Trattamento della sideropenia: sappiamo veramente come utilizzare la terapia con ferro orale?

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La terapia con ferro orale continua a essere il gold standard della terapia marziale, nonostante la disponibilità di numerosi farmaci per uso parenterale. Infatti i sali ferrosi, in particolare il solfato di ferro, sono efficaci e poco costosi. Tuttavia il ferro orale può causare frequenti effetti collaterali per cui molto spesso i pazienti non sono in grado di proseguire il protocollo terapeutico alle dosi e per i tempi consigliati. Il problema è correlato all’assorbimento duodenale di ferro che rappresenta solo un’aliquota (circa 12-15%, anche meno se il ferro è assunto non a digiuno) del ferro introdotto. Si è sempre ovviato a questo inconveniente somministrandone dosi elevate. I testi classici di ematologia e medicina interna, e review recenti, consigliano 100-200 mg di ferro elementare per os al dì da proseguire per 2-3 o anche 6 mesi, nell’intento di reintegrare i depositi esauriti (Camaschella C et al, 2015; Lopez A et al, 2015).  Dati recenti suggeriscono che il ferro non assorbito non sia innocuo ma per le sue capacità ossidanti possa danneggiare la mucosa intestinale, rendendo ragione degli effetti collaterali. Inoltre, in presenza di alto contenuto di ferro nelle feci, è stato segnalato un cambiamento del microbioma intestinale con incremento delle specie patogene e riduzione di quelle favorevoli in studi in bambini del terzo mondo (Zimmermann MB et al, 2010).

Il problema della dose ottimale di ferro è quindi di assoluta attualità: in teoria andrebbe somministrata la dose minima efficace. Molti soggetti considerati intolleranti vengono trattati con ferro parenterale, che è molto efficace, ma bypassa le normali barriere protettive, per cui l’ effetto a lungo termine resta incerto. Inoltre aumenta i costi del trattamento.

In quest’ottica è importante il lavoro del gruppo di Michael Zimmerman, apparso rcentemente su Blood. In questo lavoro sono state prese in considerazioni donne giovani con carenza di ferro ma non anemiche, trattate per soli due giorni con dosi diverse di ferro (da 40 a 240 mg) in dose singola o in dosi refratte. La novità del lavoro è consistita nel misurare in modo preciso, attraverso la somministrazione di un isotopo stabile del ferro, la quantità assorbita, quella utilizzata e in contemporanea la variazione di epcidina (l’ormone del ferro) nel siero, indotta dalla terapia stessa. Come noto l’epcidina, che risponde all’incremento di ferro circolante, blocca la ferroportina dei macrofagi e del duodeno riducendo il rilascio di ferro al plasma con un meccanismo di feed back negativo. Gli autori dimostrano che dosi superiori a 60 mg (sino a 240 mg) di ferro al dì evocano un incremento di epcidina che persiste sino a 48 ore e riduce l’assorbimento della dose successiva. I dati di questo lavoro avvalorerebbero il trattamento della sideropenia senza anemia (ad esempio per prevenire l’anemia nelle donne giovani) alla dose di 60 mg, come suggerito da WHO (WHO Guideline, 2011) ma a giorni alterni, per una migliore efficacia e tolleranza.

In un editoriale che accompagna la pubblicazione dell’articolo (Schrier SL et al, 2015) Stanley Schrier, un grande esperto di sideropenia, commentando l’originalità dell’approccio e i risultati del lavoro conclude che forse dovremo in futuro cambiare il nostro atteggiamento terapeutico e passare dal dogma della terapia con ferro a dosi elevate e refratte ad una terapia in singola dose e con uno schema a giorni alterni. Va però sottolineato che lo studio riguarda donne sideropeniche ma non anemiche. L’ipossia causata dalla riduzione dell’emoglobina influenza direttamente l’assorbimento di ferro dal lume intestinale, incrementando l’espressione del trasportatore dell’orletto a spazzola “divalent metal transporter one” (DMT1). La stessa sperimentazione effettuata in donne con anemia sideropenica potrebbe identificare il dosaggio migliore di ferro e lo schema terapeutico più efficace al fine di rivalutare e ottimizzare la terapia con ferro orale, negli ultimi tempi oggetto di scarsa considerazione. Inoltre lo studio valuta l’effetto del ferro a tempi estremamente brevi e non è noto quali modifiche possano insorgere nel corso della terapia, data la variazione dei parametri del ferro stesso, il che richiederebbe una sperimentazione protratta nel tempo. In ogni caso il lavoro è originale, critico e fornisce una nuova interpretazione su di una terapia di largo impiego in clinica.

Fonte:

Moretti D, Goede JS, Zeder C, Jiskra M, Chatzinakou V, Tjalsma H, Melse-Boonstra A, Brittenham G, Swinkels DW, Zimmermann MB. Oral iron supplements increase hepcidin and decrease iron absorption from daily or twice-daily doses in iron-depleted young women. Blood. 2015;126:1981-9.

BIBLIOGRAFIA

  • Camaschella C. Iron-Deficiency Anemia. N Engl J Med. 2015;373:485-6.
  • Lopez A, Cacoub P, Macdougall IC, Peyrin-Biroulet L. Iron deficiency anaemia. Lancet. 2015 Aug 24. [Epub ahead of print].
  • Schrier  SL. Inside Blood “So you know how to treat iron deficiency anemia”. Blood. 2015;126:1971.
  • WHO Guideline: intermittent iron supplementation for preschool and school-age children, World Health Organization, Geneva, 2011.
  • Zimmermann MB, Chassard C, Rohner F, et al. The effects of iron fortification on the gut microbiota in African children: a randomized controlled trial in Cote d’Ivoire. Am J Clin Nutr. 2010;92:1406-15.

A cura di:

Già Professore ordinario di Medicina interna presso l’Università Vita-Salute San Raffaele e Responsabile della Unità Regolazione del metabolismo del ferro, IRCCS San Raffaele, Milano

Clara Camaschella
Clara Camaschella
Già Professore ordinario di Medicina interna presso l’Università Vita-Salute San Raffaele e Responsabile della Unità Regolazione del metabolismo del ferro, IRCCS San Raffaele, Milano
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