La malattia di Castleman, una patologia rara che può colpire tutte le età, comprende un gruppo eterogeneo di disordini linfoproliferativi che condividono le stesse caratteristiche istopatologiche.
La prima descrizione della patologia risale al 1954 quando Benjamin Castleman riporta per la prima volta alcuni peculiari pattern istologici osservati in diverse biopsie linfonodali (Castleman B et al,1956). Da allora, sotto la definizione di Malattia di Castleman sono stati inclusi quadri clinici ed istopatologici eterogenei, riguardanti l’ambito ematologico, oncologico, reumatologico e virologico (Weisenburger DD et al, 1985; Waterston A & Bower M, 2004; Wang HW et al, 2016; Carrington PA et al, 1990; Oksenhendler E et al, 1996; Soulier J et al, 1995; Larroche C et al, 2002; Miltenyi Z et al, 2009; Muskardin TW et al, 2012).
La caratteristica principale è la presenza di una spiccata adenomegalia, che può essere accompagnata da sintomi sistemici, dovuti a una tempesta di citochine in cui è spesso coinvolta l’interleuchina 6 (IL-6).
A metà degli anni ’80, in base al numero delle stazioni linfonodali coinvolte, sono state distinte due principali forme di malattia di Castleman: la forma unicentrica (UCD), caratterizzata da un aumento di volume di un singolo linfonodo o di una stazione linfonodale e la forma multicentrica (MCD), in cui sono coinvolte più stazioni linfonodali (Frizzera G et al,1985; Weisenburger DD et al, 1985).
Alcune forme multicentriche sono associate a infezione da Human Immunodeficiency Virus (HIV) e/o da Herpesvirus-8 (HHV8). Un’infezione incontrollata da HHV8 è riportata nel 50% dei casi.
Le scarse conoscenze sulle cause e i meccanismi biologici che sono la base della malattia di Castleman hanno condizionato, per anni, sia le terapie che l’outcome.
La creazione, nel 2012, del Castleman Disease Collaborative Network (CDCN) (https://www.cdcn.org/) ha dato un notevole impulso allo sviluppo della ricerca, sia in campo clinico che di laboratorio, soprattutto nella forma multicentrica idiopatica (iMCD), che ha un andamento particolarmente aggressivo (Fajgenbaum DC et al, 2016). Il fatto che il CDCN sia un network globale, che coinvolge medici, pazienti e ricercatori, ha permesso di individuare e condividere le priorità nella ricerca clinica e di laboratorio in questa particolare forma. Considerato che il modello di ricerca di tipo tradizionale (piccoli progetti tra loro non collegati, parcellizzazione delle risorse, esclusione dei pazienti) è stato il principale fattore limitante lo sviluppo delle conoscenze sulla patologia, l’obiettivo principale è stato quello di stimolare un lavoro di gruppo coordinato, con il coinvolgimento dei pazienti e di alcune industrie farmaceutiche interessate allo sviluppo di farmaci specifici. Lo sforzo condiviso ha portato, nel 2016, sia alla creazione di un Registro della Malattia di Castleman (ACCELERATE), in cui sono coinvolti direttamente i pazienti, sia, successivamente, all’istituzione della Castleman Disease Biobank (Castlebank), in cui vengono collezionati campioni di sangue e/o tessuto per eventuali ricerche.
In base al numero delle stazioni linfonodali coinvolte e, nelle forme multicentriche non HIV correlate, alla presenza o assenza dell’HHV-8, possiamo distinguere le seguenti categorie (Fajgenbaum DC et al, 2017):
Malattia di Castleman unicentrica (UCD) in cui il coinvolgimento è limitato a una singola stazione linfonodale;
Malattia di Castleman multicentrica (MCD), contraddistinta da un coinvolgimento di multiple stazioni linfonodali. Questo gruppo comprende diverse forme:
La forma HHV8 negativa, a sua volta, comprende:
La reale incidenza della malattia di Castleman è ancora poco chiara a causa della rarità ed eterogeneità della patologia e della mancanza di criteri diagnostici utili per identificare le diverse forme. L’introduzione del codice identificativo (ICD-10-CM D47.Z2) entrato in vigore il 1° ottobre 2016, e la recente pubblicazione dei criteri diagnostici, potranno consentire di avere dati più precisi riguardo l’epidemiologia di questa particolare patologia.
Dai dati finora disponibili in letteratura sull’UCD, emerge la prevalenza di questa forma nella terza o quarta decade di vita (età mediana alla diagnosi: 34 anni), con una lieve predilezione per il sesso femminile (Talat N et al, 2012; Dispenzieri A et al, 2012). Sono stati riportati casi di UCD in bambini al disotto dei 10 anni di età e addirittura al disotto dei 2 anni (Dispenzieri A et al, 2012; Linkhorn H et al 2016). I casi stimati sono circa 15 per milione l’anno.
