La malattia di Erdheim-Chester è una malattia molto rara, descritta per la prima volta, nel 1930, da William Chester e Jakob Erdheim come granulomatosi lipoide. Nella prima classificazione delle istiocitosi, pubblicata nel 1987 dal Working Group dell’Istiocyte Society, la malattia di Erdheim-Chester veniva classificata come istiocitosi a cellule non-Langerhans, derivante dalla linea macrofagica con caratteristiche immunofenotipiche diverse dall’istiocitosi a cellule di Langerhans (ICL). Tale classificazione veniva poi seguita anche dal WHO, nel 2008 (Swerdlow SH et al, 2008).
L’evidenza che circa il 20% di pazienti con malattia di Erdheim-Chester presenta anche lesioni caratteristiche dell’ICL (Hervier B et al, 2014) e che oltre l’80% di casi con entrambe le patologie hanno mutazioni clonali coinvolgenti la via MAPK (Badalian-Very G et al, 2010; Haroche J et al, 2012a; Emile JF et al, 2014; Diamond EL et al, 2016a) ha portato a includere la malattia di Erdheim-Chester nello stesso gruppo dell’ICL. Il riscontro della mutazione di BRAFV600E nei pazienti con ICL, malattia di Erdheim-Chester e nelle forme miste di ICL e malattia di Erdheim-Chester supportava l’ipotesi sia di un progenitore comune per queste patologie sia che la mutazione BRAFV600E fosse un evento precoce (Badalian-Very G, 2014) (Figura I).
Figura I. Cellula di origine dei disordini istiocitari. L’espressione di BRAFV600E nelle cellule mieloidi differenziate non induce proliferazione cellulare mentre una sua precoce espressione (nelle cellule MPP) dà origine a diverse neoplasie ematologiche. La mutazione somatica di BRAFV600E nell’ICL e nella malattia di Erdheim-Chester è un evento precoce che avviene nei progenitori midollari (Badalian-Very G, 2014).
Nel 2016 veniva quindi proposta una nuova classificazione delle istiocitosi e delle neoplasie delle linee dendritica e macrofagica, in cui la malattia di Erdheim-Chester viene inclusa nel gruppo delle istiocitosi di Langerhans (gruppo “L”), che comprende anche l’ICL, l’istiocitosi a cellule indeterminate e le forme miste di ICL e malattia di Erdheim-Chester (Emile JF et al, 2016) (Figura II).
Figura II. Rappresentazione schematica delle patologie comprese nei 5 diversi gruppi in cui sono suddivisi le istiocitosi e le neoplasie delle linee dendritica e macrofagica (Frater JL, 2016).
Le istiocitosi appartenenti al Gruppo L sono caratterizzate dall’accumulo nei tessuti di istiociti schiumosi, infiammazione cronica e fibrosi (Emile JF et al, 2016).
Nella Figura III sono schematizzate la classificazione del WHO 2008 (A) e l’ultima proposta dall’Histiocyte Society nel 2016 (B).
Figura III. Schema di classificazione per le istiocitosi basato sulla classificazione WHO 2008 (A) e sullrecente sistema di classificazione aggiornato nel 2016 dell’Histiocyte Society (B) (da Ozkaya N et al, 2017).
Nel 2016 il WHO ha aggiornato la classificazione del 2008, aggiungendo la malattia di Erdheim-Chester tra le neoplasie istiocitarie e delle cellule dendritiche. Le neoplasie di derivazione istiocitaria e quelle di derivazione dalle cellule dendritiche sono raggruppate in un unico gruppo in base alle proprietà funzionali della controparte normale (fagocitosi, presentazione dell’antigene) piuttosto che in base alla loro derivazione (la maggior parte ha un precursore mieloide e alcune hanno origine da cellule mesenchimali) (Swerdlow SH et al, 2016). Questo perché, indipendentemente dall’origine (mieloide o mesenchimale) alcune di queste neoplasie sono associate a malattie linfoproliferative (linfoma follicolare, leucemia linfatica cronica, linfomi B e T, linfoma nodale T periferico) e presentano sia gli stessi riarrangiamenti del TCR o delle IGHV che le medesime anomalie cromosomiche, suggerendo un processo di transdifferenziazione (Feldman AL et al, 2008; Shao H et al, 2011; Ratei R et al, 2010; Dalia S et al, 2014).
