interlaboratori, e conservato il criterio del calo dei valori plasmatici di eritropoietina.

Nel sospetto di PV viene suggerito il seguente algoritmo (Figura I).

 

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Figura I: Algoritmo per la diagnosi di PV

 

Manifestazioni cliniche

 

Anche se la PV può rimanere clinicamente silente, alcuni pazienti presentano sintomi costituzionali, ma le complicazioni cardiovascolari (CV) sono la causa principale di morbilità e mortalità. Nello studio ECLAP (European Collaboration on Low-Dose Aspirin in Polycythemia Vera) su 100 pazienti trattati nei maggiori centri ematologici europei, sono stati registrati eventi cumulativi CV non fatali e fatali, rispettivamente nel 3,8% e 1,5% dei pazienti per anno (Marchioli R, 2005).

Oltre agli eventi CV maggiori arteriosi e venosi, è possibile osservare sia alla diagnosi che nel follow-up, trombosi in sedi non usuali quali trombosi epatiche (Budd-Chiari), portali e mesenteriche, ipertensione polmonare e, come descritto in maniera caratteristica per queste malattie, episodi di occlusione microvascolare con eritromelalgia (gonfiore, arrossamento e dolore urente delle dita di mani e piedi), cefalea, e disturbi visivi.

Le manifestazioni emorragiche sono più rare di quelle trombotiche e la sede principale è gastroenterica, spesso favorita da concomitanti terapie antitrombotiche, in particolare aspirina.

Il prurito, tipicamente acqua-genico, è un sintomo frequente e spesso assai disturbante. La patogenesi è poco nota ma è stato riportato che la mutazione V617F di JAK2 può indurre una attivazione costitutiva ed una ipersensibilità alle cellule basofile circolanti e tissutali (Pieri L, 2009). Il trattamento si basa su antistaminici sintomatici, basse dosi di corticosteroidi, antidepressivi come la paroxetina (20 mg al giorno) o fotochemioterapia con psoralene e raggi UVA, tutti generalmente poco efficaci. L’interferone alfa, e in particolare nuove terapie con inibitori di JAK2 o dell’istone deacetilasi (Finazzi G, 2013), si sono dimostrate utili nel controllare questo sintomo.

La splenomegalia è un problema clinico meno rilevante che non nella PMF, almeno nella fase florida della PV, ma in alcuni casi può essere sintomatica. In tal caso, la terapia mielosoppressiva con idrossiurea o con inibitori anti-JAK2 nei casi refrattari/intolleranti alla idrossiurea, è indicata.

Una progressione della splenomegalia, specialmente se associata ad anemizzazione e leucocitosi con comparsa di forme immature nel sangue periferico, può essere il segno di una trasformazione della malattia verso una mielofibrosi post-policitemica (Tabella II) (Barosi G, 2008).

 

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Tabella II: Criteri per la diagnosi di mielofibrosi post-PV e post-TE

 

Nello studio ECLAP, il principale fattore di rischio associato all’evoluzione mielofibrotica della PV è stato la durata della malattia (Marchioli R, 2005).

La trasformazione in leucemia acuta può essere preceduta o no da una fase spenta di mielofibrosi ed è di regola mieloide con esito quasi sempre fatale. Nello studio ECLAP, fattori di rischio riconosciuti per evoluzione in leucemia acuta e mielofibrosi sono stati l’età, la durata della malattia, la leucocitosi e l’utilizzo di farmaci alchilanti (non idrossiurea da sola), pipobromano o di fosforo radioattivo. In un recente studio osservazionale retrospettivo su 1545 pazienti con PV dopo una mediana di osservazione di 11 mesi, la trasformazione in leucemia acuta è stata accertata nel 3% dei casi. Fattori di rischio erano leucocitosi >15.000 mmc ed età superiore a 61 anni (Tefferi A, 2013).

Condizioni cliniche particolari nei pazienti con sindromi mieloproliferative croniche richiedono un approccio specifico, valutato sulla base della situazione individuale.

 

Classificazione del rischio

 

La scelta terapeutica deve basarsi sulla identificazione del rischio CV del singolo paziente e non tanto sulla prevenzione della evoluzione in mielofibrosi e leucemia acuta. Nello studio osservazionale prospettico ECLAP, che ha arruolato 1638 pazienti con PV, si è riconosciuto che l’incidenza di complicazioni arteriose e venose era più elevata nei pazienti di età superiore ai 65 anni (5,0% pazienti per anno) o con una storia di trombosi (4,93% pazienti per anno) che in quelli più giovani senza una storia pregressa di eventi cardiovascolari (2,5% pazienti/anno) (Marchioli R, 2005). Pertanto le due variabili che influenzavano il rischio di trombosi erano l’età e la storia di complicazioni CV. Circa il ruolo prognostico della trombocitosi, i dati disponibili non indicano che gli elevati valori di piastrine siano associati agli eventi trombotici. In uno studio su 1545 pazienti, i fattori prognostici indipendenti dalle trombosi arteriose includevano la leuco-eritroblastosi, l’ipertensione arteriosa, e precedenti episodi di trombosi arteriose. Il cariotipo anormale e la storia di trombosi venose predicevano gli eventi venosi (Barbui T, 2014a). Non è chiaro se il carico allelico di JAK2 mutato abbia un ruolo patogenetico nelle trombosi della PV. Attualmente la percentuale dei pazienti che sviluppano dopo la diagnosi complicazioni CV è dimezzata in confronto a quanto osservato nello studio ECLAP, che ha arruolato pazienti con diagnosi precedente alla scoperta della mutazione di JAK2 (2005). È probabile che tale riduzione sia da ascrivere a una più precoce diagnosi, una migliore gestione dei fattori di rischio CV, l’utilizzo di aspirina e l’osservazione più accurata della soglia terapeutica dell’ematocrito con salassi e chemioterapia (Marchioli R, 2013; Barbui T, 2015a).

In conclusione, gli esperti raccomandano che i pazienti con PV debbano essere stratificati in due categorie di rischio CV: il basso rischio riguarda i pazienti di età inferiore ai 60 anni che non hanno presentato sintomi CV maggiori e l’alto rischio riguarda i pazienti più anziani o quelli con storia pregressa di eventi CV. Altri fattori sopra riportati non hanno al momento studi sufficienti per essere annoverati tra i predittori di rischio da utilizzare nella decisione terapeutica.

 

Terapia

 

A. Generalità

 

Non sono ancora disponibili terapie in grado di eradicare il clone neoplastico che dà origine al fenotipo MPN, anche se in alcuni pazienti con PV recenti studi hanno documentato un significativo calo fino alla scomparsa del carico allelico di JAK2 mutato con l’impiego di interferone. Le attuali raccomandazioni nella PV (e anche nella TE) sono dirette ad utilizzare strategie di cura intese a ridurre il rischio CV senza aumentare la loro naturale propensione di evoluzione in mielofibrosi e leucemia (Barbui T, 2011; Vannucchi AM, 2015a). La forza di queste raccomandazioni è limitata poiché gli studi clinici randomizzati sono pochi. Inoltre, i risultati degli studi osservazionali non consentono una chiara valutazione della terapia poiché hanno inteso primariamente descrivere gli eventi CV e le trasformazioni ematologiche e solo secondariamente riportano i risultati dei diversi farmaci. Ulteriori difficoltà di giudizio derivano dai criteri di risposta terapeutica che variano a seconda degli studi. Al fine di armonizzare questi aspetti e rendere le definizioni uniformi, l’European Leukemia Net (ELN) ha pubblicato nel 2009 i criteri di risposta per la PV e la TE (Barosi G, 2009a).

Utilizzando le attuali conoscenze molecolari ed istopatologiche, l’ELN ha raggiunto il consenso nel suddividere le risposte in tre categorie: clinico-ematologiche, molecolari ed istopatologiche. È stato sottolineato che la definizione di risposta completa, parziale o non risposta vale per comparare i risultati degli studi clinici e che, nei casi singoli, la valutazione della risposta si deve riferire solo alla categoria clinico-ematologica (Tabella III). Tuttavia, il gruppo degli esperti ammette che non è ancora ben noto se queste risposte siano reali surrogati degli eventi clinici quali riduzione di trombosi o di evoluzione ematologica della malattia.