Finora, in questa forma non è stata riscontrata un’associazione con infezione da HIV e/o HHV8. Stanno emergendo dati a supporto dell’ipotesi che sia un disordine clonale (Chang KC et al, 2014).
La forma multicentrica colpisce principalmente la sesta decade di vita, sebbene si possa riscontrare in età più giovane soprattutto nei soggetti affetti da HIV. L’infezione da HIV è un fattore di rischio importante. Nel 50% dei pazienti con MCD associata ad HIV, è presente una co-infezione da HHV-8. L’incidenza di MCD nei pazienti HIV positivi è aumentata dopo l’introduzione della highly active antiretroviral therapy (HAART). Il motivo di questa aumentata incidenza è ad oggi sconosciuto. È stato ipotizzato che il miglioramento della sopravvivenza dovuto all’introduzione delle nuove terapie antiretrovirali determini la prolungata esposizione al virus con conseguente e protratta disregolazione immunitaria (Simpson D et al, 2018).
La forma multicentrica associata ad infezione da HHV8 si riscontra anche nei pazienti non HIV positivi e la sua incidenza varia in funzione delle diverse aree geografiche. Le infezioni da HHV8 sono principalmente riscontrate nella popolazione dell’Africa centrale e sub-sahariana, nella quale il virus è endemico (40% della popolazione risulta sieropositivo per il virus) e nelle popolazioni del bacino del Mediterraneo (HHV8 riscontrato in circa il 10% della popolazione) (Nicoli P et al, 2009; Dossier A et al, 2013; Simpson D et al, 2018).
La variante idiopatica della forma multicentrica (iMCD) colpisce prevalentemente soggetti anziani, con una prevalenza del sesso maschile rispetto a quello femminile. L’incidenza stimata è di 5 casi per milione l’anno (Dispenzieri A et al, 2012).
L’IL-6 sembra avere un ruolo centrale sia nella forma unicentrica che in quella multicentrica della malattia, sebbene la patogenesi della malattia di Castleman sia finora scarsamente conosciuta,.
Il meccanismo d’azione principale dell’IL-6 risiede nell’attivazione del suo recettore che innesca le vie di trasduzione del segnale mediate dalle Janus chinasi e dai mitogeni, con proliferazione e aumentata sopravvivenza delle cellule B. L’IL-6 svolge quindi, innanzitutto, il ruolo di fattore di crescita e di differenziazione per le cellule linfoidi (linfociti, plasmacellule etc), contribuendo alla loro espansione nel contesto delle strutture linfonodali, all’infiltrazione tissutale, all’epatosplenomegalia e alla plasmocitosi midollare reattiva con conseguente ipergammaglobulinemia policlonale (Soumerai JD et al, 2014).
Interagendo con altre citochine, inoltre, l’IL-6 causa l’espansione policlonale delle cellule T, con conseguente aumento dei linfociti T CD8+ in circolo e dei recettori solubili dell’interleuchina-2 (van Rhee F et al, 2018).
L’IL-6 induce anche l’espressione del vascular endothelial growth factor (VEGF), con conseguente aumento dell’angiogenesi e aumentata permeabilità vascolare (Aoki Y et al, 1999). Nei casi più severi, soprattutto nella malattia di Castleman idiopatica (iMCD), la microangiopatia può causare danno renale fino a una multi-organ failure, con morte del paziente.
Inoltre, l’IL-6 innesca una disregolazione dell’immunità umorale, che porta al riscontro in un terzo dei pazienti di una positività per anticorpi antinucleo (ANA), di trombocitopenia autoimmune e/o anemia emolitica autoimmune (Hall PA et al,1989; Yoshizaki K et al, 1989; Menke DM et al, 1996).
Lo stato proinfiammatorio causa l’aumento della produzione dell’epcidina, ormone regolatore l’omeostasi del ferro (Sharma S et al, 2008; Song SN et al, 2010), con conseguente ridotto uptake del ferro a livello intestinale e anemia.
Infine, l’IL-6, inibendo la produzione di albumina a livello epatico, provoca ipoalbuminemia che, associata all’aumentata permeabilità vascolare, induce la formazione di edemi, ascite, versamenti pleuro-pericardici di entità variabile, fino ad uno stato anasarcatico.
Nei casi di MCD HHV-8+, l’aumento di attività dell’IL-6 potrebbe essere causata dall’infezione virale incontrollata. È stato dimostrato, infatti, che le cellule infettate esprimono la variante virale dell’IL-6 che, mimando l’IL-6, è in grado di determinare la stimolazione degli stessi pathways proinfiammatori. Nella variante plasmacellulare della MCD HHV8+, l’utilizzo in immunoistochimica di anticorpi per l’antigene nucleare 1 dell’HHV8 (LANA-1) ha permesso di dimostrare come il virus infetti principalmente le cellule della zona mantellare dei follicoli (che, in alcuni casi, possono essere co-infettate con il virus Ebstein-barr [EBV+]). Le cellule linfoidi infettate presentano caratteristiche simili ai plasmoblasti, quali alti livelli citoplasmatici di immunoglobuline, quasi sempre IgMλ, positività per il CD38, MUM1/IRF4 e BLIMP1 e negatività per CD20, PAX5, CD30 e CD138 (Dupin N et al, 2000; Chadburn A et al, 2008).
