L’anemia aplastica acquisita (AA) è una grave, rara, malattia (incidenza 1-2 casi/milione/anno, 3 volte superiore in estremo oriente) la cui prognosi è notevolmente migliorata negli ultimi anni grazie ai progressi sia dei percorsi diagnostici sia delle terapie di supporto e di quelle specifiche (trapianto di cellule staminali emopoietiche e terapia immunosoppressiva) che hanno permesso di raggiungere nei casi più favorevoli, probabilità di cura fino al 90%. Nel presente capitolo descriveremo la fisiopatologia, il fenotipo clinico, l’approccio diagnostico e le differenti opzioni terapeutiche disponibili per la AA.
L’AA è definita come una condizione di citopenia periferica con midollo ipocellulare, senza maggiori segni di displasia, senza aumento dei blasti e senza fibrosi. In particolare la diagnosi di AA prevede che si associno una cellularità ematopoietica inferiore al 30% con 2/3 dei seguenti elementi del sangue periferico:
L’AA è una malattia multifattoriale dovuta a un attacco autoimmune verso le cellule staminali ematopoietiche (CSE). Si possono identificare sostanzialmente alterazioni in tre compartimenti fisiopatologici che cooperano alla realizzazione della malattia: 1) Compartimento delle CSE; 2) Compartimento della risposta immunitaria e 3) Compartimento dello stroma.
Nei pazienti AA è presente un difetto sia quantitativo sia qualitativo della CSE. In effetti numero delle cellule staminali pluri-potenti residue è < 1% rispetto ad un soggetto normale. Sotto il profilo qualitativo, il 30-50% dei leucociti dei pazienti AA ha il telomero accorciato, verosimilmente per aumentato turnover cellulare e stress replicativo (Bar C et al, 2016), che predispone ad una maggiore fragilità della cellula staminale emopoietica. L’accorciamento del telomero può essere però anche dovuto a mutazioni nei geni del complesso telomerasi-shelterina (DKC1, TERC, TERT ecc.) che è preposto alla riparazione/protezione della parte finale dei cromosomi. Tali mutazioni, usualmente allo stato omozigote, generano le telomeropatie costituzionali di cui la Discheratosi Congenita classica è il prototipo più noto. Tuttavia le mutazioni soprattutto dei geni TERC e TERT, allo stato eterozigote, possono essere ritrovate in circa il 10% delle AA e potrebbero essere responsabili di una maggiore fragilità della CSE (Yamaguchi H et al, 2005). Altri elementi di maggior debolezza della CSE dei soggetti affetti da AA sono sia la ridotta espressione sia il deficit di funzione del fattore di trascrizione GATA2, indispensabile per l’ematopoiesi. Tale deficit quanti/qualitativo provoca un aumento della componente adiposa del midollo e penalizza la formazione di colonie dei progenitori ematopoietici, contribuendo dunque all’insufficienza midollare (Kamata M et al, 2014).
Uno dei meccanismi prevalenti nella patogenesi dell’AA è quello immunologico come dimostra l’inibizione della crescita dei progenitori midollari in vitro mediata dai linfociti dei pazienti AA o la presenza nel midollo di soggetti aplastici di cellule CD4+ specifiche e di CD8+ oligoclonali (Risitano A et al, 2004). A conferma del ruolo patogenetico di tali cloni, è stata documentata la loro fluttuazione correlata con la risposta alla terapia immunosoppressiva (IST) (Risitano A et al, 2002). Alla base dell’AA vi è un’attivazione di linfociti T citotossici auto-reattivi che liberano citochine mielosoppressive fra cui TNF-alfa e INF-gamma le quali bloccano la mitosi e aumentano l’apoptosi, con conseguente distruzione delle CSE (Dufour C et al, 2009). La formazione di questi cloni auto-reattivi sarebbe favorita anche dal fatto che linfociti T regolatori (Tregs) nei pazienti AA sono ridotti e sono alterati qualitativamente (Solomou E et al, 2007). Un recente studio (Kordasti S et al, 2016) utilizzando la metodica della citofluorimetria di massa (Cytof) ha identificato nei soggetti AA due sottopopolazioni di Tregs (A e B) differenti per fenotipo, espressione genica e funzione. Il tipo B prevale nei pazienti che rispondono alla terapia immunosoppressiva, ha un fenotipo memoria/attivato ed esprime il pathway interleuchina-2 (IL-2/STAT5) ed è pertanto sensibile all’IL2. Questi dati sono importanti perchè consentono di identificare markers predittivi di risposta alla terapia immunosoppressiva e suggeriscono nuovi approcci terapeutici quali ad esempio l’uso di basse dosi di IL-2. Un possibile contributo patogenetico è offerto anche dalle sovra-espressione da parte della CSE di ligandi quali NKG2D che richiamano nel midollo e attivano linfociti T, NK, NKT che danneggiano la cellula emopoietica.