 

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Tabella III: Definizione di risposta clinico-ematologica nella PV (da Barosi G, et al 2009a)


Trattamento dei pazienti a basso rischio

 

Salassi

 

L’unico studio che ha valutato in maniera randomizzata e prospettica i risultati della terapia con salassi nella PV risale a più di 30 anni fa (PVSG trial 01) (Berk PD, 1986). In questo studio randomizzato, è stata dimostrata una maggiore sopravvivenza nel braccio trattato con salassi (mediana di sopravvivenza 13,9 anni) rispetto a quello trattato con clorambucile (mediana anni 8,9) o fosforo 32 (mediana 11,8). Questi farmaci causavano un eccesso di mortalità per una maggiore frequenza di leucemie e altri eventi neoplastici ma il tasso di trombosi era significativamente più basso rispetto al braccio trattato con soli salassi (il target dell’ematocrito era 45%). Ciò dimostra che la riduzione delle complicanze CV è maggiormente garantita da un controllo globale della mieloproliferazione piuttosto che dalla riduzione della espansione di una sola linea emopoietica. Sulla base di quanto è noto e sulla scorta di dati fisiopatologici, tutte le raccomandazioni suggeriscono di mantenere l’ematocrito a livelli <45%. Tuttavia, lo studio ECLAP ha messo in dubbio questo dogma e, sulla base di dati che dimostravano come il tasso di trombosi non fosse diverso in rapporto a livelli di ematocrito compresi nel range 40-50%, ha suggerito la necessità di trial prospettici per definire il target di ematocrito ottimale.

Più recentemente, un trial randomizzato, condotto in Italia, e pubblicato nel 2013 (CYTO-PV) (Marchioli R, 2013), ha determinato l’efficacia e la sicurezza di mantenere un ematocrito inferiore al 45% (braccio A), comparato con livelli di ematocrito nel range 45-50% (braccio B). L’endpoint primario dello studio era l’occorrenza di trombosi maggiori (stroke, TIA, infarto del miocardio, occlusioni arteriose periferiche, tromboembolismo venoso) che sono risultate 4 volte più frequenti nel braccio B. Il tasso degli eventi nel braccio B era intorno a 2% pazienti all’anno. Questi risultati dimostrano che per ridurre gli incidenti vascolari è necessario mantenere l’ematocrito inferiore al 45%, sia nei maschi che nelle femmine. Questo si può raggiungere con i salassi e, molto spesso, è necessario utilizzare la chemioterapia con lo scopo anche di controllare la progressione della malattia indicata da leucocitosi progressiva che, in analisi multivariate, è stata dimostrata essere associata agli eventi trombotici congiuntamente all’ematocrito superiore al 45% (Barbui T, 2015a). Nei casi considerati a basso rischio e con malattia stabile non viene indicata terapia citoriduttiva.

 

Raccomandazioni per la salasso-terapia nella policitemia vera

 

La società italiana di Ematologia (SIE), in collaborazione con le due società italiane di medicina trasfusionale (SIMTI e SIDEM), ha di recente pubblicato le raccomandazioni sulla salassoterapia nella policitemia vera (Barbui T, 2018):

  • Quale deve essere il livello di ematocrito (HCT) nella PV. Gli esperti hanno raggiunto il consenso nelle seguenti raccomandazioni: il target dei salassi è di mantenere HCT a livelli inferiori a 45%. Nei pazienti con sintomi quali eritromelalgia persistente, amaurosi, cefalea persistente, i livelli di HCT da raggiungere possono essere più bassi (40-42%). Ancora più bassi livelli di HCT vengono raccomandati in gravidanza in donne con fattori di rischio associati, sia riferiti alla PV che alla gravidanza. Poiché la conseguente sideropenia può danneggiare il feto, viene consigliato l’utilizzo di interferone che consentirà di ridurre il numero di salassi.
  • Procedure per la salassoterapia nella PV. I salassi devono iniziare il prima possibile dopo la diagnosi di PV, in particolare nelle persone nelle quali, dopo un evento vascolare, si sospetta la malattia ematologica. I salassi dovranno rimuovere 300–450ml di sangue a giorni alterni o due volte alla settimana (fase di induzione). Nella fase successiva, l’ematocrito dovrà essere mantenuto (fase di mantenimento) ai valori target, misurando HCT ogni mese subito dopo la fase di induzione e ogni 2-3 mesi nella fase di mantenimento. Non viene suggerito di somministrare plasma poiché, non appena l’ematocrito scende, vi è il richiamo in circolo del plasma extravascolare. Si raccomanda di controllare la ferritina solo nei casi in cui siano presenti sintomi gravi, quali esofagiti o sindrome delle gambe senza riposo (“restless legs syndrome”). Non è necessario fare terapia citoriduttiva nei casi di trombocitosi post-salassoterapia. Solo se vi sono due accertamenti a distanza di tempo con documentazione di aumenti di 300.000 rispetto al valore basale a distanza di due mesi, potrà essere considerato il sospetto di progressione di malattia. Un numero di 4-5 salassi all’anno non è un motivo per considerare la terapia citoriduttiva; solo per valori di 7-10 salassi/anno, giudicati non accettabili dal paziente, si può considerare la terapia citoriduttiva nei pazienti a basso rischio vascolare. La eritrocitoaferesi dovrà essere eseguita in casi particolari, tenendo in conto gli eventi avversi e i costi della procedura.

 

Aspirina a basse dosi

 

Le raccomandazioni di utilizzare 100 mg al giorno di aspirina nella PV come profilassi primaria di eventi vascolari sia arteriosi che venosi si basano sui risultati dello studio ECLAP (randomizzato, in doppio cieco, controllato con placebo) (Landolfi R, 2004). È stato dimostrato che basse dosi di aspirina si associano a una significativa riduzione delle morti cardiovascolari e degli eventi non fatali quali icuts, infarto del miocardio, trombosi venose ed embolie polmonari (rischio relativo 0,4; 95%CI 0,18-0,91; p=0,02) senza aumentare significativamente il tasso di emorragie. L’aspirina deve essere utilizzata con cautela nei casi con precedente storia emorragica.

 

Trattamento dei pazienti ad alto rischio

 

Idrossiurea (HU)

 

Nei pazienti di età superiore ai 60 anni o con precedenti vascolari maggiori, o nei casi di PV con malattia progressiva (aumento della necessità di salassi, leucocitosi e splenomegalia progressiva, comparsa di sintomi sistemici e prurito intrattabile) è indicata una terapia mielosoppressiva in aggiunta ai salassi  (Barbui T, 2011; Vannucchi AM, 2015a).

Il farmaco di prima linea è l’idrossiurea (HU), un antimetabolita che inibisce la sintesi del DNA e che in studi di fase II e III ha dimostrato efficacia nella prevenzione secondaria o primaria di nuovi eventi vascolari nei gruppi ad alto rischio. Nella PV l’efficacia antitrombotica della HU è stata dimostrata in uno studio del PVSG che ha trattato solo 51 pazienti seguiti per una mediana di 8 anni  (Fruchtman SM, 1997) ma il timore che questo farmaco possa aumentare il rischio di leucemie ha generato grande cautela nel suo utilizzo nei giovani.

Il reale rischio leucemogenico della sola HU è oggetto di grande dibattito poiché è difficile discernere se i rari casi documentati siano dipesi dal farmaco o siano il risultato di una evoluzione biologica intrinseca della malattia. Infatti casi di leucemia sono stati riportati anche in pazienti mai esposti a farmaci citotossici sia nella PV che nella TE (Bjorkholm M, 2011). Per contro, vi è consenso nell’ammettere che la somministrazione sequenziale di farmaci alchilanti (busulfano, clorambucile) e di P32 conduca a un chiaro incremento della frequenza di leucemie (Finazzi G, 2005; Bjorkholm M, 2011).