Nella forma MCD HHV8-, sono stati ipotizzati tre diversi meccanismi patogenetici responsabili della tempesta di citochine e chemochine: un meccanismo autoimmune/autoinfiammatorio, un meccanismo paraneoplastico e un meccanismo causato da un agente patogeno (Fajgenbaum DC et al, 2014) (Figura I).
Figura I – Ipotesi patogenetiche nella iMCD (Fajgenbaum DC et al, 2018).
Il meccanismo patogenetico considerato più probabile nella iMCD è quello autoimmune/autoinfiammatorio, basato sull’ipotesi di eventi diversi che portano all’attivazione di uno stato infiammatorio: a) autoanticorpi che innescano il rilascio di citochine proinfiammatorie da parte di cellule presentanti l’antigene, con conseguente ipersecrezione di IL-6 o di altre citochine patologiche; b) disregolazione del segnale in una cellula presentante l’antigene o in un’altra cellula non ancora identificata, ipersecernente citochine, con aumentato rilascio di IL-6 o altre citochine patologiche; c) difetto nella regolazione delle cellule infiammatorie attivate. La tempesta di citochine e di chemochine è perpetuata da un feedback positivo di IL-6 e di altre citochine patologiche, e/o di eventuali ulteriori stimolazioni autoanticorpali.
L’ipotesi patogenetica di una sindrome paraneoplastica si basa sul riscontro della presenza di una mutazione somatica a carico di cellule neoplastiche all’interno o all’esterno del linfonodo, che causa il rilascio di citochine costitutive. Dati preliminari suggeriscono che la mutazione somatica avvenga a livello delle cellule stromali linfonodali (Chang KC et al, 2014).
La terza ipotesi, al momento la meno probabile, chiama in causa un agente patogeno, quale un’infezione da HHV8 clinicamente non rilevabile, o un nuovo virus, o un altro agente non ancora identificato che stimola la produzione di citochine proinfiammatorie. Indipendentemente dall’eziologia, la tempesta di citochine e chemochine è alla base delle manifestazioni cliniche e delle caratteristiche istopatologiche dell’iMCD.
I pazienti con la UCD possono essere asintomatici. Nella maggior parte dei casi, sono presenti linfoadenopatie non dolenti, che possono essere superficiali e profonde. Le sedi più comunemente coinvolte sono le stazioni linfonodali mediastiniche (30%), laterocervicali (23%), addominali (20%), retroperitoneali (17%); meno frequente è l’interessamento dei linfonodi ascellari (5%), inguinali (3%) e pelvici (2%) (Talat N et al, 2012). Il coinvolgimento dei linfonodi mediastinici si manifesta con segni e sintomi tipici della sindrome mediastinica (dispnea, tosse, ostruzione delle strutture venose) e la diagnosi differenziale va fatta con altre patologie che possono interessare il mediastino. In questa forma, si riscontrano raramente alterazioni degli esami ematochimici, tranne che in alcuni casi della variante plasmacellulare, in cui oltre alle linfoadenopatie sono presenti sintomi sistemici infiammatori (febbre, sudorazioni profuse, astenia e dimagrimento) e alterazioni degli esami ematochimici (Soumerai JD et al, 2014).
I pazienti con la MCD presentano linfoadenopatie coinvolgenti sedi multiple, importante organomegalia (epato e/o splenomegalia) e la presenza di segni e sintomi sistemici, di cui i più frequenti sono la ritenzione idrica, la citopenia e un’alterazione della funzionalità epatica e renale.
Altre manifestazioni cliniche che possono essere presenti e complicare l’andamento della malattia sono un’amiloidosi renale, una glomerulonefrite membrano-proliferativa, una neuropatia periferica, una compromissione polmonare, rash e/o iperpigmentazione cutanea. La storia naturale di questa forma può essere variabile. In alcuni casi il decorso è indolente mentre in altri può avere un andamento aggressivo fino a portare all’exitus del paziente (Soumerai JD et al, 2014).
La forma multicentrica può essere associata a quadri clinici più complessi, quali la sindrome TAFRO e la sindrome POEMS.