La presenza di polimorfismi in regioni promoter dei geni delle citochine mielosoppressive nei pazienti con AA suggerisce inoltre un’influenza genetica nella risposta immune che può condizionare, nei soggetti che ne sono portatori, una maggiore attivazione della risposta infiammatoria che predisporrebbe i soggetti a sviluppare un’inibizione midollare citochino-mediata (Dufour C et al, 2004). Altri dati a favore dell‘influenza genetica nella risposta immunitaria derivano dall’osservazione che alcuni alleli HLA (DRB1 (1501, 0405), B14, B (4801) favorirebbero lo sviluppo di AA mentre altri (HLA-DRB1*03:01, HLADRB1* 11:01, HLA-DRB1*03, HLA-B*51:01) avrebbero un ruolo protettivo (Zeng Y e Katsanis E, 2015). La perdita acquisita di eterozigosi del braccio corto del cromosoma 6 (6pLOH), la disomia uniparentale del cromosoma 6 e alcune mutazioni negative di geni dell’HLA (es HLA B40.02) determinano la mancata espressione delle molecole dell’HLA sulle CSE che non venendo più riconosciute sopravvivono all’attacco immune generando così un ematopoiesi oligoclonale che potrebbe guidare la residua attività proliferativa midollare (Katagiri T et al, 2011; Ogawa S, 2016; Zaimoku Y et al, 2017).
Allo stroma midollare dei soggetti AA è stato attribuito un ruolo favorente lo sviluppo della malattia in termini di mancato freno sui linfociti T attivati e sulla produzione delle citochine mielosoppressive quali IFN-gamma. Di rilievo il fatto che tali anomalie non sono corrette dalla terapia immunosoppresiva ma lo sono dal trapianto (Bacigalupo A et al, 2005).
L’attuale modello patogenetico multifattoriale dell’ AA, pur presentando aspetti non completamente chiariti, contempla un evento iniziale che può essere rappresentato da un’infezione virale e/o da una mutazione genetica nel compartimento delle CSE che determinano o la generazione di neo-antigeni o una scorretta presentazione di un antigene da parte del complesso maggiore di istocompatibilità, ciò che porta alla formazione di cellule T auto-reattive che si espandono e liberano citochine mielosoppressive fra cui TNF-alfa e INF-gamma, che determinando un eccesso di apoptosi della CSE generando lo spopolamento della componente ematopoietica del midollo osseo. Recentemente è stato documentato in soggetti affetti da AA il ruolo patogenetico di cloni cellulari T auto-reattivi specifici verso il complesso GPI (la cui assenza determina la lisi complemento-mediata delle emazie che genera l’emolisi intravascolare caratteristica dell’Emoglobinuria Parossistica Notturna (EPN) florida) espresso sulle CSE. Ciò permette di identificare tali molecole come uno dei target dell’attacco autoimmune al midollo osseo, spiegando cosi, oltre all’insorgenza dell’insufficienza midollare anche la emergenza e la coesistenza dei cloni EPN (che sono GPI negativi) con l’AA (Gargiulo L et al, 2017) che frequentemente si verifica nel corso della malattia.
Il fenotipo clinico è dominato dai segni e sintomi dovuti alle citopenie. L’anamnesi personale evidenzia in alcuni casi una citopenia mono-lineare, un’epatite sieronegativa o l’esposizione a farmaci. Moltissimi farmaci sono stati associati all’origine dell’AA. La Tabella I include quelli per i quali esistono le maggiori evidenze statistico-epidemiologiche (Kaufman DW et al, 1991) sul ruolo causativo dell’AA.
Tabella I: Farmaci implicati nell’AA (Kaufman DW et al, 1991)
L’iter diagnostico deve confermare la sussistenza degli elementi che definiscono l’AA ed escludere le patologie che possono entrare in diagnosi differenziale quali le leucemie, le mielodisplasie (MDS) ipocellulari, le aplasie nell’ambito di malattie autoimmuni, gli immunodeficit, gli stati linfoproliferativi, le aplasie genetico-costituzionali, le infezioni, l’emoglobinuria parossistica notturna (EPN) (Tabella II).
Tabella II: Programma diagnostico dell’AA (modificata da Barone A et al, 2015).