Epidemiologia
L’incidenza della malattia di Erdheim-Chester è sconosciuta. Dalla sua prima descrizione ad oggi, sono stati riportati in letteratura oltre 550 casi (Diamond EL et al, 2014), tuttavia il numero è aumentato drasticamente nell’ultimo decennio, grazie ad un miglioramento nel riconoscimento della malattia. Colpisce tutte le fasce di età, è molto rara in età pediatrica. La maggior parte dei pazienti sono diagnosticati a un’età compresa tra 40 e 70 anni, con un’età mediana di 53 anni. Per quanto riguarda il sesso, c’è una lieve prevalenza del sesso maschile (il rapporto maschio/femmina è di 3:1).
Patogenesi
Prima del 2012, le ipotesi sull’eziopatogenesi della malattia di Erdheim-Chester sono state a lungo oggetto di discussione, con alcuni studi a sostegno dell’origine infiammatoria da aberrante attivazione immunitaria e altri a supporto dell’ipotesi di un disordine clonale neoplastico.
Numerosi studi hanno dimostrato la presenza di numerose citochine pro-infiammatorie, sia a livello della lesione che a livello sistemico, responsabili del reclutamento e attivazione degli istiociti all’interno delle lesioni (Stoppacciaro A et al, 2006; Arnaud L et al, 2011a; Dagna L et al, 2010). Questi studi hanno tutti dimostrato una importante attivazione di citochine caratteristiche della malattia, principalmente interferon-α (IFN-α), interleukina (IL)-12, IL-1 ed il suo recettore (RA) IL1-RA, IL-6, ed il monocyte chemotactic protein-1 (MCP-1), e una riduzione di altre citochine, quali l’IL-4 e l’IL-7. Il riscontro dell’aumento di citochine coinvolgenti il pathway dei linfociti T helper-1 associato a questa condizione ha comportato importanti risvolti terapeutici, con lo sviluppo di farmaci selettivi, in grado di bloccare la cascata di citochine. In particolare, promettenti risultati sono stati ottenuti con farmaci anti IL-1 (anakinra), anti tumor necrosis factor-α (TNF-α) (infliximab) e, più recentemente, anti IL-6 (tocilizumab) (Aouba A et al, 2010; Dagna L et al, 2012; Ferrero E et al, 2014; Berti A et al, 2017).
A partire dal 2010, una serie di studi hanno evidenziato la presenza di mutazioni di BRAFV600E nel 50-70% di pazienti sia con malattia di Erdheim-Chester che con ICL, dimostrando che le due patologie sono dei disordini clonali dovuti ad attivazione di MAPK (Badalian-Very G et al, 2010; Haroche J et al, 2012a). Studi successivi hanno riscontrato nella maggior parte dei pazienti, sia con malattia di Erdheim-Chester che con ICL, senza la mutazione BRAFV600E, diverse mutazioni attivanti in MAP2K1 e ARAF e fusioni in alcune chinasi tra cui BRAF (Brown NA et al, 2014; Chakraborty R et al, 2014; Nelson DS et al, 2014; Nelson DS et al, 2015; Chakraborty R et al, 2016; Diamond EL et al, 2016a). Un altro studio ha messo in evidenza mutazioni attivanti in PIK3CA e N/KRAS in entrambe le patologie anche se con frequenza maggiore nella malattia di Erdheim-Chester (Diamond EL et al, 2013; Héritier S et al, 2015). In una recente analisi pangenomica, è stata evidenziata la presenza di almeno una mutazione attivante il pathway MAPK in tutti i casi di malattia di Erdheim-Chester (Diamond EL et al, 2016a). In uno studio successivo, l’impiego di una tecnica molto più sensibile ha permesso di riscontrare sempre la mutazione BRAFV600E sia nel tessuto bioptico che nei monociti dei pazienti con malattia di Erdheim-Chester, dimostrando così che la malattia di Erdheim-Chester è una patologia clonale (Cangi MG et al, 2015).
Malgrado la presentazione e le caratteristiche istologiche diverse, l’evidenza di alterazioni genetiche comuni e il riscontro nel 20% di pazienti con una diagnosi di malattia di Erdheim-Chester di un coesistente quadro istologico di ICL con presenza di mutazione di BRAFV600E hanno indotto a ipotizzare per le due patologie un’origine dallo stesso progenitore mieloide e a considerarle nello stesso gruppo (gruppo “L”) nella nuova classificazione dei disordini istiocitari (Hervier B et al, 2014; Berres ML et al, 2014; Emile JF et al, 2016).
La mutazione BRAFV600E, che ha attività oncogenica, è stata dimostrata essere anche associata all’oncogene-induced senescence (OIS), che è il principale meccanismo protettivo contro eventi oncogenici. Nell’OIS, la mutazione attivante di uno specifico oncogene senza mutazioni aggiuntive cooperanti porta all’arresto del ciclo cellulare e all’attivazione di molecole pro-infiammatorie. E’ stato dimostrato che istiociti con mutazione BRAF presentano marcatori di OIS. Inoltre, OIS è a sua volta responsabile della stimolazione di un gruppo di chemochine e citochine pro-infiammatorie che si riscontrano anche negli istiociti della malattia di Erdheim-Chester. OIS, quindi, sembra giocare un ruolo importante nella patogenesi della malattia di Erdheim-Chester, dal momento che è in grado di integrare sia l’ipotesi oncogenetica che quella di attivazione infiammatoria.
