Quale ruolo per la splenectomia nell’ITP cronica degli adulti? Un’analisi dettagliata delle evidenze

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* Questo approfondimento riflette un recente articolo dell’autore (Rodeghiero F, 2018)

Nell’ultimo decennio l’uso della splenectomia nel trattamento dei pazienti con Trombocitopenia Immune (ITP) è andato progressivamente diminuendo, al punto che in alcuni paesi è considerata una pratica quasi obsoleta (Ghanima W et al, 2012; Lee JY et al, 2017). Spicca fra tutti il tasso di splenectomie nel Regno Unito, che secondo dati forniti a fine 2017 dal coordinatore del Registro UK Drew Provan è di circa 2% all’anno all’interno della popolazione registrata, che comprende tuttavia anche pazienti con piastrinopenia lieve. Il ruolo tradizionale della splenectomia è stato messo in discussione dai risultati dei trattamenti più recenti come il rituximab, anticorpo monoclonale anti-CD20, e il romiplostim e l’eltrombopag, agonisti del recettore della trombopoietina (TPO-RA), con la maggior parte dei pazienti e medici che preferiscono esplorare tutte le opportunità mediche prima di considerare un approccio chirurgico irreversibile. Anche la disinformazione nei blog dei pazienti potrebbe contribuire, poiché i pazienti che evitano la splenectomia potrebbero essere più attivi e influenti.

Considerando l’incidenza annuale di ITP richiedente terapia, che si può considerare compresa fra 1 e 2/100.000 (Terrell DR et al, 2010), e un tasso attuale di splenectomia intorno al 5%, l’aspettativa è di 1-2 splenectomie all’anno ogni milione di abitanti, esclusivamente appannaggio di soggetti adulti.

 

Fisiopatologia dell’autoimmunità e meccanismi della trombocitopenia: il ruolo della milza 

 

La perdita di tolleranza contro specifici autoantigeni presenti sulla membrana delle piastrine rappresenta il fattore chiave nella patogenesi dell’ITP. La diminuzione delle piastrine circolanti nel sangue è conseguenza di tre principali meccanismi (Zufferey A et al, 2017). Il primo è ascrivibile alla presenza degli autoanticorpi IgG, peraltro misurabili con i metodi attuali solo in circa il 60% dei pazienti. Questi autoanticorpi, oltre a interferire negativamente sulla produzione di piastrine inducendo nei megacariociti alterazioni pre-apoptotiche, si legano ai principali antigeni di superficie rappresentati dalle glicoproteine (GP) IIb/IIIa and GPIb-IX-V presenti sia sulle membrane piastriniche che su quelle dei megacariociti. Le piastrine opsonizzate vengono “catturate” dalle cellule del sistema reticolo-endoteliale attraverso i recettori Fcg, dando luogo alla loro successiva fagocitosi che avviene principalmente nella milza e nel fegato. Recenti studi hanno anche sottolineato il ruolo della rimozione delle piastrine da parte del recettore Ashwell-Morrel presente negli epatociti del fegato, che riconoscono sulla superficie piastrinica una ridotta espressione di acido sialico. Questo meccanismo può svolgere un ruolo in pazienti con autoanticorpi anti-GP lb-IX (Grozovsky R et al, 2015; Jansen AJ et al, 2015). Il secondo meccanismo consiste nella distruzione delle piastrine e dei megacariociti da parte dei linfociti T citotossici autoreattivi (CD8+)(Olsson B et al, 2003). Infine, i livelli di trombopoietina circolante, invece di essere marcatamente aumentati come ci si aspetterebbe e come di fatto si osserva nelle trombocitopenie dovute a ipoplasia megacariocitaria, risultano pressoché normali o tuttalpiù leggermente aumentati. Pertanto, il potenziale trombopoietico non viene utilizzato completamente. A questa insufficienza contribuiscono anche le maggiori concentrazioni di citochine pro-infiammatorie prodotte dai linfociti T helper (Th) autoreattivi CD4+. Inoltre, a causa dell’ambiente pro-infiammatorio, i linfociti regolatori T e B (T-regs, CD4+ CD25+ FoxP3+; B-regs, CD19+ CD41hi CD38hi) sono spesso ridotti o funzionalmente difettosi, determinando a loro volta un’espansione incontrollata di linfociti autoreattivi e plasmacellule.