L’anamnesi familiare positiva per anemia, citopenia, neoplasie ematologiche ed epiteliali deve far sospettare la presenza di una condizione genetica, che deve essere considerata anche in presenza di anomalie fisiche (piccoli dismorfismi facciali, bassa statura, malformazioni renali, degli arti, distrofia delle unghie e della cute). La valutazione midollare deve comprendere sia un aspirato midollare sia una biopsia osteo-midollare (BOM). L’aspirato serve a verificare la presenza o meno di blasti e di segni di displasia che, quando presenti in forma marcata sono suggestivi di mielodisplasia (MDS). In particolare, il pattern dei megacariociti è utile nella diagnosi differenziale, in quanto tali cellule sono spesso ridotte o assenti nelle AA, mentre sono piccoli o aberranti (micromegacariociti) nelle MDS. La BOM è l’esame cardine per la diagnosi poiché oltre e a verificare la presenza di fibrosi e di infiltrati, definisce la topografia delle cellule midollari, quantifica la cellularità ematopoietica che deve essere < 30% nei bambini e negli adulti, mentre negli anziani, che hanno una cellularità fisiologicamente ridotta, tale cut-off è meno netto. Va ricordato che nel caso di BOM tangenziali il midollo subcorticale è fisiologicamente ipocellulare.
Nonostante circa il 10% dei pazienti AA abbia anomalie citogenetiche midollari, la presenza di una monosomia del cromosoma 7o una 5q- fa propendere per una MDS.
Nel work-up diagnostico della AA va inclusa anche la ricerca di cloni EPN. Poiché tale test può risultare falsamente negativo alla diagnosi per la marcata granulocitopenia, è necessario ripeterlo dopo l’eventuale recupero dei neutrofili.
La Tabella II include un esteso work-up diagnostico per un’accurata identificazione, definizione di gravità e diagnostica differenziale della AA.
Durante l’iter diagnostico è opportuno anche eseguire la tipizzazione HLA sia per permettere di avviare il più rapidamente la ricerca di un donatore nei pazienti che non hanno un familiare HLA identico sia per identificare soggetti con HLA-DR2 and HLA-DRB1*15 che hanno buona probabilità di rispondere alla ciclosporina A (CSA) e di diventare dipendenti da questa terapia (Sugimori C et al, 2007).
Le nuove metodiche di indagine molecolare quali next generation sequencing (NGS) o whole exome sequencing (WES), pur con le inevitabili difficoltà interpretative di risultati non univoci, possono essere di aiuto per l’identificazione delle forme non classiche o criptiche di insufficienza midollare e migliorare quindi l’accuratezza diagnostica dell’AA.
L’evoluzione clonale neoplastica è l’evento più temuto nell’AA, si verifica nel 15% dei pazienti ed è più frequente in soggetti anziani o con una lunga storia di malattia. È in genere annunciata, da un peggioramento della citopenia (in chi ha risposto), dalla comparsa di displasia e/o anomalie citogenetiche nel midollo, anche se è da tener presente che alcune anomalie citogenetiche, fra le quali non rientra la monosomia del 7, possono essere transitorie e necessitano esclusivamente di follow-up (Miano M e Dufour C, 2015). L’avvento delle nuove tecniche di NGS ha permesso di analizzare i geni coinvolti nell’evoluzione clonale delle AA verso le MDS. Uno studio recente (Yoshizato T et al, 2015) ha dimostrato che circa il 20% dei pazienti con AA è portatore di mutazioni somatiche di geni coinvolti nella regolazione epigenetica della trascrizione del DNA (DNMT3A e BCOR-BCORL1) o nella regolazione della risposta immune (ASXL1). È stato osservato inoltre che cloni BCOR-BCORL1 tendono a scomparire o rimanere di piccole dimensioni e che la loro presenza si associa a una migliore risposta alla terapia immunosoppressiva e ad un “outcome” più favorevole. Al contrario, cloni con mutazioni di ASXL1 e DNMT3A tendono a crescere nel tempo e associarsi a una mancata risposta alla terapia immunosoppressiva, e all’evoluzione verso MDS/LMA (Leucemia Mieloide Acuta). In generale i pazienti con una inferiore lunghezza del telomero ed una durata più lunga della malattia sono quelli a più alto rischio di evoluzione verso MDS (Yoshizato T et al, 2015). Un’evoluzione clonale non neoplastica è rappresentata dall’emergenza di cloni EPN che si verifica nel 40-50% dei pazienti AA adulti e quindi il monitoraggio di tali cloni va effettuato per tutta la vita. È da tenere presente che è anche possibile la situazione inversa e cioè che un paziente con EPN emolitica florida sviluppi un’AA.