La sindrome TAFRO è un disturbo infiammatorio sistemico acuto o subacuto caratterizzato da sintomi sistemici e compromissione d’organo. Il quadro clinico è caratterizzato da febbre, trombocitopenia, epatosplenomegalia, fibrosi midollare, disfunzione renale, versamento pleurico e ascite (Masaki Y et al, 2016). Si tratta di una malattia grave, che spesso richiede il ricovero in terapia intensiva. La causa è ad oggi sconosciuta. È caratterizzata da una tempesta di citochine, con riscontro di elevati livelli di IL-6, VEGF e altre citochine (Liu AY et al, 2016; Fajgenbaum DC et al, 2014). Questa sindrome è stata descritto per la prima volta in una serie di soggetti giapponesi nel 2010 (Takai K et al, 2010). Da allora, sono stati pubblicati casi con le stesse caratteristiche in altre parti del mondo (Iwaki N et al, 2016). Finora, la maggior parte dei casi venivano etichettati come sindrome di TAFRO nella categoria più ampia dell’iMCD, mentre gli attuali criteri diagnostici la descrivono come un’entità separata (Masaki Y et al, 2016), dal momento che le sue caratteristiche cliniche sono diverse da quelle della forma classica, MCD-NOS (Iwaki N et al, 2016).
La sindrome di POEMS è una sindrome paraneoplastica (Bardwick PA et al, 1980), caratterizzata, oltre che da polineuropatia, epatosplenomegalia, endocrinopatia, picco monoclonale e alterazioni cutanee, anche da papilledema, ritenzione extravascolare, lesioni ossee sclerotiche, trombocitosi, alterata funzionalità polmonare ed elevati livelli di VEGF (Dispenzieri A, 2012). Per definizione, è associata ad un disturbo monoclonale delle plasmacellule con gammopatia monoclonale, nella maggior parte dei casi ristretta per le catene leggere di tipo lambda.
I pazienti con la forma multicentrica associata ad infezione da HHV8 (MCD HHV8+) possono presentare, all’esordio, segni e sintomi di una sindrome emofagocitica.
Essendo una patologia linfoproliferativa, il riscontro clinico sempre presente in questi pazienti è l’aumento delle dimensioni delle stazioni linfonodali superficiali e/o profonde. La diagnosi di certezza è istologica, della biopsia escissionale o incisionale della struttura linfonodale interessata.
Nel 2017, il lavoro condiviso di patologi e clinici ha portato alla caratterizzazione dei diversi sottotipi istologici e alla formulazione di criteri diagnostici della forma multicentrica (Wu D et al, 2018; Dispenzieri A e Fajgenbaum DC, 2020) (Figura II). Applicando questi criteri, ogni variante istopatologica è associata ad un ampio spettro di manifestazioni cliniche, per cui l’istopatologia è indispensabile per la diagnosi di malattia di Castleman ma non per la definizione del sottotipo di patologia.
Figura II. Varianti istologiche e classificazione clinica Malattia di Castleman (Dispenzieri A e Fajgenbaum DC, 2020).
I quadri istologici descritti sono simili a quelli delle varianti ialino-vascolare e plasmacellulare che si possono riscontrare in molti quadri reattivi (sindromi autoimmuni, infezioni) e in alcuni casi di linfoma di Hodgkin o non-Hodgkin. Per la diagnosi differenziale diventa mandatoria la caratterizzazione immunoistochimica.
Se una prima biopsia linfonodale non è diagnostica per malattia di Castleman, ma sussiste il sospetto clinico, può essere giustificata una seconda biopsia (Dispenzieri A e Fajgenbaum DC, 2020). Dopo una diagnosi istologica di malattia di Castleman, è importante eseguire indagini ematochimiche e strumentali per una precisa definizione della malattia (Tabella I). Innanzitutto, è importante valutare il numero di stazioni linfonodali coinvolte con indagini strumentali quali radiografia, ecografia, TC o PET-TC. Si consiglia l’uso della PET-TC perché, sfruttando le sue caratteristiche, è possibile escludere eventuali processi neoplastici. Infatti, il riscontro di un SUV >6 può essere indice di un processo linfoproliferativo. Se la PET-TC evidenzia una sede con un SUV>6 è importante eseguire un’altra biopsia nella sede ipercaptante per escludere un concomitante linfoma. L’interessamento linfonodale a carico di una singola stazione identifica la forma unicentrica, quello coinvolgenti più sedi definisce la forma multicentrica.
Alla diagnosi, è indispensabile la ricerca del virus HHV8 e dell’HIV nel linfonodo per la diagnosi differenziale fra la forma multicentrica HHV8-associata e quella idiopatica. Non trova, invece, utilità la valutazione anticorpale per HHV8 (IgG/IgM), dal momento che non è né sensibile né specifica. La positività per HHV8 su biopsia linfonodale e/o nel sangue circolante depone per una diagnosi di malattia di Castleman HHV8-associata. Il monitoraggio della carica virale dell’HHV8 nel sangue venoso periferico, fin dall’esordio, è importante per valutare l’andamento della patologia e la risposta al trattamento.