L’identificazione della mutazione BRAFV600E ha avuto importanti implicazioni terapeutiche, con lo sviluppo di farmaci inibitori selettivi, quali il vemurafenib ed il dafrabenib (Chapman PB et al, 2011; Hauschild A et al, 2012).
Criteri diagnostici
La malattia di Erdheim-Chester, anche se condivide alcune caratteristiche molecolari con l’ICL, rappresenta un’entità distinta, dovuta a proliferazione clonale di istiociti con alcune caratteristiche morfologiche e immunoistochimiche diverse (Tabella I). Gli istiociti schiumosi presenti nella malattia di Erdheim-Chester sono positivi per il CD68 e il CD163, come quelli dell’ICL, e negativi per il CD1a e la langherina (CD207).
Tabella I. Caratteristiche istopatologiche della malattia di Erdheim-Chester e dell’ICL.
Manifestazioni cliniche
La malattia di Erdheim-Chester è una patologia sistemica caratterizzata da un quadro clinico e sintomatologico molto variabile, condizionato dal tipo di tessuto coinvolto e dall’estensione della malattia (Tabella II).
La malattia può presentarsi con una sintomatologia dolorosa per un coinvolgimento osseo, diabete insipido, esoftalmo, xantelasmi, sintomatologia respiratoria per coinvolgimento interstiziale polmonare, sintomatologia urinaria dovuta ad aumento di volume dei reni, spesso bilaterale con fibrosi perirenale e/o retroperitoneale con conseguente ostruzione uretrale, sintomatologia cardiaca per compromissione del sistema cardiovascolare e sintomi neurologici per coinvolgimento del parenchima cerebrale.
In alcuni casi, l’esordio può essere asintomatico. Sembra che le manifestazioni cardiache e polmonari siano frequenti nei pazienti anziani, con il picco in quelli di età >70 anni (Cavalli G et al, 2013). Il coinvolgimento cardiovascolare, così come quello polmonare e neurologico, è associato a una cattiva prognosi.
Tabella II. Manifestazioni cliniche e caratteristiche radiologiche della malattia di Erdheim-Chester. Le immagini radiologiche sottolineate sono patognomoniche della malattia di Erdheim-Chester (da Campochiaro C et al, 2015).
Più del 20% dei pazienti con malattia di Erdheim-Chester presenta sintomi sistemici, quali febbre, calo ponderale e astenia, che frequentemente accompagnano altri segni e/o sintomi della malattia, sia alla diagnosi che in recidiva (Cavalli G et al, 2013).
Le sedi colpite e l’estensione della malattia condizionano sia il decorso clinico che la prognosi. Nel 2014, è stata proposta una classificazione della malattia di Erdheim-Chester in base alla presenza o assenza di sintomi (Tabella III) (Diamond EL et al, 2014). La malattia di Erdheim-Chester sintomatica può essere di entità moderata o grave.
Tabella III. Classificazione della malattia di Erdheim-Chester (da Diamond EL et al, 2014, modificata).
Coinvolgimento osseo
L’interessamento osseo è la più comune manifestazione clinica ed è praticamente presente nella totalità dei pazienti con malattia di Erdheim-Chester, anche se una sintomatologia dolorosa persistente, ma non invalidante, è riportata in circa il 50% dei casi (Haroche J et al, 2007b). I segmenti ossei più frequentemente e tipicamente coinvolti sono la parte distale del femore e la parte prossimale e distale della tibia (Wilejto M et al, 2012).
L’esame radiografico tradizionale mostra lesioni osteosclerotiche simmetriche e bilaterali delle regioni diafisarie e/o metafisarie distali degli arti inferiori, più raramente di quelli superiori. Occasionalmente, si osservano lesioni miste sclerotiche e litiche. Lo scheletro assiale e la mandibola, spesso coinvolte nell’ICL, sono classicamente risparmiati (Veyessier-Belot C et al, 1996).
La scintigrafia ossea evidenzia una captazione simmetrica del 99mTc a livello delle ossa lunghe degli arti inferiori (Dion E et al, 2006).
Recentemente, la PET-CT si è dimostrata uno strumento diagnostico molto sensibile in questa patologia per cui viene regolarmente utilizzata sia alla diagnosi che per il monitoraggio del trattamento (Arnaud L et al, 2009; Steňová E et al, 2012; García-Gómez FJ et al, 2015) (Figura IV).