Il trattamento delle AA va effettuato in centri specialistici di comprovata competenza nella gestione di pazienti con insufficienza midollare. Durante la fase diagnostica è necessario stabilizzare il paziente dal punto di vista del controllo emorragico ed infettivo. È sconsigliato in questa fase preliminare iniziare terapia steroidea, inefficace sull’ematopoiesi ma in grado al contrario di aumentare il rischio infettivo, ed è invece necessario avviare terapia di supporto.
Il trattamento specifico ha l’obiettivo di ripristinare l’ematopoiesi o attraverso il trapianto di cellule staminali emopoietiche (TCSE) o attraverso la terapia immunosoppressiva combinata (IST).
L’anemia deve essere trattata con trasfusioni di globuli rossi concentrati con l’obiettivo di correggere i sintomi dovuti all’anemia piuttosto che di raggiungere un valore specifico di emoglobina. Il sovraccarico marziale deve essere monitorato e la chelazione va iniziata se il carico di ferro alla RM T2* è superiore a 200 ml/kg o il ferro epatico è > 7 mg/g del peso secco. Se non è possibile valutare il contenuto marziale epatico con la RM T2*, la ferritina serica, pur se meno specifica, è un accettabile marker di sovraccarico marziale indicato da valori stabilmente > 1000 ng/ml (Miano M e Dufour C, 2015). La piastrinopenia deve essere trattata con concentrati piastrinici solo quando la conta è < 10.000/mmc o vi sono sanguinamenti in atto.
Alcuni autori raccomandano di trasfondere le piastrine al di sotto del cut-off di 30.000/mmc durante la terapia con globulina antilinfocitaria (ATG) Tutti gli emoderivati trasfusi devono essere leucodepleti e irradiati per ridurre il rischio di reazioni trasfusionali e di sensibilizzazione. Nei pazienti linfopenici, inoltre, è raccomandata la profilassi anti Pneumocystis. La profilassi antifungina può essere presa in considerazione se la conta dei neutrofili è persistentemente < 200/mmc. La profilassi antibiotica deve essere considerata in pazienti con neutrofili < 200/mmc, fra il giorno +30 e +90 dopo terapia immunosoppressiva.
I pazienti con anemia aplastica grave o molto grave ed i pazienti con anemia aplastica non grave ma trasfusione-dipendente devono essere avviati il più rapidamente possibile alle terapie specifiche, poiché in tali circostanze la remissione spontanea è estremamente rara ed un intervallo di tempo superiore a 2-3 mesi tra diagnosi e trattamento si associa ad una prognosi peggiore (Locasciulli A et al, 2007). Il TCSE da donatore familiare HLA identico è l’opzione di prima scelta nei pazienti pediatrici e nei giovani adulti. Il razionale della IST consiste nel contrastare l’attacco autoimmune verso le cellule ematopoietiche midollari attraverso l’impiego di farmaci ad azione antilinfocitaria (siero antilinfocitario, ciclosporina). Tale terapia offre probabilità di sopravvivenza a lungo termine simili a quelle del trapianto da familiare compatibile (Bacigalupo A, 2017), ma una qualità della sopravvivenza largamente inferiore soprattutto nei pazienti pediatrici (Dufour C et al, 2015a; Dufour C et al, 2015b).
Trapianto da donatore familiare HLA identico
Tale TCSE produce ottimi risultati con una probabilità complessiva di sopravvivenza fra il 76% ed il 90%; le probabilità di graft failure, di GvHD acuta e cronica, di mortalità trapianto correlata sono pari a circa il 10% ed il rischio di tumore secondario è inferiore all1%.
Nei pazienti pediatrici l’Event Free Survival (EFS), indicatore qualitativo della sopravvivenza poichè include i pazienti che sopravvivono mantenendo la risposta senza sviluppare nè clone neoplastico né clone EPN clinicamente evidente e non devono ricorrere al TCSE dopo aver fallito l’IST, è pari all’ 87% ed è significativamente superiore a quella ottenibile con l’IST (33%) (Dufour C et al, 2015a). Sulla base di tali dati il TCSE da familiare HLA identico va considerata la terapia di prima linea in età pediatrica e nel giovane adulto fino a 40 anni (Yoshida N et al, 2014; Dufour C et al, 2014; Dufour C et al, 2015a; Bacigalupo A, 2017) ed anche in pazienti più anziani, fino a 50-60 anni in caso di aplasia grave se il soggetto è in buone condizioni generali e senza comorbidità (Bacigalupo A, 2017; Marsh J et al, 2011). Il regime di condizionamento più utilizzato sotto l’età di 30 anni include Ciclofosfamide 6 g/m2 (dose totale) + ATG. In questo contesto l’ATG di coniglio ha determinato una minor incidenza di GvHD acuta e cronica (Kekre N et al, 2017). Nelle età fra 30 e 50-60 anni è suggerito il regime a ridotta intensità FCC (Fludarabina 20 mg/m2, Ciclofosfamide 1200 mg/m2, Campath 60 mg dose totale) (Marsh J et al, 2011).