In uno studio retrospettivo internazionale (Barbui T et al, 2019) con disegno caso-controllo, è stato valutato se l’esposizione ad HU poteva essere responsabile di una più alta incidenza di tumori solidi quali carcinoma, non-melanoma skin-cancer, melanoma e tumori ematologici diversi dalle leucemie. I casi di PV, ET e PMF con neoplasia (n=647) risultavano esposti a HU con la stessa percentuale dei controlli (n=1.234) che durante il follow-up non avevano sviluppato cancro secondario. L’unica eccezione era la proporzione di casi con tumore cutaneo non-melanoma che era significativamente più frequente nei casi rispetto ai controlli. Gli Autori di questo studio hanno concluso raccomandando una attenta sorveglianza dermatologica durante il trattamento con questo farmaco, con particolare attenzione a quei pazienti che prima di iniziare la terapia citoriduttiva avevano avuto problemi dermatologici (Barbui T et al, 2019).

Una minoranza di pazienti (10-20%) può essere resistente o refrattaria all’HU. I criteri per definire queste condizioni nella PV sono stati stabiliti dall’ELN e sono riportati in Tabella IV (Barosi G, 2009b).

 

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Tabella IV: Definizione di resistenza/intolleranza alla idrossiurea nella PV

 

Interferone-alfa

 

L’interferone-alfa (IFN-alfa) è stato impiegato nella terapia della PV sulla base della sua attività antiproliferativa sulle cellule staminali emopoietiche e della sua azione su alcune citochine coinvolte nell’emopoiesi. Gli studi pubblicati hanno incluso piccole serie di pazienti non controllate e hanno riportato risposte in circa il 50% dei pazienti per la riduzione dell’ematocrito a valori <45% senza necessità di salassi, nel 77% dei casi per la riduzione della splenomegalia e nel 75% per il controllo del prurito. I principali effetti collaterali sono stati una flu-like syndrome nella maggior parte dei pazienti nelle prime fasi della terapia, generalmente controllabile con paracetamolo, e una tossicità cronica in circa il 30% dei casi, caratterizzata da astenia, mialgia, perdita di peso o depressione severa, che richiede la sospensione del farmaco.

Una migliore tollerabilità ed efficacia è stata recentemente riportata per l’IFN-alfa peghilato, tanto che l’ELN ha suggerito di offrire come prima linea questo farmaco nei giovani con PV ad alto rischio (Barbui T, 2011). A sostegno vi sono attualmente dati che indicano una percentuale di risposte clinico-ematologiche complete secondo i criteri  ELN intorno al 70-80% e in alcuni pazienti sono state ottenute  risposte molecolari della mutazione di JAK2V617F quasi complete dopo due anni di trattamento (Kiladjian JJ, 2008; Quintas-Cardama A, 2009).Questi importanti risultati da studi non controllati, ottenuti sia in Europa che negli Stati Uniti, hanno stimolato i ricercatori a disegnare studi prospettici randomizzati intesi a valutare l’efficacia e la sicurezza di questo farmaco sperimentale rispetto allo standard HU. Le incertezze di impiego di IFN-alfa nei casi singoli derivano non solo dalle limitate esperienze cliniche sia pur promettenti, ma anche dai costi di una terapia da fare per tutta la vita e dal profilo di tollerabilità e compliance del farmaco che, va ricordato, non è approvato per questo uso.

Un IFN di nuova generazione, ropeginterferon alfa-2b, rappresenta un avanzamento rispetto ai precedenti, per il processo di peghilazione che offre vantaggi in termine di più alta tollerabilità e per una più lunga emivita, consentendo una singola somministrazione ogni 2-3 settimane. Il farmaco è stato di recente (2019) approvato dall’EMA (ma non è ancora disponibile in Italia), sulla base di uno studio randomizzato che ha confrontato pazienti con PV trattati con ropeginterferon e con HU (Gisslinger H, 2015, Blood). È stato dimostrato che il nuovo IFN si associa a risposte ematologiche ed alla riduzione fino alla scomparsa della necessità di salassi, in una proporzione significativamente più alta di casi rispetto al braccio trattato con HU. Inoltre, viene confermata una riduzione del carico allelico di JAK2V617F. Tuttavia, non vi sono evidenze attualmente disponibili che il farmaco induca una riduzione degli eventi vascolari, che rappresentano il motivo per cui i pazienti con PV debbono essere trattati con citoriduzione. È inoltre in corso di pubblicazione (2019) uno studio randomizzato del consorzio NIH americano di confronto di peginterferon alfa-2a verso HU, che non ha dimostrato un vantaggio di questo interferone in termini di risposta ematologica nella PV e ET in prima linea (ASH 2018).

 

Ruxolitinib

 

Fra i farmaci innovativi, il ruxolitinib, JAK1/2 inibitore, è stato approvato dalla FDA e dall’EMA per il trattamento della mielofibrosi e nel 2014 per la policitemia vera, ed è attualmente disponibile anche in Italia. È stato testato in pazienti resistenti o intolleranti alla HU ritenuti ad alto rischio di mortalità. Un primo studio di fase II, ha ottenuto risposte ematologiche complete e parziali nel 97% dei pazienti e questi dati iniziali sono stati confermati in un trial clinico di fase III (RESPONSE trial) (Vannucchi AM, 2015b), in cui ruxolitinib è stato confrontato con la migliore terapia disponibile in pazienti con voluminosa splenomegalia e resistenti/intolleranti alla HU. Il farmaco ha dimostrato di ridurre in maniera significativa i salassi, la splenomegalia e di migliorare i sintomi correlati alla malattia. Simili risultati sono stati ottenuti in pazienti con PV che non presentavano all’esordio splenomegalia e confermano l’efficacia e il favorevole profilo efficacia/sicurezza del farmaco (Passamonti, 2017). Purtroppo questi due trial non sono stati disegnati per ridurre le complicanze vascolari e pertanto rimane ancora incerto se ruxolitinib abbia una attività antitrombotica.

In conclusione, ruxolitinib è in grado di ridurre significativamente la necessità di salassoterapia e di migliorare i sintomi associate alla PV, in particolare il prurito. Dato che la risposta al farmaco non si verifica in tutti i casi, si sta cercando di identificare quali pazienti possono ottenere con maggior frequenza questi vantaggi. È stato proposto che la probabilità di risposta sia maggiore nei casi di PV con splenomegalia, in presenza di sintomi costituzionali nonostante terapia adeguata con HU, e in quelli con progressivo aumento dei leucociti (Kiladjian JJ, 2016)

 

Busulfano/Pipobromano

 

Il busulfano, a dosi intermittenti, è un farmaco che può rientrare nella terapia della PV unicamente nei pazienti di età superiore ai 75-80 anni. Questo alchilante, potenzialmente leucemogenico quando assunto in maniera continua per lunghi periodi, non è da prescrivere nei pazienti più giovani.

Il pipobromano si associa a un più significativo alto rischio di leucemia per cui non viene indicato se non in condizioni del tutto particolari.

 

Algoritmo per il trattamento della policitemia vera 

 

Nella Figura II viene sintetizzata la gestione terapeutica dei pazienti con PV.

 

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Figura II: Algoritmo per il trattamento della policitemia vera 

 

Trombocitemia Essenziale

 

Definizione

 

La TE è una MPN caratterizzata clinicamente da un persistente aumento della conta piastrinica (>450.000/mmc) ed istologicamente da un quadro midollare di spiccata iperplasia megacariocitaria con normali serie eritropoietica e granulopoietica.

 

Epidemiologia

 

L’incidenza della TE è stimata fra 1,5 e 2,4 per 100.000 persone all’anno. In uno studio svedese, l’incidenza è apparentemente aumentata negli anni 1983-1999 dallo 0,69 al 4,35%, indicando una maggiore capacità diagnostica in funzione dell’introduzione dei contatori automatici. La stima di prevalenza in Italia è di circa 40 casi per 100.000 persone (Ruggeri M, 2003). L’età mediana alla diagnosi è compresa fra 50 e 60 anni e il rapporto maschi/femmine è circa 1:1 nei pazienti più anziani. Un secondo picco di prevalenza è stato descritto intorno ai 30 anni, particolarmente nelle donne, e anche questo dato potrebbe essere influenzato dalla maggiore probabilità di diagnosi giovanile nelle donne a causa della gravidanza. La TE è la MPN più frequente nei bambini e, come per la PV, i familiari dei pazienti affetti presentano una maggiore probabilità di sviluppare la malattia.