La RMN può essere utile nei rari casi di localizzazioni non chiaramente definibile con le altre metodiche.
Figura IV. La scintigrafia ossea con 99mTc mostra evidenzia una tipica captazione simmetrica delle diafisi e delle metafisi delle ossa lunghe delle braccia e delle gambe (A). La PET mostra un accumulo del tracciante nelle ossa lunghe delle gambe (Campochiaro C et al, 2015).
Coinvolgimento cardiovascolare
Con le metodiche radiologiche attualmente disponibili il coinvolgimento del sistema cardiovascolare viene frequentemente rilevato, anche in pazienti asintomatici, con un’incidenza è di circa il 65% (Haroche J et al, 2004; Haroche J et al, 2009). L’anomalia più frequentemente riscontrata (in circa i 2/3 dei pazienti) è un tessuto infiltrante, a manicotto, che circonda l’aorta toracica e/o addominale e che si estende ai principali rami aortici (Haroche J et al, 2004). Le manifestazioni cliniche legate a queste anomalie nella maggior parte dei casi non sono severe, tranne nel caso di importante coinvolgimento dell’arteria renale in cui si sviluppa un’ipertensione reno-vascolare. Un coinvolgimento pericardico (pericardite, effusione pericardica e rarissimamente tamponamento cardiaco) è riportato nel 40-45% di pazienti (Vaglio A et al, 2008; Haroche J et al, 2004; Haroche J et al, 2009) (Figura V).
Con la RMN possono essere rilevate lesioni pseudotumorali infiltranti la parete cardiaca, tipicamente localizzate a livello dell’atrio destro o nel solco auricolo-ventricolare, che raramente causano una disfunzione valvolare e anomalie di conduzione: sono stati anche riportati casi di infarto del miocardio secondario a infiltrazione pericoronarica (Loeffler AG et al, 2004) (Figura VI).
Figura V. Infiltrazione periaortica, pericardica e pleurica evidenziate con la TC con mezzo di contrasto (Ahuja J et al, 2015).
Figura VI. Immagini di RMN che mostrano tessuto da Erdheim-Chester infiltrante la parete posteriore dell’atrio destro (A), il solco atrioventricolare destro dove avvolge l’arteria coronaria destra (B), il pericardio dove forma dei noduli con cospicua effusione pericardica (E, F) (Gianfreda D et al, 2016).
Manifestazioni polmonari
Un coinvolgimento polmonare, sia a carico del parenchima che della pleura, è riscontrato radiologicamente, con la TC, in circa la metà dei pazienti, nella maggior parte dei casi asintomatici (Arnaud L et al, 2010; Brun et al, 2010). La dispnea con tosse è il sintomo caratteristico dei pazienti sintomatici.
Per la valutazione di un coinvolgimento polmonare la radiografia tradizionale è scarsamente sensibile, per cui l’esame d’elezione è la TC, che può evidenziare lesioni tipiche, quali un infiltrato interstiziale, opacità a vetro smerigliato o opacità centro lobulari (Figura VII). Nell’Erdheim-Chester l’infiltrato polmonare ha un tipico pattern di distribuzione che coinvolge la pleura viscerale, i setti interlobulari e i fasci bronco alveolari.
La spirometria mostra un quadro di moderata insufficienza respiratoria di tipo restrittivo con una capacità di diffusione per il monossido di carbonio (DLCO) normale o ridotta.
Il broncolavaggio può essere un strumento diagnostico utile per la ricerca di istiociti CD68+ e CD1a- (Arnaud L et al, 2010).
Figura VII. Le immagini TC evidenziano un quadro polmonare con opacità a vetro smerigliato (A) e un ispessimento delle fessure e dei setti (B) causati dall’infiltrazione di istiociti (Ahuja J et al, 2015).
Compromissione del sistema nervoso e delle orbite
Una compromissione del sistema nervoso centrale (SNC) è presente in una percentuale di pazienti variabile dal 25 al 50% (Drier A et al, 2010; Arnaud L et al, 2011a). Lesioni parenchimali cerebrali sono causa di disabilità funzionale e sono un importante ed indipendente fattore predittivo sulla prognosi. Le lesioni possono coinvolgere tutto il neurasse, sia nella porzione intra-assiale che in quella extra-assiale, così che la sintomatologia può essere estremamente variabile, da sintomi focali a un deterioramento cerebrale diffuso. La rachicentesi esplorativa non è indicata dal momento che raramente gli istiociti patologici sono presenti nel liquido cefalo-rachidiano.