TCSE da donatore non familiare HLA identico (MUD)
L’impiego dei moderni regimi di condizionamento a ridotta intensità, la miglior selezione dei donatori grazie al perfezionamento delle tecniche di tipizzazione HLA e l’avanzamento delle terapie di supporto ha determinato un rilevante miglioramento dei risultati al punto che tale tipo di trapianto è stato utilizzato in pediatria come terapia di prima linea in caso di assenza di donatore HLA identico familiare. In particolare uno studio inglese retrospettivo, controllato condotto in collaborazione con il Severe Aplastic Anemia Working Party (SAAWP) dell’European Society for Blood and Marrow Transplantation (EBMT) su pazienti pediatrici (età mediana 8,6 anni) sottoposti a TCSE da MUD in prima linea (Dufour C et al, 2015b), ha dimostrato probabilità di sopravvivenza e di EFS del 96% e del 92% rispettivamente. Tali dati sono paragonabili a quelli ottenuti dal TCSE da familiare HLA identico in prima linea (91% e 87% rispettivamente) ed alla probabilità di sopravvivenza determinata dall’IST (94%) in prima linea. Sono tuttavia significativamente superiori all’EFS (40%) ottenuta dall’ IST in prima linea. Successivi studi retrospettivi su pazienti di età < 20 anni (Mortensen BK et al, 2016; Choi YB et al, 2017) hanno confermato tali dati.
Di rilievo anche il fatto che sia la sopravvivenza sia la EFS del TCSE MUD in prima linea sono statisticamente superiori a quelle riscontate nei soggetti trattati con TCSE MUD dopo fallimento dell’IST (74% per entrambe) ciò che suggerisce di non attendere il fallimento dell’IST in prima linea per tentare un recupero col TCSE MUD che, pur se soddisfacente, è inferiore alla stessa opzione praticata come prima linea di terapia (Dufour C et al, 2015b).
Il regime di condizionamento utilizzato nello studio inglese include Fludarabina (dose totale 120 mg/m2), Ciclofosfamide (dose totale 1200 mg/m2) e Campath (0.9-1 mg/kg).
Sulla base di tali dati, considerata la necessità di assicurare ai pazienti più giovani una buona qualità della sopravvivenza e di minimizzare il rischio di evoluzione clonale che è invece associato all’IST (vedi oltre a Terapia immunosoppressiva), appare legittimo considerare nei soggetti < 20 anni che non hanno un donatore familiare, il trapianto MUD come opzione di prima linea, a patto che possa essere effettuato da un donatore identico per 10/10 o 8/8 Ag HLA entro 2-3 mesi dalla diagnosi per evitare il rischio di gravi infezioni legato al persistere della neutropenia. Per i soggetti in cui non ricorrono tali condizioni l’IST rappresenta comunque una buona opzione imponendo tuttavia un monitoraggio per tutta la vita sul rischio di evoluzione neoplastica.
Anche negli adulti i risultati del TCSE MUD sono molto migliorati negli ultimi anni tanto che nei soggetti a più basso rischio (età fra 10-30 anni e assenza di comorbidità) le probabilità di sopravvivenza si avvicinano all’80% (Bacigalupo A, 2017; Marsh J et al, 2011). Tuttavia la stragrande maggioranza di questi dati sono stati ottenuti in pazienti che avevano affrontato il trapianto dopo fallimento dell’IST e pertanto non possono essere considerati così solidi da generare l’indicazione al TCSE MUD in prima linea anche nell’adulto quando non è disponibile un donatore familiare HLA identico. Negli adulti l’indicazione al TCSE MUD dipende da diversi fattori quali età del ricevente (probabilità di sopravvivenza del 49% in pazienti di età maggiore di 40 anni e progressivamente inferiori col progredire dell’età) (Bacigalupo A, 2017), presenza di comorbidità (inferiori probabilità di sopravvivenza -pari al 40%- in soggetti con più alto Comorbidity Index) (Marsh J et al, 2011), età del donatore (migliore sopravvivenza, maggior rischio infettivo ed inferiore rischio di GvHD con donatori di età < 40 anni) (Aray Y et al, 2016), lunghezza del telomero (miglior sopravvivenza con maggior lunghezza del telomero del donatore) (Gadalla S et al, 2015), oltre ovviamente al grado di compatibilità HLA, allo stato CMV ed alla sorgente cellulare impiegata (sopravvivenza significativamente migliore -90%- con uso di cellule midollari rispetto a quelle periferiche – < 75%-) (Bacigalupo A et al, 2012). Sostanzialmente l’indicazione al TCSE MUD va valutata caso per caso ed in base all’“expertise” del Centro. A supporto di tale decisione in letteratura sono disponibili sistemi di valutazione del rischio che tengono in considerazione i succitati fattori in varia combinazione e che permettono di definire le probabilità di sopravvivenza dei pazienti (Devillier R et al, 2016; Bacigalupo A et al, 2015).