 

Biologia e Genetica molecolare

 

La TE è una malattia clonale che risulta dalla trasformazione di un progenitore ematopoietico pluripotente. Il più importante fattore di crescita megacariocitario è la trombopoietina (TPO), ma diversamente da quanto accade con l’EPO nella PV, la TPO sierica non è diminuita, anzi è spesso aumentata. La causa di tale aumento è collegata almeno in parte alla ridotta espressione del recettore della trombopoietina MPL.

La mutazione V617F di JAK2 è stata descritta in circa il 60% dei casi di TE. I pazienti positivi per la mutazione presentano un fenotipo ematologico più simile alla PV rispetto a quelli negativi. In particolare, hanno un ematocrito mediamente più alto, più leucociti e meno piastrine, un quadro midollare ipercellulare e con un grado più elevato di iperplasia eritroide e granulocitaria.

Mutazioni di MPL, le più frequenti delle quali sono W515L e W515K, sono state osservate nel 3-7% dei casi di TE.

Nel 2013, è stata descritta la mutazione somatica del gene della Calreticolina (CALR), una proteina che regola il metabolismo del calcio nel reticolo endoplasmatico delle cellule. CALR mutata di tipo 1 (delezioni) e 2 (inserzioni), viene riscontrata in circa il 30% dei casi con TE e PMF, che di regola sono JAK2 negativi. In confronto con i casi JAK2 mutati, i pazienti con la mutazione di CALR sono più giovani, presentano più elevati livelli di piastrine e più bassi valori di leucociti ed emoglobina, hanno meno trombosi e appartengono più frequentemente alla categoria a basso rischio vascolare (Finazzi G, 2014).

Pertanto le tre mutazioni driver nella trombocitemia (JAK2, MPL e CALR) confermano la presenza di malattia clonale (la situazione è del tutto sovrapponibile nella PMF) in circa l’80% dei casi, ma la loro assenza non esclude questa possibilità. Il 20% dei casi sono pertanto “tripli negativi” e questo è maggiormente frequente nei bambini. Del tutto recentemente è stato scoperto che alcuni pazienti triplo-negativi (5-10%) presentano nuove mutazioni cosiddette “non canoniche” nei geni MPL e JAK2. Nei restanti casi viene posto il sospetto che non si tratti di malattie clonali.

Altre mutazioni di TET2, IDH, ASXL1 or DNMT3A sono trovate occasionalmente e si associano alla evoluzione blastica della malattia.

 

Diagnosi

 

Come per la PV, la WHO nel 2016 ha aggiornato i criteri diagnostici anche della TE (Tabella I). Accanto alla conta piastrinica e alla dimostrazione delle mutazioni di JAK2, MPL e CALR, un ruolo diagnostico fondamentale viene assegnato alla istologia midollare. In particolare, vengono introdotti nuovi concetti diagnostici che separano la TE in forme “vere” e in forme da definire come “iniziali mielofibrosi” (early PMF) sulla base della morfologia dei megacariociti. Anche se questa distinzione dovrà essere meglio riconosciuta tra gli anatomopatologi, vi sono attualmente dati clinici che dimostrano una diversa storia naturale della TE in confronto con la early-PMF. Quest’ultima va incontro con maggiore rapidità a trasformazione in mielofibrosi franca e a leucemia acuta e ha una sopravvivenza significativamente più ridotta rispetto alla vera TE. Per contro, le due entità hanno mostrato la stessa tendenza a sviluppare le complicazioni vascolari e pertanto la terapia antitrombotica deve seguire le stesse raccomandazioni come per la TE classica.

 

Manifestazioni cliniche

 

La trombosi è la più frequente complicanza clinica della TE. In due studi clinici randomizzati, il tasso cumulativo di eventi CV maggiori (ictus, infarto del miocardio, arteriopatie periferiche e tromboembolismo venoso) registrati durante un periodo di osservazione di circa 3 anni era compreso fra 2,7 e 6,2 per 100 pazienti all’anno (Cortelazzo S, 1995Harrison CN, 2005). Rispetto alla PV sono più frequenti le trombosi microvascolari, tipicamente l’eritromelalgia, ma anche gli attacchi ischemici transitori cerebrali, i disturbi del visus e le parestesie diffuse.

Anche le complicanze emorragiche sono più frequenti nella TE che nella PV perché sono correlate alla elevata conta piastrinica. La spiegazione di questo apparente paradosso risiede nel fatto che i pazienti con trombocitosi estrema (>1.500.000 piastrine/mmc) presentano una riduzione dei multimeri a più alto peso molecolare del fattore di von Willebrand, e quindi una malattia di von Willebrand acquisita. Se questa condizione si associa a manifestazioni emorragiche deve essere trattata normalizzando il numero di piastrine con terapia mielosoppressiva (Tefferi A, 2015). Una conseguenza pratica di questa osservazione è che la somministrazione di aspirina o di altri farmaci antiaggreganti piastrinici a pazienti con spiccata trombocitosi può aumentare significativamente il rischio emorragico.

Il prurito, la splenomegalia e le trasformazioni ematologiche descritte per la PV possono essere osservate anche in pazienti con TE, ma in genere con minore frequenza ed intensità, e sono trattate come più sopra descritto.

Anche la TE come in precedenza descritto per la PV, ha la tendenza negli anni di trasformarsi in mielofibrosi franca. I criteri diagnostici sono presentati nella Tabella II.

 

Classificazione del rischio

 

Recentemente (Barbui T, 2012; Barbui T, 2015b) è stato sviluppato uno score di rischio per trombosi nella TE chiamato IPSET-thrombosis (International Prognostic Score for Thrombosis in ET). IPSET-trombosi conferma che l’età >60 anni e una storia di trombosi sono fattori indipendenti di futuri eventi vascolari, ma ha anche incluso nella valutazione di rischio la mutazione di JAK2 e i generici fattori di rischio quali diabete, ipertensione, fumo.

Nella Figura III vengono indicati i tassi annuali di eventi trombotici maggiori aggiungendo ai fattori di rischio convenzionali la presenza o assenza della mutazione di JAK2

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Figura III: Influenza dei fattori di rischio CV e della mutazione di JAK2 sul tasso di eventi vascolari nel basso e nell’alto rischio di TE

 

L’assenza di fattori di rischio vascolari, l’età inferiore a 60 anni e la assenza della mutazione di JAK2 identificano un sottogruppo di TE definiti a rischio molto basso con un tasso di eventi vascolari paragonabili alla popolazione normale. Pertanto in questo gruppo non è indicata la profilassi primaria con aspirina poiché il rischio emorragico è atteso superare il beneficio nella riduzione delle trombosi incidenti. Per contro nei bassi rischi con la combinazione di JAK2 mutato e di presenza di fattori di rischio CV, il tasso di eventi è paragonabile a quello dell’alto rischio. In questo gruppo è ragionevole una stretta osservazione e probabilmente si dovranno valutare nuove forme di profilassi primaria. La trombocitosi estrema deve essere considerata un fattore di rischio più per le complicanze emorragiche che per quelle trombotiche.

 

Terapia

 

Trattamento dei pazienti a basso rischio

 

I pazienti con TE a basso rischio (età <60 anni e assenza di precedenti trombotici) non devono essere di regola trattati con terapia citoriduttiva data la bassa incidenza di trombosi e i possibili effetti collaterali dei farmaci citoriduttori (Barbui T, 2011; Vannucchi AM, 2015). Per quanto riguarda l’aspirina, non vi sono studi randomizzati che abbiano stabilito l’efficacia e la sicurezza del farmaco nella profilassi primaria delle complicazioni CV nella TE. Mentre non vi sono riserve per il suo impiego come profilassi secondaria, non è chiaro se il bilancio fra benefici e rischi emorragici sia favorevole nel basso rischio in assenza della mutazione di JAK2 e di fattori di rischio CV. Peraltro, nella TE JAK2 mutata l’aspirina è indicata come profilassi primaria. Le raccomandazioni dell’ELN sono di usare 100 mg al giorno di aspirina per controllare i sintomi microvascolari quali eritromelalgia, disturbi transitori del visus, disartria, scotomi, amaurosi fugace ed emicrania (Barbui T, 2011). Si dovrà usare aspirina con cautela quando i valori di piastrine superano 1.500.000/mmc per il rischio emorragico dovuto a carenza acquisita di fattore von Willebrand e quando vi è contemporanea assunzione di anagrelide per il sinergistico effetto sulla funzione piastrinica.