La TC e la RMN con contrasto sono le indagini strumentali di scelta per la valutazione di un eventuale coinvolgimento del parenchima cerebrale (Figura VIII). Gli infiltrati da malattia possono interessare le pachimeningi che avvolgono gli emisferi cerebrali o il tentorio cerebellare. L’aspetto delle lesioni, alla RMN, è simile a quello che si riscontra nei meningiomi, nelle lesioni della malattia granulomatosa, in quelle della malattia di Rosai-Dorfman e dell’ICL (Haroche J et al, 2012b; Wilejto M et al, 2012). Le zone del parenchima cerebrale più frequentemente colpite sono i nuclei dentati del cervelletto ed il ponte, causando sintomi cerebellari evolutivi, quali disartria e atassia. Le lesioni sono in genere captanti il gadolinio, per cui possono essere confuse con metastasi o tumori primitivi, malattie demielinizzanti, processi infiammatori e leucodistrofie (Provenzano E et al, 2010; Pan A et al, 2011). Altri sintomi dovuti a coinvolgimento cerebrale sono: cefalea, crisi comiziali, disturbi neuropsichiatrici e/o sensoriali, paralisi dei nervi cranici.
Un esoftalmo, mono o più spesso bilaterale, dovuto a infiltrazione degli spazi retro-orbitali, è presente in circa il 25% dei pazienti. Raramente l’infiltrazione è massiva e, oltre all’esoftalmo, può provocare dolore retro-oculare, diplopia o riduzione del visus per compressione dei muscoli extra-oculari o del nervo ottico (Karcioglu ZA et al, 2003; Haroche J et al, 2013). La diagnosi differenziale va fatta con la malattia di Basedow-Graves, con la malattia granulomatosa, con il linfoma e con l’artrite a cellule giganti.
Il diabete insipido, dovuto a infiltrazione da parte di istiociti della neuroipofisi, è riportato in circa il 25% di pazienti, sia all’esordio della malattia, come sintomo isolato, sia durante il suo decorso. Sono rari i disturbi endocrini, quali iperprolattinemia, deficit di gonadotropine o di testosterone e bassi livelli di IGF-1, dovuti al coinvolgimento dell’adenoipofisi (Tritos NA et al, 1998; Khamseh ME et al, 2002; Haroche J et al, 2013). Radiologicamente, l’ipofisi, il peduncolo e l’ipotalamo possono essere normali o aumentati di volume e con anomalo enhancement rilevabile alla RMN, con o senza anomalie endocrine (Sedrak P et al, 2011). Sono stati segnalati anche casi di coinvolgimento surrenalico, asintomatico nella maggioranza dei casi (Haroche J et al, 2007a).
Figura VIII. Coinvolgimento cerebrale nella malattia di Erdheim-Chester evidenziato con la RMN (Estrada-Veras JI et al, 2017): (A e B) localizzazione soprasellare e cerebellare; (C e D) lesioni intraparenchimali; (E) lesione con componente cistica a livello del ponte; (F) coinvolgimento cerebellare; (G) lesioni neurodegenerative e atrofia cerebellare; (H) coinvolgimento delle orbite con accumulo di tessuto nello spazio retrobulbare.
Coinvolgimento renale e retroperitoneale
Un’infiltrazione degli spazi retroperitoneali è presente in circa il 30% di pazienti ed è evidenziabile con la TC che mostra un quadro radiologico tipico della malattia di Erdheim-Chester, l’“hairy kidney” (Diamond EL et al, 2014) (Figura IX). La fibrosi retroperitoneale può rimanere clinicamente silente, anche se può portare complicanze quali compressione ureterale con idroureteronefrosi con conseguente disuria, dolore addominale e insufficienza renale cronica. In casi particolari può essere necessario un intervento di stent ureterale o, addirittura, di nefrostomia. E’ fondamentale la diagnosi differenziale tra un’infiltrazione retroperitoneale da malattia di Erdheim-Chester e la fibrosi idiopatica retroperitoneale; un coinvolgimento sia della vena cava inferiore che degli ureteri pelvici orienta per una diagnosi di fibrosi retroperitoneale perché raramente questo quadro è presente nella malattia di Erdheim-Chester (Haroche J et al, 2013). Un dolore lombo-sacrale e un’ipertensione nefrovascolare dovuta a compressione delle arterie renali, che spesso richiedono un intervento di stent, sono altre manifestazioni cliniche di un coinvolgimento renale.
Figura IX. La TC con mezzo di contrasto evidenzia un’infiltrazione simmetrica del grasso perirenale, con il tipico aspetto di “hairy kidney”. E’ evidente il manicotto attorno all’aorta e la stenosi dell’arteria mesenterica superiore (Haroche J et al, 2014).