In sintesi nell’adulto il TCSE MUD, pur se i risultati sono in continuo miglioramento, non può essere considerato, a differenza dell’età pediatrica, un’opzione di prima linea. Rappresenta invece una buona opzione se presente un donatore giovane identico per 10/10 o 8/8 Ag HLA, nei giovani adulti che hanno fallito l’IST, che sono in buone condizioni cliniche e senza comorbidità (Figura I). Il regime di condizionamento più usato in tali circostanze è Fludarabina (dose totale 120 mg/m2), Ciclofosfamide (dose totale 480 mg/kg), ATG e TBI 2Gy se età > 14 anni o anche sotto i 14 anni se il paziente ha ricevuto multiple trasfusioni.
Figura I: Algoritmo terapeutico dell’AA.
TCSE da donatore alternativo
Negli ultimi anni sono progressivamente aumentati i trapianti da donatore familiare aploidentico e questo si è verificato anche nell’ambito dell’AA. Sono state applicate sostanzialmente due piattaforme. La prima utilizza cellule staminali ematopoietiche periferiche manipolate in modo da ridurre il rischio di GVHD riducendo le cellule allo-reattive verso il ricevente (deplezione cellule Tαβ+), da limitare il rischio di sindrome linfoproliferativa da EBV (con la riduzione cellule CD19+), ma da preservare l’attività anti-infettiva (mantenendo le cellule NK, le T γδ+ ed i monociti) senza penalizzare l’attecchimento poichè il prodotto cellulare risulta di molto arricchito di cellule staminali ematopoietiche. La seconda piattaforma impiega la ciclofosfamide post trapianto con l’obiettivo di colpire le cellule T attivate allo-reattive sia del ricevente sia del donatore. Il principale vantaggio di questo tipo di trapianto è la rapida disponibilità del donatore. I risultati ottenuti finora sono incoraggianti (DeZern AE et al, 2017) ma tuttavia riprodotti in un limitato numero di centri tanto da non poter essere considerato uno standard di cura (Bacigalupo A, 2017).
La terapia immunosoppressiva di elezione è costituita dall’associazione di ATG con CSA che si è dimostrata più efficace del solo ATG (Locasciulli A et al, 2007).
L’aggiunta a tale combinazione, di un terzo agente immunosoppressore quale il micofenolato mofetile o il sirolimus, agenti con diverso meccanismo d’azione e teoricamente in grado di potenziare l’effetto immunosoppressivo, non ha mostrato vantaggio né in termini di risposta al trattamento (62% a 6 mesi), né in termini di prevenzione delle recidive (Townsley D e Winkler T, 2016). Di fatto dunque la associazione di ATG e CSA, unita allo steroide che non è curativo ma ha il solo obiettivo di prevenire la malattia da siero, rimane attualmente l’opzione terapeutica immunosoppressiva di prima scelta.