 

Trattamento dei pazienti a basso rischio vascolare ma con estrema trombocitosi

 

Del tutto recentemente sono stati pubblicati i risultati di un trial clinico che ha randomizzato pazienti con TE che si presentavano con elevato numero di piastrine fino a 1.5 milioni mmc a due bracci; il primo veniva trattato con HU e il secondo senza terapia citoriduttiva. Tutti prendevano basse dosi di aspirina. La conclusione di questo studio è stata che il numero di eventi vascolari era sovrapponibile nei due gruppi e che pazienti giovani senza precedenti vascolari non devono essere trattati con farmaci citoriduttivi, confermando le raccomandazioni qui presentate.

 

Trattamento dei pazienti ad alto rischio

 

Sulla scorta dei risultati di due trial clinici, ELN ha confermato che HU è il farmaco di prima scelta anche nei pazienti con TE ad alto rischio CV. Il primo trial è uno studio italiano che ha randomizzato pazienti con TE ad assumere HU o nessun trattamento citotossico.  Nel braccio HU gli eventi cardiovascolari maggiori sono risultati pari a 1,6% pazienti/anno contro 10% pazienti/anno nel gruppo non trattato. Il rischio di leucemia in questo gruppo seguito per molti anni era legato all’assunzione sequenziale di alchilanti e non sembrava incrementato nel gruppo trattato con solo HU (Cortellazzo S, 1995).

Anagrelide, in studi di fase II, aveva dimostrato efficacia nel ridurre il numero di piastrine nella trombocitemia ed era ritenuto privo di effetti leucemogenici. I risultati di uno studio randomizzato inglese hanno dimostrato che il trattamento con anagrelide (più aspirina) si associava ad un aumento di trombosi arteriose, emorragie maggiori e trasformazioni in mielofibrosi, ma ad una riduzione di trombosi venose. In aggiunta, anagrelide era meno ben tollerato di HU e si associava ad una maggiore frequenza di effetti collaterali CV, gastrointestinali, neurologici e costituzionali. La trasformazione in leucemia acuta era comparabile tra i due gruppi di trattamento (4 anagrelide vs. 6 HU), ma il piccolo numero di eventi e il follow-up relativamente breve non hanno consentito conclusioni circa la leucemogenicità (Harrison CN, 2005).

Peraltro, il PT-1 aveva arruolato pazienti con diagnosi di TE secondo i criteri diagnostici del PVSG, che non consideravano la distinzione tra TE vera e early PMF. Lo studio ANAYDRETH ha arruolato pazienti con TE secondo i criteri WHO-2008 che, a differenza dei pazienti con diagnosi secondo PVSG dello studio PT-1, avevano una presentazione ematologica diversa. In 259 pazienti precedentemente mai trattati con farmaci citoriduttori e considerati ad alto rischio di eventi cardiovascolari, l’anagrelide è risultata non inferiore rispetto a HU nel ridurre gli eventi CV. Pertanto, si sottolinea che in ogni studio si dovranno bene considerare i criteri diagnostici di inclusione (Gisslinger H, 2013).

I criteri per stabilire la risposta dei farmaci citoriduttori (Tabella V) e la resistenza alla HU (Tabella VI) nella ET sono di seguito presentati.

 

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Tabella V: Definizione di risposta nella TE (da Barosi G, 2009a)

 

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Tabella VI: Definizione di resistenza alla Idrossiurea nella TE (da Barosi G, 2007)

 

Algoritmo per il trattamento della trombocitemia vera

 

Nella Figura IV viene sintetizzata la gestione terapeutica dei pazienti con TE.

 

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Figura IV. Flow-chart di trattamento della TE

 

Raccomandazioni d’uso dei principali trattamenti proposti nella PV e nella TE

 

Le raccomandazioni d’uso dei principali trattamenti proposti nella PV e nella TE sono riportate in Tabella VII.

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Tabella VII: Raccomandazioni d’uso dei principali trattamenti nella PV e nella TE (mod. da Finazzi G e Barbui T, 2007)

 

La gestione della gravidanza nei casi di PV e TE

 

Anche se le MPN hanno un picco di incidenza nella sesta o settima decade di vita, sia PV che TE vengono diagnosticate anche in donne in età compresa tra 15 e 40 anni. La TE è la più frequente e la PV viene descritta in circa il 15% delle pazienti con età inferiore ai 40 anni. Per contro, nella mielofibrosi, le gravidanze dono state riportate in rari casi. Queste pazienti sono a più alto rischio di complicanze sia materne (trombosi, emorragie ed aborto specie nel primo trimestre) che fetali (morte intrauterina dopo 24 settimane, parto prematuro) e devono essere seguite e trattate in stretta collaborazione fra ematologo ed ostetrico. La gravidanza nella PV è classificata ad alto rischio e dovrà essere trattata con salassi per portare l’ematocrito a meno di 45% oltre che con aspirina. In alcuni casi può rendersi necessario l’impiego di interferone per tutto il decorso della gravidanza, associato o meno ad eparina a basso peso molecolare. Le raccomandazioni pratiche per la stratificazione per il trattamento di queste pazienti sono presentate nella Tabella VIII.

 

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Tabella VIII: Trattamento delle MPN in gravidanza (da Finazzi G e Barbui T, 2008)

 

Non è sicuro se la presenza della mutazione di JAK2 costituisca un fattore di rischio per l’esito della gravidanza di queste pazienti. Inoltre non vi è consenso sulla identificazione di fattori di rischio connessi con altre mutazioni (MPL e CALR), con leucocitosi, ematocrito o con i livelli di piastrine, che durante la gravidanza tendono a calare ed in alcuni casi a normalizzarsi.

 

Interventi chirurgici nelle malattie mieloproliferative

 

La gestione del paziente con MPN in attesa di intervento chirurgico intende prevenire un eccessivo sanguinamento e la trombosi postoperatoria. Sia i bassi che gli alti rischi dovranno ricevere un trattamento citoriduttivo riducendo le piastrine e l’ematocrito a valori normali, anche se non vi sono studi che indichino quale sia la soglia migliore che riduca sia il sanguinamento che la trombosi. Viene raccomandato di sospendere l’aspirina almeno una settimana prima dell’intervento se si prevede che l’intervento chirurgico sia maggiore e abitualmente associato a tendenza emorragica. Dopo la sospensione dell’aspirina, si considererà l’eparina a basso peso molecolare se si prevede che l’intervento abbia una alta probabilità di trombosi postoperatoria.

La splenectomia indicata per una massiva splenomegalia o per trombosi portali è ad alto rischio sia di emorragie non fatali (10%) che di trombosi, e la mortalità postoperatoria può raggiungere il 5-10%. Il fattore di rischio per le emorragie maggiori è la trombocitopenia (meno di 50-100.000/mmc). Si raccomanda di eseguire accertamenti 1-2 settimane dopo l’intervento con lo scopo di escludere trombosi asintomatiche delle vene addominali.

 

Mielofibrosi primaria

 

Definizione

 

La PMF è una MPN clinicamente caratterizzata da gradi variabili di fibrosi midollare, emopoiesi extramidollare, anemia, leucoeritroblastosi e splenomegalia.

 

Epidemiologia

 

L’incidenza annua della PMF è stimata fra 0,5 e 1,3 su 100.000 persone e in più del 90% dei casi riguarda pazienti con età superiore ai 60 anni (Hoffman R, 2009b). Oltre alla forma primaria, la mielofibrosi può rappresentare l’evoluzione della Policitemia Vera (PPV-MF) o della Trombocitemia Essenziale (PET-MF) che avviene in circa il 10-20% dei casi dopo 15-20 anni (Barosi G, 2008); queste forme sono anche collettivamente definite “forme secondarie di mielofibrosi”.