Coinvolgimento cutaneo
Gli xantelasmi (depositi di lipidi di colore giallastro localizzati nel sottocute nella zona periorbitale o delle palpebre) e gli xantomi (medesimi depositi di colore giallo-brunastro ma distribuiti in tutte le altre zone sottocutanee del corpo) sono le lesioni dermatologiche più frequenti nei pazienti affetti da malattia di Erdheim-Chester, presenti in circa il 30% dei pazienti (Haroche J et al, 2013). Questi tipi di lesioni sono indistinguibili da quelle che si riscontrano nei pazienti con xantogranuloma giovanile, ed inoltre, gli istiociti della malattia di Erdheim-Chester sono morfologicamente ed immunoistochimicamente identici a quelli dello xantogranuloma giovanile. In considerazione di questa caratteristica comune, per poter distinguere lo xantogranuloma giovanile dalla malattia di Erdheim-Chester, è utile sottolineare che il primo raramente è una malattia multisistemica (Caputo R et al, 2007). Lesioni papulonodulari (Opie KM et al, 2003) e infiltrazioni della vulva e del clitoride sono meno frequenti.
Altre localizzazioni
La malattia di Erdheim-Chester può interessare numerosi altri organi. E’ stato descritto un caso di riscontro autoptico di coinvolgimento dei testicoli, della tiroide e di linfonodi (Sheu SY et al, 2004). Inoltre, sono sempre più numerose le segnalazioni di casi di interessamento della mammella (Provenzano E et al, 2010; Johnson TR et al, 2009).
Indagini diagnostiche
Valutazioni all’esordio
Considerando le manifestazioni cliniche, la diagnosi differenziale tra la malattia di Erdheim-Chester e le diverse altre istiocitosi, in particolare la ICL, può essere difficile. La biopsia della lesione è dirimente e mandatoria, poiché l’esame istologico e immunoistochimico permette una diagnosi precisa.
Una volta definita la diagnosi istologica, è indispensabile eseguire indagini ematochimiche, strumentali e specialistiche utili per la definizione degli organi potenzialmente coinvolti e l’entità della loro compromissione, con ricerca accurata anche di eventuali localizzazioni asintomatiche occulte.
La tabella IV riporta tutte le valutazioni iniziali raccomandate all’esordio dei pazienti con malattia di Erdheim-Chester.
Tabella IV. Valutazioni cliniche raccomandate all’esordio per il pazienti con malattia di Erdheim-Chester (da Diamond EL et al, 2014).
La TC del torace, addome e pelvi, la PET-FDG total body (incluso il cranio e le estremità distali), la RMN dell’encefalo e la RMN cardiaca sono indagini raccomandate in tutti i pazienti. Per la valutazione di eventuali lesioni ossee, è dirimente l’esecuzione di una radiografia dello scheletro o di una scintigrafia ossea sia nei pazienti sintomatici che in quelli asintomatici (Veyessier-Belot C et al, 1996; Balink H et al, 2011).
La sensibilità della PET-FDG per lo studio delle localizzazioni extra-ossee della malattia di Erdheim-Chester ha reso quest’ultima l’indagine di medicina nucleare di prima scelta per la valutazione della massa globale della malattia all’esordio e nel monitoraggio della risposta al trattamento (Namwongprom S et al, 2007; Steňová E et al, 2012). Indispensabili sono le indagini di laboratorio per la valutazione di un’eventuale citopenia, di insufficienza renale e/o di endocrinopatie.
Approccio terapeutico
Nella malattia di Erdheim-Chester, a differenza dell’ICL, la terapia è raccomandata per tutti i pazienti. Prima dell’evidenza dell’efficacia dell’IFN-α nel trattamento della malattia di Erdheim-Chester, venivano utilizzati diversi farmaci, quali steroidi, gli alcaloidi della vinca, le antracicline, la ciclofosfamide, il trapianto autologo di cellule staminali e la radioterapia con risultati insoddisfacenti (Jendro MC et al, 2004; Gaspar N et al, 2006). I corticosteroidi si sono dimostrati efficaci nel ridurre l’edema nella fase acuta, per esempio nell’esoftalmo severo, ma non, in ionoterapia, nel far regredire le lesioni da malattia. La radioterapia è stata applicata con scarso successo e con lo scopo esclusivamente palliativo, (Mascalchi M et al, 2002; Miller RC et al, 2006). Il debulking chirurgico è limitato solo alle localizzazioni orbitarie severe o a quelle intracraniche resecabili.
E’ stato riportato anche l’uso della cladribina, un analogo purinico, in pazienti con malattia di Erdheim-Chester refrattari ad altri trattamenti o con malattia secondaria a ICL con incoraggianti risultati (Myra C et al, 2004; Adam Z et al, 2011; Perić P et al, 2016).