Riguardo alla sorgente di ATG il più importate studio prospettico randomizzato (Scheinberg P et al, 2011) ha dimostrato che quello di origine equina è più efficace (probabilità di sopravvivenza a 3 anni del 96%) di quello derivato dal coniglio (probabilità di sopravvivenza a 3 anni del 66%) che determina anche un’alta incidenza di morti precoci. Tale “outcome” è stato confermato da uno studio dell’EBMT (Marsh J et al, 2012) che ha documentato un OS del 91% per i pazienti con AA grave trattati con siero di cavallo rispetto al 73% di quelli trattati con siero di coniglio evidenziando in quest’ultimo gruppo una maggiore incidenza di infezioni tardive letali rispetto allo studio americano. Due recenti studi “real life”, indipendenti (Peffault de Latour R et al, 2018; Bacigalupo A et al, 2018) hanno sostanzialmente confermato tale gerarchia. Pertanto sulla base di tali dati l’ATG di cavallo risulta essere il più efficace e, dopo essere stato a lungo indisponibile in Europa, è ora di nuovo utilizzabile in numerosi paesi continentali. L’ATG di cavallo va somministrato alla posologia di 40 mg/kg/die per 4 giorni, associato alla CSA che va iniziata al giorno +1, alla dose di 5 mg/kg/die suddivisa in due somministrazioni giornaliere. Il dosaggio pieno della CSA, aggiustato sulla base dei livelli serici che devono essere tra 100 e 250 ng/ml, va mantenuto per 12 mesi. Dopo tale periodo, se si è raggiunta e mantenuta la risposta completa la CSA va ridotta lentamente (riduzione del 5-10% della dose ogni mese) nel corso dei successivi 12 mesi per una durata totale di terapia di 2 anni. È stato infatti evidenziato che una riduzione lenta e graduale della CSA si associa a una riduzione del rischio di recidiva rispetto a un “tapering” più rapido (Saracco P et al, 2008). Se durante il “tapering” della CSA si osserva una discesa dei valori, la prima misura è quella di riportare la CSA alla dose piena.
L’impiego del G-CSF, dopo trattamento con ATG e CSA, ha ridotto il rischio infettivo nei primi periodi dopo l’IST in attesa della risposta ematologica. È stato anche osservato che il G-CSF riduce il tasso di infezioni e i giorni di ospedalizzazione, senza peraltro avere effetto sulla sopravvivenza, sulla EFS e sulla risposta alla terapia (Tichelli A et al, 2011). Lo stesso studio ha dimostrato che il G-CSF può predire la risposta poiché i pazienti che ricevevano G-CSF e raggiungevano > 500 neutrofili/mmc al giorno 30 avevano maggiori probabilità di risposta all’IST dopo 4 mesi (Tichelli A et al, 2011).
Il ruolo favorente l’evoluzione clonale verso MDS/LMA da parte del G-CSF non è dimostrato in modo univoco. Uno studio retrospettivo del SAAWP dell’EBMT su 840 pazienti trattati con ATG e CSA dei quali oltre il 43% ha ricevuto anche G-CSF, ha dimostrato che l’uso di tale farmaco era associato a un maggior rischio di MDS/LMA (10,9%) in chi era esposto a G-CSF, rispetto a chi non lo era (5,8%) cSocie G et al, 2007). Tuttavia finora neanche le meta-analisi (Gurion R et al, 2009), cioè il livello più alto di evidenza scientifica medica, hanno confermato l’aumentato rischio di evoluzione clonale associato all’uso di G-CSF. Considerato l’insieme di tali dati, è tuttavia preferibile minimizzare l’utilizzo del G-CSF confinandolo in modo continuo ai primi 30 giorni di trattamento e “on demand”, in caso di infezioni nei pazienti neutropenici, nei giorni successivi. Recentemente il gruppo del National Institutes of Health (NIH) ha testato l’associazione della terapia IST classica (CSA e ATG equino) con il farmaco Eltrombopag, un agonista del recettore della trombopoietina (TPO) capace di stimolare la componente ematopoietica residua (Townsley D e Winkler T, 2016). L’aggiunta di tale sostanza ha migliorato la risposta ottenuta con la sola IST classica raggiungendo valori di risposta complessiva (parziale + completa) a 6 mesi dell’86%. Nel gruppo di pazienti in cui l’Eltrombopag veniva somministrato simultaneamente al primo giorno di ATG la probabilità di risposta complessiva è stata del 94% con il 58% di risposte complete a 6 mesi. Il rischio di evoluzione clonale è risultato comparabile a quello dei precedenti protocolli immunosoppressivi. I risultati di questo studio prospettico, ma non randomizzato, dovranno essere confermati dal trial randomizzato in corso nel SAAWP dell’EBMT dove al braccio con IST classica (ATG di Cavallo + CSA) si compara quello che usa gli stessi farmaci con l’aggiunta dell’Eltrombopag (RACE TRIAL).