 

Biologia e Genetica molecolare

 

Nel topo, la malattia può essere indotta da una prolungata esposizione alla trombopoietina (TPO) o da una diminuita espressione in animali geneticamente modificati (GATA-low) di un fattore trascrizionale (GATA-1) che controlla la maturazione dei megacariociti e degli eritroblasti (Vannucchi AM, 2002). La ridotta espressione di GATA-1 è stata dimostrata anche a livello dei megacariociti in preparati bioptici midollari (Vannucchi AM, 2005), dato che è stato recentemente confermato (Gilles L, 2017) anche in relazione alla possibilità che inibitori della Aurora Kinasi A riescano a ripristinare la normale espressione di GATA-1 nei megacariotici e che questo possa contribuire all’efficacia clinica di questi farmaci. Il recettore di TPO (MPL) nell’uomo ha ridotta espressione sulle piastrine circolanti cosicché la riduzione della clearance di TPO contribuisce  alla proliferazione cellulare, al contempo favorendo il rilascio, da parte dei megacariociti e probabilmente dei monociti del clone neoplastico, di  altre citochine riconosciute responsabili di fibrosi midollare e di angiogenesi. Inoltre, MPL è abnormemente glicosilato (Moliterno AR, 1998), sebbene come questo possa contribuire alla patogenesi della patologia rimane largamente sconosciuto. I megacariociti sono da tempo imputati di rappresentare la cellula più direttamente implicata nei fenomeni di riarrangiamento del microambiente midollare, principalmente attraverso il rilascio di citochine proinfiammatorie, la neoangiogenesi midollare, la deposizione di fibre e la osteosclerosi, come vari modelli murini hanno dimostrato. Queste osservazioni rivestono una particolare importanza anche alla luce della disponibiiltà di farmaci capaci di inibire citochine (prime tra tutte TGF-beta) e/o di inibire le vie di segnalazione attivate dai rispettivi recettori (gli stessi JAK inibitori).

La PMF è caratterizzata da una mobilizzazione costitutiva di cellule staminali midollari CD34 positive che avviene prevalentemente nelle fasi più avanzate della malattia attraverso l’azione di enzimi proteolitici (elastasi) di derivazione granulocitaria, oltre che essere dovuta ad un’alterata espressione del recettore CXCR4 sulla membrana delle cellule CD34 positive (Bogani C, 2008; Guglielemelli P, 2007). Il traffico delle cellule CD34 positive dal midollo al sangue è mediato da complesse reazioni che includono chemochine e altri fattori di origine stromale (Hoffman R, 2009b). La emopoiesi extramidollare splenica ed epatica o in altre sedi è interpretata come secondaria all’insediamento e successiva proliferazione in loco di cellule CD34 positive migrate dal midollo. Il numero di CD34+ in circolo tende ad aumentare con la progressione di malattia, ma in genere riflette la conta dei blasti osservati morfologicamente nello striscio di sangue; questo parametro non è stato peraltro mai incluso in score prognostici dopo analisi uni- e multi-variata, pertanto la sua rilevanza clinica è tuttora discussa.

La scoperta della mutazione JAK2V617F nel 2005 ha rivoluzionato la comprensione dei meccanismi molecolari alla base della PMF e delle forme secondarie a PV e ET. La mutazione tipica di JAK2V617F si riscontra nel 50-60% dei casi; il valore mediano di carica allelica mutata (VAF, variant allele frequency) è attorno al 50%, con una quota di circa 2/3 dei pazienti che presentando la mutazione in forma omozigote, generalmente associata a maggiore espressività clinica (entità della splenomegalia, sintomi sistemici, ma anche valori tendenzialmente più elevati di ematocrito).  Con meccanismi del tutto ignoti, una ridotta VAF si accompagna ad una prognosi peggiore (Guglielmelli P, 2007; Tefferi A, 2008). Come nella TE, anche nella mielofibrosi la mutazione di CALR rappresenta la seconda più frequente mutazione (20-30% dei casi), mentre le mutazioni di MPL riguardano circa il 7-10% dei pazienti. C’è una predominanza di mutazioni di tipo 1 di CALR, che si associa anche ad una prognosi migliore rispetto alle altre categorie di mutazioni driver (Rumi E, 2014; Guglielemelli P, 2017). Ne deriva, che in una quota variabile intorno al 10-20% dei pazienti con diagnosi di PMF non vengono attualmente rilevate mutazioni e questi casi sono definiti “tripli negativi”. A differenza della TE, quest’ultima categoria mutazionale è caratterizzata da una prognosi particolarmente infausta, con sopravvivenza di poco superiore ai 2 anni.

Accanto alle mutazioni dei geni cosidetti “driver” della PMF, è stata riportata la presenza di mutazioni genericamente definite “mieloidi”, in quanto presenti anche in altri disordini mieloidi, in primis le sindromi mielodisplatiche e le leucemie acute. Queste mutazioni, altamente eterogenee e che pertanto richiedono, per poter essere identificate, approcci cosiddetti “ad alta produttività” quali il next generation sequencing (NGS), coinvolgono geni che funzionalmente possono essere classificati come geni i cui prodotti sono coinvolti nella regolazione della metilazione del DNA, delle proteine istoniche, dello spliceasoma, oppure recettori di citochine, fattori di trascrizione o veri e propri oncogeni. Queste mutazioni, che si riscontrano con frequenza minore anche nella PV e nella ET, sono elencate nella Figura V (Tefferi A, 2017).

Si ritiene che queste mutazioni rappresentino spesso il primo evento mutazionale ad essere acquisito, che può dare luogo ad espansione clonale ed è poi seguito dall’acquisizione di una delle mutazioni driver; tuttavia in altri casi, la sequenza di acquisizione mutazionale è opposta. Queste mutazioni sono considerate un criterio diagnostico aggiuntivo qualora le mutazioni driver siano assenti, come nei pazienti con PMF e ET triplo-negativi (TN). È opportuno ricordare che queste stesse mutazioni mieloidi possono essere riscontrate, in assenza di alterazioni ematologiche e cliniche, in individui sani, costituendo il fenomeno della cosidetta “emopoiesi clonale correlata all’età (ARCH)” o “emopoiesi clonale di incerto significato (CHIP)” (Shlush LI, 2018). La rilevanza del riscontro di queste mutazioni sta nel loro valore prognostico, come verrà discusso di seguito.

 

Figura V: Mutazioni non-driver nellnelle MPN in fase cronica

 

Diagnosi

 

La diagnosi è fondamentalmente istologica e, secondo i criteri WHO-2016 (Tabella I) la mielofibrosi primaria viene distinta in due categorie, che potrebbero rappresentare fasi non obbligatorie di transizione dalla prima alla seconda. Nelle fasi iniziali (categoria della “early o pre-PMF”) il midollo può essere ipercellulare con preminente proliferazione granuloblastica e megacariocitaria e riduzione della linea eritroide. L’aspetto che caratterizza questa fase, oltre alle alterazioni morfologiche dei megacariociti, è la presenza di fibrosi midollare di grado non superiore ad 1 secondo i criteri europei di gradazione 0-3, mentre nella forma “overt” il midollo tende ad essere progressivamente ipocellulato con riduzione in particolare della componenete eritroide e prevalenza di proliferazione megacariocitaria, con elementi fortemente abnormi sotto il profilo morfologico e con spiccata tendenza alla formazione di cluster coesi. Nella attuale classificazione, la diagnosi viene facilitata dalla presenza di almeno uno dei criteri minori; a differenza della forma “overt” o avanzata di MF non è presente leucoeritroblastosi. Si noti che la mutazione di JAK2V671F, MPL e CALR fa parte dei criteri maggiori per stabilire la clonalità della malattia. In assenza delle mutazioni driver, la clonalità della malattia può essere dimostrata con una delle mutazioni non driver epigenetiche, le più comuni essendo ASXL1, EZH2, TET2, IDH1/IDH2, SRSF2, SF3B1.

I criteri di diagnosi di mielofibrosi che si sviluppa dopo TE o PV sono presentati nella Tabella II.

 

Manifestazioni cliniche

 

I sintomi della PMF possono essere classificati in tre categorie principali: mieloproliferativi, citopenici e costituzionali (Figura VI). Il primo gruppo comprende l’epatosplenomegalia, spesso assai marcata e che può rappresentare il sintomo più importante per il paziente. Una splenomegalia massiva può essere dolente, comprimere e dislocare gli organi addominali e favorire la comparsa di ascite e versamenti pleurici e pericardici, oltre a facilitare gli infarti splenici e/o le trombosi addominali.