Dopo il primo riscontro della sua efficacia nel 2005, l’interferone alfa 2-a (IFN-α) è diventato il farmaco di prima scelta nel trattamento della malattia di Erdheim-Chester sintomatica (Braiteh F et al, 2005). In uno studio di coorte osservazionale, prospettico, non randomizzato su 46 pazienti trattati con IFN-α o interferone alfa 2-a peghilato (PEG-IFN-α) è emerso come il trattamento con interferone, di qualsiasi tipo, sia associato a un miglioramento significativo della sopravvivenza globale rispetto ad altre terapie, dimostrandosi anche un fattore predittivo indipendente (Arnaud L et al, 2011b). L’efficacia dell’interferone è condizionata dalla sede di malattia. Sebbene la dose ottimale di IFN-α non sia ancora stata stabilita, 3 milioni di unità (mIU) somministrate 3 volte a settimana si sono dimostrate efficaci (Arnaud L et al, 2011b; Esmaeli B et al, 2001; Suzuki HI et al, 2010). Nella malattia con localizzazioni particolari, quali il SNC e il sistema cardiovascolare, la dose indicata è di 9 mIU 3 volte a settimana, continuata sine die (Haroche J et al, 2006). Non è stabilita la dose equivalente tra IFN-α e PEG-IFN-α, ma la dose di PEG-IFN-α raccomandato varia da 135 a 185 μg a settimana, in base alla severità della malattia e all’organo coinvolto (Diamond EL et al, 2014).
Lo sviluppo delle conoscenze sui meccanismi patogenetici (aumento delle citochine pro-infiammatorie, sia a livello della lesione che a livello sistemico) ha permesso lo sviluppo e l’impiego di nuove molecole anti-citochine che interferiscono con la complessa cascata di chemochine-citochine, protagonista nel reclutamento degli istiociti nelle lesioni della malattia di Erdheim-Chester.
L’anakinra, un antagonista ricombinante del recettore dell’interleukina-1 (IL-1R), è stato il primo farmaco in grado di ridurre il dolore osseo e i sintomi sistemici nelle forme lievi di malattia di Erdheim-Chester, mentre si è dimostrata inefficace per le localizzazioni del SNC e cardiovascolari (Aouba A et al, 2010; Killu AM et al, 2013). Sono stati testati quindi altri farmaci anti-citochine, quali l’infliximab ed il tolicizumab.
Il trattamento con infliximab, un anticorpo monoclonale anti-TNFα, ha dato risultati incoraggianti in pazienti con malattia cardiaca refrattaria a IFN-α (Dagna L et al, 2012). Analogamente, in uno studio clinico di fase II prospettico, il tocilizumab, l’anticorpo monoclonale umanizzato contro il recettore dell’interleuchina-6 (IL-6) si è dimostrato efficace in pazienti affetti da malattia di Erdheim-Chester multisistemica, scarsamente tolleranti o refrattari alla terapia con IFN-α, sia sulle localizzazioni cardiovascolari che su quelle retroperitoneali e scheletriche (Berti A et al, 2017).
In uno studio prospettico di fase II, il sirolimus, inibitore di mTOR, è stato somministrato in associazione il prednisone con in pazienti affetti da malattia di Erdheim-Chester multisistemica con espressione di mTOR e della sua chinasi p70S6K (segno di attivazione del pathway di mTOR). L’associazione prednisone e sirolimus ha permesso di ottenere un quadro stabile di malattia nella quasi totalità di pazienti (Gianfreda D et al, 2015).
Sebbene nessun disordine istiocitario presentati mutazioni di KIT, ABL, o PDGFR, alcune lesioni dei pazienti con malattia di Erdheim-Chester presentano un’abbondante espressione di PDGFR-β (Haroche J et al, 2008) e quindi alcuni pazienti con malattia di Erdheim- Chester sono stati trattati con l’imatinib mesilato, con deludenti risultati (Haroche J et al, 2008; Janku F et al, 2010).
