Ad inizio anno sono stati pubblicati su Lancet i risultati dello studio multicentrico randomizzato a doppio cieco RIPT (Rituximab in ITP) che ha valutato l’efficacia di rituximab vs. placebo nel ridurre l’indicazione alla splenectomia in pazienti con piastrinopenia immune (ITP) primaria che avessero fallito una precedente terapia con corticosteroidi. Lo studio – indipendente dall’industria (Roche ha esclusivamente fornito il farmaco a titolo gratuito) – ha coinvolto 14 centri in Norvegia, Tunisia e Francia.
55 pazienti erano randomizzati a rituximab (4 infusioni settimanali, 375mg/m2) vs. 54 che ricevevano 4 infusioni settimanali di placebo. In entrambi i bracci i pazienti erano non splenectomizzati, di nuova diagnosi o con forma persistente o cronica di ITP , non avevano risposto ad almeno due settimane di prednisone 1-2 mg/kg/die (piastrine < 30 x 109/L) e non dovevano aver ricevuto altri trattamenti oltre alla terapia corticosteroidea. I pazienti potevano continuare a ricevere corticosteroidi dopo la randomizzazione, secondo necessità, per mantenere una conta piastrinica superiore a 20 x 109/L.
Tutti i pazienti venivano considerati nell’analisi e l’endpoint primario era definito dal raggiungimento dei criteri per la splenectomia (indipendentemente dall’effettuazione della medesima, ad es. per rifiuto del paziente o per terapia alternativa, come TPO mimetici). L’indicazione alla splenectomia era posta in presenza di una conta piastrinica < 20 x 109/L, o della necessità di una dose di prednisone superiore a 7,5 mg/die totali per mantenere le piastrine > 20 x 109/L.
I risultati dello studio sono stati molto deludenti per rituximab. Infatti, non si è assistito ad una riduzione del rate di fallimento nel lungo termine (valutato a un anno e mezzo dall’inizio del trial) fra i due bracci. L’unico piccolo beneficio consisteva nel tasso di risposta apparentemente più alto (piastrine > 30 x 109/L e raddoppio conta basale) e nella sua maggior durata nel breve termine. Il braccio trattato con rituximab mostrava una tendenza ad una maggiore frequenza di infezioni.
Conclusione
L’entusiasmo iniziale nell’uso di rituximab nell’ITP è andato progressivamente ridimensionandosi, soprattutto dopo che uno studio di Patel et al. (Patel VL et al, 2012) aveva dimostrato, peraltro basandosi su assunzioni e aggregazioni di dati della letteratura, che la risposta a lungo termine (5 anni) si aggirava intorno al 20% negli adulti (un quinto di quanto atteso con la splenectomia). Tuttavia mancavano studi controllati randomizzati in cieco vs. placebo. L’unico pubblicato finora (Arnold DM et al, 2012) aveva prodotto risultati non significativi. L’importanza dello studio di Ghanima et al. consiste nell’aver dimostrato, utilizzando criteri clinici di valutazione di trattamento come quelli in uso nella corrente pratica clinica, l’irrilevanza sostanziale di rituximab nel migliorare il tasso di risposta a lungo termine. Tuttavia, in alcuni sottogruppi di pazienti l’uso di rituximab potrebbe risultare più vantaggioso (es. nelle donne, entro 24 mesi dalla diagnosi) come suggerito da uno studio retrospettivo (Bussel JB et al, 2014b).
Fonte:
Ghanima W, Khelif A, Waage A, Michel M, Tjønnfjord GE, Romdhan NB, Kahrs J, Darne B, Holme PA; RITP study group. Rituximab as second-line treatment for adult immune thrombocytopenia (the RITP trial): a multicentre, randomised, double-blind, placebo-controlled trial. Lancet. 2015;385:1653-61.
BIBLIOGRAFIA
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