Per la valutazione dello stato infiammatorio è indispensabile eseguire indagini ematochimiche quali l’esame emocromocitometrico, la funzionalità renale ed epatica, la proteina C reattiva (PCR), la VES, il fibrinogeno, l’elettroforesi con il dosaggio delle proteine sieriche e la ferritina. Altre indagini consigliate sono l’esame urine, la sierologia per HIV, la valutazione cardiologica, e, in caso di sintomi polmonari, le prove di funzionalità respiratoria.
Tabella I. Work-up diagnostico nella malattia di Castleman (Fajgebaum DC et al, 2017).
Nel sospetto di concomitanti patologie autoimmuni è necessario approfondire con uno screening per la valutazione dell’autoimmunità.
Per escludere patologie ematologiche quali mieloma e linfoma, e/o valutare la presenza di fibrosi reticolinica è utile l’esecuzione della biopsia osteomidollare.
Nei pazienti con sospetta iMCD-TAFRO, sono raccomandati i test coagulativi compresi i D-Dimeri per un’eventuale coagulopatia intravascolare disseminata (CID) e una biopsia del midollo osseo per valutare la fibrosi reticolinica e l’iperplasia megacariocitica.
Nel caso di una MCD HHV8-negativa con associata neuropatia, è importante l’esecuzione di indagini radiologiche mirate alla ricerca di lesioni ossee con sclerosi, la valutazione di una componente monoclonale sierica e urinaria, indagini endocrinologiche (tiroide, surrene, asse ipotalamo-ipofisario e gonadi). Sono consigliati anche una valutazione osteomidollare per la ricerca di plasmacellule clonali e un esame neurologico completo e approfondito.
Altri esami ematochimici più specifici e mirati, quali il dosaggio della IL-6, VEGF, sIL-2 receptor che valutano il profilo delle citochine, non sono attualmente facilmente disponibili ed eseguibili in tutti i centri.
Per un corretto inquadramento diagnostico, oltre al quadro istologico, è importante valutare i sintomi, le manifestazioni cliniche e alcuni dati di laboratorio (Tabella II).
Per una diagnosi di certezza della iMCD è necessaria la presenza di entrambi i criteri clinici maggiori (aumento del volume linfonodale in ≥2 stazioni linfonodali e istopatologia) e almeno 2/11 criteri minori, che comprendono 6 criteri di laboratorio (gli indici di flogosi, la presenza di alterazioni della crasi ematica, dosaggio dell’albumina e valutazione della funzionalità renale) e 5 criteri clinici (presenza di sintomi sistemici, organomegalia, edemi, versamenti e/o anasarca, lesioni cutanee e polmonite interstiziale). E’ necessario, inoltre, escludere alcune patologie infettive, autoimmunitarie o oncologiche (Tabella II).
Tabella II. Criteri di inclusione ed esclusione per la diagnosi di iMCD (Dispenzieri A e Faigenbaum DC, 2020).
Nell’ambito dell’iMCD, si raccomanda particolare attenzione nella diagnosi differenziale tra la iMCD-TAFRO e la iMCD classica, dal momento che la presentazione clinica e l’andamento sono molto diversi, essendo il sottotipo clinico l’iMCD-TAFRO più grave. Sono stati proposti criteri diagnostici specifici per l’iMCD-TAFRO (Tabella III) (Iwaki N et al, 2016).
Tabella III. Criteri diagnostici per la iMCD-TAFRO (Iwaki N et al, 2016).
La iMCD-NOS comprende i casi che non soddisfano i criteri per l’iMCD-TAFRO.
Rispetto a quelli con iMCD-TAFRO, i pazienti con la forma classica tendono ad avere un quadro ed un decorso clinico meno aggressivo e una maggiore risposta alla terapia corticosteroidea.
Per una diagnosi corretta di MCD-POEMS, sono necessari: la presenza di poliradiculoneuropatia e gammopatia monoclonale, associate a uno dei seguenti criteri: lesioni ossee sclerotiche, elevato VEGF o quadro istologico compatibile con malattia di Castleman (Dispenzieri A et al, 2019).
Sono diverse le patologie autoimmuni, infettive e neoplastiche che possono avere gli stessi sintomi della malattia di Castleman e/o che possono essere ad essa associate (Tabella IV).
Tabella IV. Patologie da escludere nella diagnosi differenziale di malattia di Castleman (Fajgenbaum DC et al, 2017).
Dal punto di vista clinico, la diagnosi differenziale di iMCD va fatta con malattie autoimmuni o disreattive, infettive ed emopatie maligne. Il lupus eritematoso sistemico (LES) e la linfoistiocitosi emofagocitica (HLH) sono da prendere in considerazione per la diagnosi differenziale della iMCD-TAFRO, mentre l’ALPS, la malattia da IgG4 e la malattia di Rosai-Dorfman sono da considerare per quella della iMCD-NOS.