Il trattamento con IST è caratterizzato da un rischio di evoluzione clonale neoplastica ematologica (MDS/AML) che nei vari studi oscilla fra l’8 ed il 21% a 10-15 anni e che è maggiore nei soggetti che non rispondono piuttosto che in quelli che recidivano dopo aver risposto (Saracco P et al, 2008; Scheinberg P et al, 2008; Dufour C et al, 2014; Sociè G et al, 1993). Uno studio recente su una popolazione di soli pazienti adulti ha documentato anche un aumentato rischio (14% a 20 anni e 24% a 30 anni) di linfomi non Hodgkin e di neoplasie non ematologiche (tumori uroteliali mammari, e del colon) (Van der Hem JGK et al, 2017).
Alla luce di quanto sopra, l’IST rimane la terapia di prima linea in tutti i soggetti di età > 60 anni, nei pazienti pediatrici e nei giovani adulti che non hanno donatore HLA identico né familiare né non familiare o che per comorbidità non sono eligibili al TCSE MUD. Per le ragioni di cui sopra è necessario monitorare “life-time” il rischio di evoluzione neoplastica specialmente in coloro che non hanno risposto all’ IST o hanno presentato recidiva dopo iniziale risposta.
In caso di fallimento dell’IST e nei pazienti non candidabili a TCSE da familiare HLA identico o MUD, oltre al trapianto aploidentico sono disponibili alternative purtroppo meno efficaci (revisionate in Townsley D e Winkler T, 2016) ed essenzialmente rappresentate da:
I pazienti con anemia aplastica moderata trasfusione indipendenti possono andare in remissione spontanea senza trattamento specifico (Howard SC et al, 2004). Quelli trasfusione dipendenti possono invece progredire verso la forma grave oppure restare stabili per mesi o anni.
Data la potenziale tossicità della terapia specifica e la mancanza di alto livello di evidenza sui benefici di un avvio precoce della stessa, appare ragionevole nei pazienti con NSAA trasfusione-indipendente un periodo di osservazione e di terapia di supporto, seguito da un trattamento specifico soltanto in caso di progressione di malattia verso la forma grave.
Come precedentemente indicato la comparsa di un clone EPN si verifica nel 40-50% dei pazienti con AA. La presenza di clone EPN non modifica l’algoritmo di trattamento della AA a meno che la componente emolitico/trombotica non diventi clinicamente evidente (aumento di LDH, dell’emoglobinuria, della biliribina, ulteriore anemizzazione o incremento del fabbisogno trasfusionale, riduzione della ferritina, eventi trombotici). In questo caso è necessario introdurre terapia con Eculizumab, anticorpo monoclonale anti frazione C5 del complemento, dimostratosi nei soggetti EPN efficace sull’emolisi intravascolare, sull’anemia, sulla trasfusione dipendenza (Hillmen P et al, 2006) e sul rischio tromboembolico (Hillmen P et al, 2007) in circa la metà dei soggetti determinando probabilità di sopravvivenza complessive > 90% (Kelly RJ et al, 2011).
L’associazione di EPN clinicamente evidente con la AA può essere trattata con combinazione Eculizumab+ IST, utilizzati o in concomitanza o in successione (Pagliuca S et al, 2018).
Tutti i pazienti con AA andrebbero riferiti a Centri specializzati, in grado di stabilire correttamente la diagnosi, l’iter terapeutico e il follow-up più adeguati. Il trattamento di prima scelta delle forme gravi se disponibile un donatore familiare HLA identico nei pazienti pediatrici e nel giovane adulto fino a 40 anni ed anche oltre (50-60 anni) se il soggetto è in buone condizioni generali e non ha comorbidità, è il TCSE. Se non è disponibile un donatore familiare HLA identico, nei pazienti fino a 20 anni il TCSE MUD è trattamento di prima scelta se effettuato entro 2-3 mesi dalla diagnosi, in soggetti con malattia grave, ad alto rischio infettivo e con un donatore giovane. Negli altri casi l’IST (ATG equino+ CSA) è il trattamento di prima scelta in virtù delle ottime probabilità di sopravvivenza pur se determina una inferiore qualità della stessa ed implica un rischio di evoluzione clonale tardiva, particolarmente rilevante nei giovani, che obbliga ad una sorveglianza perenne. L’aggiunta di Eltrombopag ha migliorato la risposta dell’IST classica anche se tale dato deve ancora essere confermato da studi randomizzati prospettici attualmente in corso nel SAAWP dell’EBMT. Il TCSE MUD è una buona opzione di recupero nei giovani adulti che hanno fallito IST in prima linea e non hanno comorbidità. Lo schema riportato in Figura I mostra l’algoritmo terapeutico suggerito attualmente per l’AA.
UOC Ematologia, IRCCS G. Gaslini, Genova
UOC Ematologia, IRCCS G. Gaslini, Genova
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