Il quadro clinico denominato Smouldering Multiple Myeloma (SMM) è stato originariamente identificato nel 1980, ed è stato definito come una condizione caratterizzata da una proliferazione midollare di plasmacellule monoclonali, dall’assenza di sintomi clinici e da un elevato tasso di progressione a MM attivo (Kyle RA, 1980). L’incidenza delle forme di SMM sul totale delle diagnosi di MM è pari a circa l’8-20%.
Il quadro di SMM si pone così a metà strada tra la MGUS e il MM attivo, distinguendosi dalla prima condizione per un più alto tasso di progressione a MM e dalla seconda per via dell’assenza di segni e sintomi tipici della malattia.
I pazienti affetti da SMM hanno globalmente una probabilità annua di progressione a MM attivo pari al 10%. Tuttavia, all’interno di tale popolazione si annoverano pazienti con una probabilità di evoluzione estremamente bassa (2-5%) e più simile a quella della MGUS (pazienti a basso rischio), e pazienti con un’elevatissima probabilità di sviluppare danno d’organo (pazienti ad alto rischio, >90%) (Kyle RA, 2010).
Particolare attenzione è stata dunque posta nella ricerca di fattori di rischio correlati con la probabilità di progressione, al fine di stratificare i pazienti in classi di rischio, ottimizzare il follow-up ed infine valutare l’utilità di un intervento terapeutico precoce in pazienti ad alto rischio.
Fattori quali il tipo di immunoglobulina coinvolta (IgA), un alto indice proliferativo delle plasmacellule monoclonali midollari, un alterato rapporto delle catene leggere libere k/λ, una percentuale pari o superiore al 95% di plasmacellule midollari aberranti e la presenza di anomalie citogenetiche (t4;14, del17), sono stati correlati con un aumentato rischio di evoluzione a MM sintomatico (Facon T, 1995; Dispenzieri A, 2008; Madan S, 2010; Perez-Persona E, 2007; Rajkumar SV, 2013).
Nel corso degli anni sono state proposte differenti definizioni di SMM, tutte però accomunate dall’assenza di segni clinici e dalla sola raccomandazione allo stretto follow-up, al fine di individuare precocemente i pazienti con malattia in progressione.
Secondo le precedenti linee guida IMWG, lo SMM viene definito dalla presenza di ≥10% di plasmacellule monoclonali midollari e/o da una componente monoclonale sierica >3 g/dl, in assenza del danno d’organo caratteristico del MM (CRAB: Calcemia: >11,5 mg/dl; insufficienza Renale: creatininemia >2 mg/dl; Anemia: Hb <2 mg/dl rispetto al valore normale o Hb <10 mg/dl; lesioni ossee (B: bone): lesioni osteolitiche, osteopenia severa o fratture patologiche) (IMWG 2003).
In accordo alle nuove linee guida IMWG pubblicate nel 2014, si pone diagnosi di SMM in presenza di componente monoclonale IgG o IgA ≥ 3 g/dl (≥ 0,5 g/dl se componente urinaria) o una quota di plasmacellule midollari del 10-60%, in assenza di sintomi specifici (Rajkumar SV, 2014).
La diagnosi di MM attivo invece è definita da una quota di plasmacellule midollari ≥ 10% associata alla presenza di sintomi CRAB oppure a >60% di plasmacellule monoclonali midollari, K/L >100 mg/dl o >1 lesione focale evidenziate tramite Risonanza Magnetica Nucleare (RMN).
In questa nuova definizione di MM attivo, e pertanto meritevole di trattamento, viene inglobata quindi anche una parte di quelle forme di mieloma precedentemente identificate come SMM.
L’utilità di un trattamento precoce nei pazienti con SMM ad alto rischio è stata indagata nelle decadi precedenti mediante l’utilizzo di diversi agenti attivi nel MM. I primi tentativi sono stati condotti mediante la somministrazione di melfalan e prednisone (MP), senza che tuttavia emergesse un vantaggio in termini di sopravvivenza nei pazienti trattati (Hjort M, 1993). Al pari della combinazione MP, anche l’utilizzo dei bifosfonati, in combinazione o meno con la talidomide, farmaco immunomodulante orale, non ha dimostrato benefici in termini di progressione e sopravvivenza (D’Arena G, 2011; Barlogie B, 2008).
Recentemente, uno studio di fase III condotto dal gruppo spagnolo PETHEMA-GEM in pazienti affetti da SMM ad alto rischio (definito come la compresenza di componente sierica >3g/dl e plasmacellule monoclonali ≥10%, oppure 1 solo dei criteri elencati in aggiunta ad immunoparesi o una % di plasmacellule monoclonali aberranti midollari >95%), ha dimostrato un significativo prolungamento del tempo di progressione e della sopravvivenza nei pazienti trattati con lenalidomide e desametasone per 24 mesi (9 mesi di induzione e 15 mesi di mantenimento) in confronto ai pazienti randomizzati alla sola osservazione (Mateos MV, 2013).
Attualmente dunque non vi sono sufficienti indicazioni ad un trattamento precoce in pazienti affetti da SMM, ma soltanto uno stretto follow-up clinico-laboratoristico e strumentale al fine di individuare precocemente la progressione clinica.
Ulteriori studi sono necessari per una migliore definizione del rischio di evoluzione nei pazienti con SMM e per la valutazione dell’utilità e dell’efficacia clinica di un trattamento precoce in termini di qualità della vita, progressione e sopravvivenza globale.
BIBLIOGRAFIA
Professore Ordinario di Ematologia, Università di Torino; Direttore Dipartimento di Oncologia, Azienda Ospedaliera Universitaria Città della Salute e della Scienza di Torino.
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