Il trattamento standard della forma unicentrica è l’escissione chirurgica completa che è curativa, con risoluzione dei sintomi e degli indici alterati di laboratorio. Nei casi associati a penfigo, le lesioni possono, anche se non sempre, migliorare entro l’anno (Gili A et al, 1991; Caneppele S et al, 2000; Fujimoto W et al, 2002).
La compromissione renale non amiloidosica può risolversi entro 12 mesi dalla rimozione chirurgica (Ruggieri G et al, 1990), mentre nelle forme associate ad amiloidosi i sintomi in genere migliorano nel corso degli anni successivi (Mandreoli M et al, 2002; Lachmann HJ et al, 2002).
Se l’escissione chirurgica non è praticabile, si ricorre a trattamenti specifici mirati alla riduzione della massa linfonodale: embolizzazione arteriosa, radioterapia locale in casi selezionati, o terapia sistemica con anticorpi monoclonali anti-CD20 (rituximab) e anti-IL-6 (siltuximab/tociluzumab) in caso di uno stato infiammatorio acuto (Dispenzieri A, 2008; van Rhee F et al, 2018; Boutboul D et al, 2019).
In una recente revisione di 278 casi di UCD pubblicati, di cui 249 trattati chirurgicamente, 16 con terapia immunosoppressiva e 13 con chirurgia e terapia immunosoppressiva, la sopravvivenza a dieci anni libera da malattie è risultata essere del 90%, migliore nei pazienti con linfoadenopatia periferica (Talat N et al, 2012).
Per quanto riguarda il trattamento della MCD, differenti terapie sono state utilizzate nel corso degli anni: dalla chirurgia e radioterapia, agli steroidi, al rituximab, alla chemioterapia, al trapianto di cellule staminali autologhe, fino agli anticorpi monoclonali anti-IL-6, e agenti immunomodulatori come il bortezomib, talidomide, antagonisti di IL-1 (van Rhee F et al 2018).
Prima dell’introduzione nella pratica clinica della terapia anti-IL-6, la sopravvivenza globale a 5 anni era del 65% per l’iMCD (presunto HHV8 negativo e HIV negativo) (Dispenzieri A et al, 2012). In una recente revisione di 253 pazienti con la forma multicentrica con un follow-up di 20 anni, la sopravvivenza globale a 5 anni era del 100% nella iMCD, dell’89% nella MCD-HHV8+ HIV-negativa, e del 65% nella MCD-HHV8+, HIV-positiva (Oksenhendler et al, 2018).
Nei pazienti con MCD HHV8-correlata, in assenza della positività per HIV (HHV8+/HIV), il rituximab, associato o meno a chemioterapia sistemica rappresenta la terapia di scelta (Marcelin AG et al, 2003; Hoffmann C et al, 2011; Gerard L et al, 2012; Uldrick TS et al, 2014). Anche se i plasmoblasti infetti da HHV8 spesso non esprimono livelli elevati di CD20, la terapia comprendente il rituximab ha migliorato drasticamente la sopravvivenza dei pazienti con MCD-HHV8+ dal 33% al 90% (Bower M et al, 2011; Pria AD et al, 2017). Nei pazienti con un adeguato performance status e assenza di sindrome emofagocitica, anemia emolitica e/o danno d’organo, il rituximab è usato come agente singolo settimanale per 4 settimane, mentre nei pazienti ad alto rischio è consigliato in associazione con etoposide (Gerard L, 2007; Bower M et al, 2007). Con tale approccio, il 95% dei pazienti ha ottenuto la remissione clinica, mentre la sopravvivenza senza ricadute e la sopravvivenza globale a 5 anni è stata, rispettivamente, dell’82% e del 92%. Inoltre, i pazienti con ricaduta rispondono con successo a un nuovo trattamento con rituximab (Gerard L et al, 2012; Pria AD et al, 2017).
In alcuni casi di MCD HHV8+/HIV-, si è dimostrata efficace la terapia antivirale con valganciclovir, in associazione alla chemioimmunoterapia (Kantarci FE et al, 2016; Murphy C et al, 2017). L’antivirale agirebbe riducendo la carica virale di HHV8, la cui scomparsa in circolo permetterebbe il mantenimento di una risposta duratura con riduzione delle recidive. L’associazione terapia antiretrovirale e chemioimmunoterapia ha portato ad un miglioramento della prognosi, con una sopravvivenza a 5 anni di circa il 90%.