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Figura VI: Categorie di sintomi della PMF

 

Citopenie di varia severità sono caratteristiche della PMF e sono multifattoriali. L’anemia è la citopenia più comune ed è provocata da diverse cause che includono l’emopoiesi inefficace, il sequestro splenico, l’emolisi ed eventuali perdite emorragiche dal tratto gastrointestinale, per es. da varici esofagee in pazienti con ipertensione portale secondaria o meno a trombosi splancnica. La piastrinopenia può peggiorare il rischio emorragico, mentre la leucopenia è più rara e raramente marcata. Più frequentemente si osserva una leucocitosi con un tipico quadro leuco-eritroblastico, caratterizzato da elementi immaturi della serie granuloblastica nel sangue periferico e da anisopoichilocitosi eritrocitaria con cellule “a goccia”, o dacriociti.

L’elevato turn-over cellulare e l’ematopoiesi extramidollare tipici della malattia possono inoltre indurre uno stato ipercatabolico con sintomi costituzionali, anche severi, quali perdita di peso, astenia (‘fatiguè’), febbre e cachessia.

 

Classificazione del rischio

 

Diversi sistemi di classificazione del rischio di mortalità sono stati creati per i pazienti con PMF. Negli ultimi anni sono stati sviluppati criteri diagnostici che si basano sulla progressiva introduzioni di variabili genetiche, fino ad uno score esclusivamente genetico, GIPSS (Figura VII).

 

Figura VII: Evoluzione dei modelli prognostici nella PMF

 

Lo score più comunemente utilizzato nella pratica clinica, basato esclusivamente su variabili cinico-ematologiche, è l’International Prognostic Scoring System (IPSS) e utilizza parametri clinici facilmente accessibili (Figura VIII) (Cervantes F, 2009). La presenza di 0, 1, 2 e >3 fattori avversi definisce rispettivamente un rischio basso, intermedio-1, intermedio-2 o alto. Poiché l’IPSS usa dati ottenuti alla diagnosi, è stato sviluppato anche un modello prognostico dinamico (DIPSS) per valutare pazienti osservati durante il decorso della malattia (Passamonti F, 2010). Altri parametri clinici prognosticamente significativi ed indipendenti dall’IPSS sono la necessità di trasfusioni entro il primo anno dalla diagnosi e anomalie citogenetiche diverse da +9, 13q- o 20q- (Tefferi A, 2010), che sono state incorporate nel primo score misto clinico-genetico, definito DIPSS-plus. Pazienti a basso rischio IPSS senza un profilo citogenetico sfavorevole hanno un’aspettativa mediana di vita che supera 15 anni. All’opposto, pazienti con un profilo di rischio IPSS alto o intermedio-2 o con necessità trasfusionali o citogenetica sfavorevole hanno un’attesa di vita mediamente inferiore a 5 anni.

 

Figura VIII: Sistemi prognostici IPSS, DIPSS e DIPSS-plus per pazienti con PMF.

 

Recentemente è stato riconosciuto il valore prognostico dell’assetto mutazionale. Pazienti triplo-negativi per le mutazioni driver hanno una sopravvivenza significativamente inferiore rispetto ai CALR mutati e JAK2V617F mutati, che a sua volta è ridotta rispetto ai CALR  mutati tipo I e simile ai CALR mutati tipo II (Rumi E, 2014; Guglielmelli P, 2015). È stato poi riconosciuto che un pannello di 4 geni, ASXL1, EZH2, IDH1/2, SRSF2, predice, se mutati, una ridotta sopravvivenza ed un maggior rischio di trasformazione leucemica (categoria HMR, ad alto rischio molecolare) (Vannucchi AM, 2013; Guglielmelli P, 2014). Più di recente anche le mutazioni di U2AF1 sono state incluse tra quelle della categoria HMR.

Queste informazioni sono state del tutto recentemente utilizzate per sviluppare un nuovo modello prognostico (MIPSS70) che incorpora variabili cliniche e molecolari per pazienti con PMF ed età inferiore a 70 anni, quindi potenziali candidati alla procedura trapiantologica; lo score è peraltro parimenti informativo anche per soggetti di età superiore a 70 anni (Guglielmelli P, 2018; Tefferi A, 2018). Le variabili sono elencate nella Figura IX, ed è disponibile un link web free per il calcolo dello score: http://www.mipss70score.it .

 

Figura IX: Variabili incluse nello score prognostico MIPSS70.

 

È stato osservato che lo score MIPSS70 predice con maggiore accuratezza rispetto a IPSS e DIPSS/plus la sopravvivenza, specialmente nelle categorie intermedie di pazienti (Figura X). La versione MIPSS70 plus incorpora anche informazioni citogenetiche, identificando una categoria citogenetica sfavorevole che include ogni anomalia cariotipica diversa dal cariotipo normale o l’alterazione isolata di 20q-, 13q-, +9, translocazione/duplicazione del chr 1, -Y, or alterazioni dei cromosomi sessuali a parte la -Y. MIPSS70plus identifica una categoria a rischio molto elevato con sopravvivenza di poco superiore all’anno (Figura X). Infine, nella versione MIPSS70v2.0 si è introdotta tra le variabili la presenza della mutazione di U2AF1 e l’anemia corretta per sesso.

 

Figura X: stratificazione prognostica secondo MIPSS7o e MIPSS70 plus.

 

I sistemi di stratificazione prognostica IPSS e DIPSS sono stati largamente utilizzati nella pratica clinica anche nelle forme secondarie di MF. Studi più recenti hanno però dimostrato che questi modelli non sono altrettanto performanti (Rotunno G, 2016) ed hanno condotto quindi alla descrizione di un modello specifico per questa categoria di MF, definito MYSEC-MF16. Le variabili e la stratificazione secondo il rischio sono mostrati nella Figura XI. Anche per questo modello è disponibile un web tool all’indirizzo http://www.mysec-pm.eu (Passamonti F, 2017).

 

Figura XI: Lo score prognostico MYSEC-MPM per pazienti con MF secondaria.

 

Terapia  

 

Nella PMF, la terapia rimane palliativa, volta a correggere l’anemia, la splenomegalia, i sintomi costituzionali, salvo in alcuni casi in cui il trapianto di midollo osseo può avere un fine curativo.

 

Anemia

 

Gli esperti dell’ELN raccomandano di iniziare il trattamento per l’anemia nei pazienti con PMF quando l’emoglobina scende a valori <10 g/dL (Barbui T, 2011). I farmaci che hanno mostrato efficacia includono: corticosteroidi, danazolo, eritropoietina, talidomide e lenalidomide, anche in combinazione fra loro. Ciascuno di essi ha dei limiti e non ci sono studi clinici comparativi che permettano di stabilire il miglior trattamento. È indicato un primo approccio con eritropoietina qualora il livello di EPO endogena sia inferiore a 200U/l; in caso di inefficacia è possibile iniziare con un dosaggio pieno (400-600 mg/die) di danazolo per sei mesi, e se necessario, come uteriore step, si possono utilizzare gli immunomodulanti quali talidomide a basso dosaggio (50-100 mg/die) associata a cortisonico (Cervantes F, 2014). Nei casi con citogenetica 5q-, la lenalidomide è il farmaco di scelta. In molti casi di anemia severa, è necessario ricorrere alla terapia trasfusionale, con il conseguente sovraccarico di ferro. Èconsigliabile ridurre il sovraccarico di ferro con la terapia ferro-chelante nei pazienti candidati al trapianto di cellule staminali emopoietiche, mentre in assenza di opzione trapiantologica la maggior parte degli esperti non raccomanda la chelazione.

 

Splenomegalia

 

La splenomegalia sintomatica nella mielofibrosi si riscontra nel 10% dei casi alla diagnosi ma si sviluppa in più del 50% dei pazienti nel corso della malattia. I farmaci convenzionali utilizzati per ridurre la splenomegalia massiva sono idrossiurea, melphalan e busulfano, ma i risultati sono insoddisfacenti. Con idrossiurea il 40% dei pazienti può ottenere una parziale riduzione (Barosi G, 2009b; Mesa RA, 2009). L’irradiazione splenica non è consigliata per la scarsa e transitoria efficacia e il rischio di severe citopenie (Barbui T, 2011). La splenectomia è un opzione da considerare nei casi di splenomegalia massiva resistente alla terapia medica, incluso i JAK inibitori, se associata a ipertensione portale sintomatica (varici sanguinanti, ascite), dolore splenico, cachessia o frequente necessità trasfusionale (Tefferi A, 2000). L’intervento chirurgico può essere associato a complicanze emorragiche o trombotiche (in particolare trombosi della vena splenica) e una profilassi sia anticoagulante che citoriduttiva, mantenendo ematocrito e piastrine pre-intervento a valori normali, è raccomandata. È stato di recente sviluppato uno score di rischio per la previsione della mortalità associata alla procedura (Gagelmann N, 2019).