Negli ultimi anni, in particolare a partire dal 2012, la dimostrazione dell’efficacia degli inibitori di BRAF per i tumori solidi BRAFV600E mutati e per la leucemia a cellule capellute (Dietrich S et al, 2013; Dietrich S et al, 2012), ha motivato il loro utilizzo anche per i pazienti affetti da istiocitosi, in particolare nei pazienti con malattia di Erdheim-Chester, il 60% dei quali presenta la mutazione di BRAF (Haroche J et al, 2013). Il vemurafenib, inibitore di BRAF, è stato il primo farmaco utilizzato nei casi di istiocitosi con la mutazione BRAFV600E resistenti ad altri trattamenti, dimostrando una buona efficacia, anche a lungo termine, soprattutto nella malattia di Erdheim-Chester (Haroche J et al, 2013; Haroche J et al, 2015; Hyman DM et al, 2015; Diamond EL et al, 2016b). Successivamente, con l’impiego della WES (whole-exome sequencing) sono state identificate numerose altre mutazioni somatiche nelle istiocitosi e quindi anche nella malattia di Erdheim-Chester (Chakraborty R et al, 2014; Diamond EL et al, 2016a), con altri farmaci target che agiscono sulla via RAS-RAF-MEK-ERK (Figura X).
Figura X. Mutazioni attivanti che guidano la segnalazione delle chinasi nelle neoplasie istiocitarie (da Ozkaya N et al, 2017).
Lo studio di Cohen-Aubart et al è stato il primo a documentare l’efficacia e la sicurezza del vemurafenib in un’ampia coorte di pazienti con malattia di Erdheim-Chester (54 pazienti) con follow-up adeguatamente lungo. Il vemurafenib ha indotto risposte metaboliche (valutate con la 18F-FDG PET-CT) a 6 mesi nel 90% dei pazienti, nessuno dei quali ha avuto una progressione della malattia durante il follow-up. Purtroppo, le manifestazioni cliniche dovute alle lesioni o alla compressione di un organo (ad es. diabete insipido e ostruzione ureterale) non rispondono al trattamento ma spesso persistono o migliorano solo lievemente nonostante le eccellenti risposte metaboliche, così come le alterazioni neurologiche, specialmente quelle correlate all’atrofia cerebellare o al coinvolgimento del tronco cerebrale. Sempre in questo studio emerge come il trattamento con vemurafenib deve essere continuato per mantenere le risposte (Cohen Aubart F et al, 2017).
Nello stesso studio vengono riportati anche risultati preliminari molto incoraggianti ottenuti con il cobimetinib, un inibitore MEK, in un sottogruppo di 15 pazienti con malattia di Erdheim-Chester wild-type per BRAF, o intolleranti/resistenti al vemurafenib (Cohen Aubart F et al, 2017).
L’utilizzo dei farmaci target, in particolare gli inibitori BRAF e MEK per il trattamento della malattia di Erdheim-Chester è in aumento, con un significativo incremento della sopravvivenza a 5 anni (Haroche J et al, 2017). Tuttavia, la loro tossicità è tale da richiedere un’attenta valutazione prima di decidere il trattamento. Vemurafenib causa una grave tossicità cutanea (es. fotosensibilità, cheratosi e carcinomi a cellule squamose), anomalie cardiache (es. prolungamento dell’intervallo QT), artralgia e disturbi gastrointestinali (Larkin J et al, 2014; Cohen Aubart F et al, 2017). Alcune di queste manifestazioni, in particolare i disturbi gastrointestinali, possono essere aggravati dall’impiego in associazione con il cobimetinib, che come effetti collaterali specifici ha la rabdomiolisi, la retinopatia e rash cutanei acneiforme (Cohen Aubart F et al, 2017; Larkin J et al, 2014). Addirittura, una quota sostanziale dei pazienti (20,4%) ha dovuto interrompere il trattamento a causa della tossicità (Cohen Aubart F et al, 2017).
In considerazione degli effetti collaterali e della tossicità dei diversi farmaci attivi, finora disponibili, è importante cercare di identificare la categoria di pazienti che possono giovarsi dei farmaci target e quali di questi impiegare. Per questo è stato proposto un algoritmo terapeutico in cui gli inibitori di MEK e BRAF siano riservate a pazienti con malattia moderata-grave o a coloro che non rispondono ad altri trattamenti (Figura XI).
Figura XI. Algoritmo diagnostico-terapeutico per i pazienti con malattia di Erdheim-Chester (da Vaglio A et al, 2017).
BIBLIOGRAFIA
Tecnico laureato, ricercatore equiparato (art. 1, comma 10, DL 14 gennaio 1999, n. 4, art. 50 DPR 11 luglio 1980, n. 382 art 16, comma 1, DL 19 novembre 1990 n. 341), Dirigente medico di 1° livello, presso l’Ematologia - Dipartimento di Biotecnologie Cellulari ed Ematologia - Università “Sapienza” Roma, dal 1994 è strutturata presso il reparto pediatrico. Dal 2004 è medico responsabile del presidio di riferimento regionale per la malattia di Gaucher e di quello per Istiocitosi croniche-Istiocitosi X; dal 2015 è medico responsabile anche del presidio di riferimento regionale per altre patologie ematologiche rare.
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