Attualmente, nei pazienti con MCD HHV8 associata a HIV+ (HHV8+/HIV+) è indicata la prosecuzione o il pronto inizio della terapia antiretrovirale, in associazione alla chemioimmunoterapia (Hoffmann C et al, 2011)
Nel 2018, nell’ambito del CDCN, sono state pubblicate le prime linee guida per il trattamento della iMCD, sulla base della revisione di 244 casi (van Rhee F et al, 2018). Secondo tali linee guida internazionali, la scelta della strategia terapeutica più adeguata deve, innanzitutto, basarsi sulla valutazione della gravità della sintomatologia clinica, in particolare sul performance status e sulla presenza di disfunzione d’organo. Grazie all’esperienza clinica e alla disponibilità di diversi farmaci efficaci è stato proposto un
algoritmo terapeutico che prende in considerazione le diverse forme e la risposta al trattamento (Figura III).
Figura III. Algoritmo terapeutico per iMCD. (van Rhee F et al, 2018).
Per quanto riguarda la valutazione dell’efficacia della terapia sono stati identificati i criteri che definiscono l’entità della risposta (Figura IV).
Figura IV. Criteri di risposta al trattamento. (van Rhee F et al, 2018).
CR: risposta completa, PR: risposta parziale, SD: malattia stabile, PD: progressione di malattia.
Si definisce remissione completa (CR), la regressione delle linfoadenopatie e dei sintomi iniziali, e la normalizzazione dei valori ematochimici e degli indici di flogosi.
Viene definita risposta parziale (PR) la riduzione, ma non la completa scomparsa, delle linfoadenopatie, il miglioramento dei sintomi sistemici e degli indici biochimici di malattia.
La malattia è definita stabile (SD) se permangono invariate le linfoadenopatie, sintomi sistemici e indici biochimici di malattia.
La progressione di malattia (PD) è definita come il peggioramento delle linfoadenopatie, dei sintomi sistemici e degli indici biochimici.
Per tutti i pazienti con iMCD, indipendentemente dalla gravità di malattia, il farmaco d’elezione per la terapia di prima linea è un anti-IL6, in particolare il siltuximab, associato o meno a terapia corticosteroidea.
Nei pazienti con iMCD non grave (buon performance status e nessuna compromissione d’organo), la prima scelta terapeutica ricade sull’utilizzo del siltuximab alla dose di 11 mg/kg ogni 3 settimane (van Rhee F et al, 2014). Se il siltuximab non è disponibile, è raccomandato l’uso dell’altro anti-IL-6, tocilizumab, alla dose di 8 mg/kg ogni 2 settimane, approvato per questa patologia solo in Giappone (Nishimoto N et al, 2005; Nishimoto N et al, 2007).
L’anti-IL-6 può essere associata alla terapia cortisonica a basse dosi (es. prednisone 1 mg/kg) in caso di sintomatologia sistemica.
Un altro farmaco utilizzato nel trattamento di prima linea è il rituximab alla dose di 375mg/mq/settimana per 4-8 dosi (Ocio EM et al, 2005; Ide M et al, 2003).
Circa il 50% dei pazienti trattati in prima linea con anti-IL-6 non raggiunge la risposta completa o una risposta parziale. In questi casi, è raccomandata l’esecuzione di una nuova biopsia linfonodale per una conferma diagnostica. In caso di fallimento della terapia con anti-IL6, sono disponibili diverse opzioni terapeutiche: corticosteroidi, rituximab, talidomide, lenalidomide, bortezomib, ciclosporina, sirolimus, interferone e chemioterapia (Andres E & Maloisel F, 2000; Dispenzieri A et al, 2012; Liu AY et al, 2016; Yu L et al, 2017; van Rhee F et al, 2018 Fajgenbaum DC et al, 2019; Zhang L et al, 2019).
I pazienti con iMCD grave (performance status ECOG >2, grave compromissione d’organo, insufficienza renale stadio IV, anasarca, grave anemia, polmonite interstiziale con dispnea) sono, nella maggior parte dei casi, pazienti critici che necessitano di ricoveri in terapia intensiva. La terapia di prima linea di questi pazienti prevede l’utilizzo di steroidi ad alte dosi (es. metilprednisolone 500 mg al giorno) per il trattamento dei sintomi sistemici, associata a somministrazioni settimanali di anti-IL-6 (siltuximab, 11 mg/kg/die) (van Rhee F et al, 2014). I pazienti che rispondono alla terapia possono successivamente prolungare l’intervallo di tempo della somministrazione di siltuximab a ogni 3 settimane, riducendo anche progressivamente lo steroide. Nel caso in cui non si verifichi una pronta risposta alla terapia cortisonica e immunoterapica, ma si osservi un peggioramento clinico con disfunzione d’organo, è consigliato un approccio con schemi terapeutici lymphoma-like quali: R-CHOP (rituximab, ciclofosfamide, doxorubicina, vincristina, prednisone), CVAD (ciclofosfamide, vincristina, doxorubicina e prednisone) o CVP (ciclofosfamide, vincristina e prednisone) oppure myeloma-like: VTD-ACE-R (bortezomib, talidomide, desametasone, doxorubicina, ciclofosfamide, etoposide e rituximab). I tassi di risposta alla chemioimmunoterapia sono elevati, pari al 78%, ma limitati da tossicità e comparsa di recidive.