 

JAK-inibitori

 

Questi farmaci agiscono principalmente inibendo la via iperattivata di JAK-STAT che è presente in tutti i pazienti con mielofibrosi, indipendentemente dal tipo di mutazione driver e anche nei triplo-negativi.  Pertanto essi vengono impiegati sia nei casi JAK2 mutati che nei pazienti senza questa mutazione.

Il ruxolitinib è un inibitore orale che è stato approvato sia da FDA che da EMA per la PMF.

L’approvazione si è basata sui risultati di due studi di fase III randomizzati nei quali il farmaco è stato comparato contro placebo (COMFORT-1) o contro la migliore terapia disponibile prescritta dai centri partecipanti europei (COMFORT-2) in pazienti con mielofibrosi primaria o post-trombocitemia o policitemia vera, a rischio intermedio/alto (Verstovsek S, 2012; Harrison C, 2012). I risultati dei due trial hanno mostrato che una più alta proporzione di pazienti trattati con il farmaco ruxolitinib raggiungevano l’end-point primario, che era la riduzione di almeno il 35% della splenomegalia (valutata come volume splenico con risonanza magnetica nucleare, corrispondente a una riduzione di almeno il 50% della splenomegalia valutata con palpazione) dopo 24 settimane nel COMFORT-1 e 48 settimane nel COMFORT-2. Degno di nota è che nel 97% dei pazienti veniva documentata una riduzione della splenomegalia di qualsiasi grado e che il risultato era mantenuto nella grande maggioranza dei rispondenti (80%) (Harrison CN, 2016). Di grande interesse è il dato sul miglioramento della sopravvivenza globale emerso dal prolungamento della osservazione dei pazienti arruolati nei due trial clinici (Cervantes F, 2013). Peraltro, l’evidenza che il farmaco possa modificare favorevolmente la storia naturale della malattia è attualmente incerta, in considerazione del disegno degli studi che includeva, necessariamente, il cross-over dal gruppo del placebo o della migliore terapia disponibile al braccio con ruxolitinib (Versotvsek S, 2017; Cervantes F, 2017).

Il farmaco ha mostrato efficacia anche sui sintomi sistemici (sudorazioni, prurito, astenia) che nell’arco di 4-6 settimane sono regrediti consentendo un significativo miglioramento della qualità di vita.  Il farmaco è risultato ben tollerato anche se si è notato un peggioramento della anemia in circa il 45% dei casi tanto che la necessità di emotrasfusioni è stata del 60% nei pazienti trattati con ruxolitinib e del 38% nei controlli, senza peraltro compromettere i positivi risultati sulla riduzione della splenomegalia e sui sintomi sistemici. Nel 10% dei casi con ruxolitinib e in meno del 2% dei controlli, vi è stata significativa piastrinopenia. Da notare che la brusca interruzione della terapia si è associata a ripresa rapida della splenomegalia ed aggravamento dei sintomi, tanto da raccomandare, nei casi in cui si deve sospendere, una progressiva riduzione del farmaco. Gli eventi avversi più comuni sono rappresentati da episodi infettivi batterici, ma anche da riattivazione virale e infezioni inusuali, inclusi alcuni eventi di leucoencefalopatia multifocale progressiva. Recentemente, è stato riportato lo sviluppo di linfomi aggressivi, specialmente in soggetti che presentavano una condizione di restrizione clonale dei linfociti B a livello midollare (Porpaczy E, 2018).

La durata mediana della risposta a ruxolitinib è di 3-5 anni. La perdita di risposta si associa ad una sopravvivenza marcatamente ridotta ed è riferita all’acquisizione di progressione clonale, ovvero la comparsa di nuove mutazioni e/o il progressivo aumento della carica allelica di quelle preesistenti (Newberry KJ, 2017; Pacilli A, 2018).

Altri JAK inibitori sono in fase di studio in trial clinici, tra questi fedratinib, momelotinib, pacritinib. Altri farmaci in corso di sperimentazione nella MF sono l’inibitore delle telomerasi imetelstat (Tefferi A, 2015) e un analogo della pentraxina, PRM-151. Quest’ultimo è stato utilizzato sia come singolo farmaco sia in associazione a ruxolitinib. I risultati sono ancora preliminari, ma è stata riportata efficacia sulla splenomegalia, iniziali evidenze di miglioramento della fibrosi midollare e miglioramento dell’anemia.

 

Trapianto di cellule staminali

 

Il trapianto di cellule staminali emopoietiche è l’unico approccio potenzialmente curativo nei pazienti con PMF. Peraltro, la procedura è gravata da una significativa mortalità e morbidità, anche quando si impiegano regimi di condizionamento ad intensità ridotta. La mortalità correlata al trapianto è stata stimata intorno al 30% e la sopravvivenza mediana a 5 anni è del 45-50%. Pertanto, gli esperti dell’ELN considerano candidabili al trapianto pazienti con una aspettativa di vita mediana inferiore a 5 anni (Barbui T, 2011) (Barbui T, 2018). Questa indicazione includerebbe casi con IPSS a rischio alto o intermedio-2, o con necessità trasfusionali o anomalie citogenetiche sfavorevoli (Passamonti F, 2010). Devono essere inoltre considerati altri fattori potenzialmente avversi per l’esito della procedura trapiantologica, come l’età avanzata, la presenza di splenomegalia massiva, una fase avanzata di malattia o la disponibilità di un donatore non HLA-identico (Barbui T, 2011; Bacigalupo A, 2010).

Al fine di ottimizzare sia le indicazioni che le procedure del trapianto di cellule staminali emopoietiche nella mielofibrosi, è stato di recente completato un processo di consenso tra gli esperti afferenti a EBMT e ELN. È stato indicato il trapianto fino a 70 anni nei rischi intermedio 2 o alto rischio e nei casi fino ai 65 anni anche se intermedio 1 purché abbiano dipendenza alle trasfusioni, blasti periferici superiori al 2% o citogenetica sfavorevole (Kröger NM, 2015). Del tutto recentemente è stato proposto uno score di predizione del rischio di mortalità associata alla procedura trapiantologica, MTSS (Gagelmann N, 2019) (Figura XII).

 

Figura XII: Modello prognostico per la sopravvivenza post-procedura di trapianto di cellule staminali nella mielofibrosi.

 

In base alle variabili sopra indicate vengono identificate 4 categorie di rischio, bassa (LR, sopravvivenza a 5 anni del 90%), intermedia (IR, 77%), alta (HR, 50%), e categoria a rischio molto elevato (vHR, 32%).

 

Algoritmo per il trattamento della mielofibrosi

 

Nella Figura XIII viene sintetizzata la gestione terapeutica dei pazienti con PMF. Lo score da utilizzare è IPSS/DIPSS, o preferibilmente MIPSS70/v2.0 qualora siano disponibili i risultati delle analisi mutazionali e/o citogenetiche.

 

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Figura XIII: Flow-chart di trattamento della PMF

 

Queste indicazioni riflettono largamente quelle riportate nella revisione delle linee guida del ELN (Barbui T, 2018) e del NCCN (Versione 2.2018). La splenectomia trova ancora indicazione nei casi con splenomegalia resistente o refrattaria a ruxolitinib.

 

 

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A cura di:

Direttore Scientifico Fondazione per la Ricerca (FROM), Ospedale Papa Giovanni XXIII, Bergamo.
Dal 1981al 2005, Primario della Divisione di Ematologia, Ospedali Riuniti di Bergamo, che ha fondato nel 1981. Dal 1998 al 2008 Responsabile del Dipartimento Onco-ematologico degli Ospedali Riuniti di Bergamo.

Professore ordinario di Ematologia, Direttore della SODc di Ematologia, Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi, Direttore della Scuola di Specializzazione dell'Università degli Studi di Firenze.

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