Le prospettive terapeutiche dei pazienti non rispondenti alle terapie di prima linea o recidivati sono poco definite. Casi sporadici sono stati trattati con agenti immunomodulanti, con schemi tipo VTD (bortezomib, talidomide, desametasone) oppure il trapianto di cellule staminali autologo o allogenico. (Repetto L et al, 1986; Ogita M et al, 2007; Tal Y et al, 2011; Angenendt L et al, 2015).
L’elevata percentuale di pazienti con iMCD non rispondenti agli anti-IL-6 ha incoraggiato la ricerca di biomarcatori predittivi della risposta, utili nella personalizzazione del trattamento. In un recente studio, sono stati analizzati 38 parametri di laboratorio in pazienti con iMCD arruolati in un trial clinico di fase II con il siltuximab. Dall’analisi multivariata, sono stati identificati solo 4 parametri che influenzano negativamente la risposta, e cioè l’aumento del fibrinogeno, l’aumento delle IgG, la riduzione dell’emoglobina e l’aumento della PCR (Fajgenbaum DC et al, 2017).
Dal momento che la iMCD associata a sindrome TAFRO è un’entità di recente definizione, ci sono meno evidenze riguardo il trattamento ottimale di questi pazienti, che sembrano rispondere meno bene ai corticosteroidi e agli anti-IL6 (Liu AY et al, 2016; Oksenhendler E et al, 2018). Nei casi che presentano un esordio acuto con decorso clinico critico, con danni d’organo severi ed esito fatale, è indicato un trattamento precoce con chemioterapia lymphoma o myeloma-like.
Per i pazienti con POEMS con lesioni osteosclerotiche e neuropatia periferica, il trattamento dovrebbe comprendere schemi terapeutici myeloma-like coadiuvati da radioterapia (nei casi con lesioni ossee ≤2), e, nei casi eleggibili, anche il trapianto autologo di cellule staminali. Nei pazienti non candidabili al trapianto, è indicato continuare il trattamento con schemi myeloma-like (melfalan, ciclofosfamide, lenalidomide, talidomide, bortezomib, carfilzomib e daratumumab). Bisogna tener presente, comunque, che è difficile dare indicazioni specifiche perché la maggior parte dei dati provengono da piccole casistiche (Dispenzieri A et al, 2004; Dispenzieri A, 2019).
Per i pazienti con POEMS-MCD senza lesioni ossee, ci sono ancora meno dati. Possono essere impiegati gli anti-IL-6, siltuximab e rituximab, ma potrebbe essere considerata anche una terapia immunomodulante specifica per le plasmacellule.
I tumori maligni secondari non sono rari nei soggetti con malattia di Castleman.
I pazienti con la forma unicentrica sembrano avere una maggiore rischio di sviluppare sarcomi dendritici follicolari e linfomi sia Hodgkin che non Hodgkin (Chronowski GM et al, 2001; Dispenzieri A et al, 2012). Nei pazienti affetti da iMCD è segnalata un’aumentata incidenza delle neoplasie maligne 3 volte superiore rispetto ai soggetti di pari età (Liu AY et al, 2016)
Circa il 50% dei pazienti con MCD-HHV8 positivi, HIV negativi, può sviluppare una neoplasia, più frequentemente un linfoma (15%) o il sarcoma di Kaposi (Frizzera G et al, 1985; Larroche C et al, 2002).
Nei pazienti con MCD-HHV8 positivi, HIV positivi, uno studio collaborativo francese ha riportato un’incidenza di linfoma nell’era pre-rituximab del 69,6/1000 anni paziente-anno, con un decremento a 4,2/1000 anni paziente-anno dopo l’introduzione della terapia co rituximab (Gerard L et al, 2012).
Si stima che i pazienti affetti da HIV con HHV8-MCD abbiano una frequenza di linfoma 15 volte maggiore rispetto a una popolazione infetta da HIV senza MCD.
Il lavoro collaborativo nell’ambito del CDCN ha contribuito a dare un impulso alle conoscenze sulla malattia di Castleman e a migliorare la gestione dei pazienti, soprattutto quelli con la MCD-HHV8- (Tabella V). La ricerca clinica e di laboratorio nell’ambito del network, con il supporto di una biobanca, potrà portare nel prossimo futuro a importanti miglioramenti, soprattutto nelle forme più rare e complesse.
Tabella V. Caratteristiche cliniche, trattamento ed outcome della Malattia di Castleman (Dispenzieri A et al, 2020).
Dipartimento di Medicina Traslazionale e di Precisione – Sapienza Università di Roma
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