All’interno di questi complessi meccanismi, la milza, quale principale organo linfoide periferico, svolge un ruolo fondamentale nella cronicizzazione dell’alterata omeostasi immune e rappresenta il sito principale della produzione di autoanticorpi. A conferma di ciò, si constata come la concentrazione delle cellule autoreattive T e B contro GPIIb/IIa sia significativamente diminuita nei pazienti che normalizzano la conta piastrinica dopo splenectomia (Kuwana M et al, 2002). Anche i linfociti B memoria sono diminuiti nei pazienti splenectomizzati (Martinez-Gamboa L et al, 2009). Infatti, l’interazione tra autoantigeni GPIIb/IIIa e linfociti T e B reattivi che inducono la produzione di auto-anticorpi, si verifica principalmente nella milza da cui i linfociti T e B attivati da GPIIb/IIIa reattivi sono rilasciati nella circolazione come cellule di memoria. La milza dei pazienti affetti da ITP mostra un aumento del numero dei linfociti B autoreattivi e una minore presenza di T-regs nella polpa rossa (Olsson B et al, 2012) e contiene noduli linfoidi in attività proliferativa che ospitano linfociti B in stretta vicinanza a cellule dendritiche legate a complessi immuni IgM-GPIIb/IIIa (Daridon C et al, 2012). Nonostante B- e T-regs siano concentrati all’interno della milza (spiegando quindi la loro ridotta concentrazione nel sangue periferico in pazienti con ITP), essi risultano inefficaci nel controllare l’esuberante immunità autoreattiva che ha luogo in questo organo. Infine, nella milza rimangono disponibili plasmacellule a lunga vita che risultano protette da interventi di deplezione dei linfociti circolanti attraverso l’uso di anticorpi antilinfocitari quali ad esempio quelli contro CD20 (Mahevas M et al, 2013).

 

Criteri generali per il trattamento e il decorso della malattia 

 

Come descritto nel capitolo generale (La Piastrinopenia Immune), il trattamento dell’ITP dovrebbe mirare a 2 obiettivi principali: ridurre il rischio di sanguinamento e modificare il decorso naturale della malattia inducendo una risposta a lungo termine. Ultimamente viene data maggiore enfasi agli aspetti soggettivi legati ai valori e alle preferenze dei pazienti. Tra questi, la percezione del rischio chirurgico, l’impatto sulla qualità della vita, l’affaticamento, l’immagine corporea, il desiderio di condurre una vita normale praticando sport e altre attività ricreative. Inoltre, alla luce di un approccio più libero e personalizzato, alcuni autori propongono di anticipare i nuovi trattamenti senza attendere il risultato della splenectomia (Chaturvedi S e McCrae KR, 2016; Cuker A e Neunert CE, 2016). Questo approccio è però in contrasto con altre autorevoli opinioni (Hicks LK et al, 2014).

I vari trattamenti agiscono preferenzialmente verso uno o più dei principali meccanismi patogenetici discussi in precedenza. Ad esempio, mentre le immunoglobuline endovena (IVIg) bloccano l’assorbimento delle piastrine opsonizzate da parte del sistema reticolo-endoteliale, aumentando la conta piastrinica per non più di 3-4 settimane, i corticosteroidi, con i loro effetti multiformi sulla risposta immune e sul milieu infiammatorio, possono indurre in alcuni pazienti l’immunomodulazione a medio o lungo termine con un aumento prolungato della conta piastrinica (Godeau B et al, 2002; Provan D et al, 2010). Questo effetto è ulteriormente potenziato dalla somministrazione concomitante di rituximab, ma con minima influenza sul tasso di risposta oltre 6-12 mesi, in concomitanza con la ricostituzione dei linfociti B circolanti. Secondo alcuni esperti, la normalizzazione della conta piastrinica, indipendentemente dal trattamento che l’ha indotta, potrebbe favorire l’induzione di immunotolleranza con mitigazione del fenomeno autoimmune di base. Tuttavia non è ancora chiaro se un intervento intensivo, mirato simultaneamente alle risposte immunitarie innate e adattative e somministrato precocemente nel corso della malattia, possa aumentare il tasso di guarigione o semplicemente prolungare la durata della risposta in maniera non tale da giustificarne la potenziale maggiore tossicità (Cuker A et al, 2015). Pertanto, la rimozione della milza appare tuttora l’intervento più efficace nei confronti dei molteplici meccanismi patogenetici dell’ITP. La splenectomia rimane l’unico intervento in grado di modificare sostanzialmente il corso del processo autoimmune.

Tuttavia, si sono osservati tassi significativi di risposte durature – almeno parziali – anche dopo il fallimento della splenectomia in pazienti seguiti per un lungo periodo con trattamenti conservativi, indicando un andamento non sempre stabile del processo autoimmune (Sailer T et al, 2006).

 

Risultati della splenectomia

 

Efficacia

 

Kojouri et al in una estesa revisione sistematica della letteratura hanno analizzato il tasso di riposta dopo splenectomia in 2623 pazienti provenienti da 47 serie di soli adulti e in 2463 da altre 38 serie che comprendevano non oltre il 25% di bambini. Dopo 29 mesi, la risposta completa (CR, conta piastrinica >100 x 109/L) veniva mantenuta nel 66% dei casi mentre il tasso di CR più risposta parziale (PR, conta piastrinica >30 x 109/L) raggiungeva l’88%. Dopo un follow-up minimo di 5 anni (range 5 – 12,75 anni) la CR era del 64%. La frequenza di CR era sostanzialmente equivalente nelle varie serie, nonostante i pazienti fossero stati trattati nell’arco di 58 anni, comprendendo quindi anche serie molto antiche (Kojouri K et al, 2004).

Vianelli et al hanno descritto il risultato ottenuto su 402 pazienti (di cui 24 di età inferiore ai 16 anni) splenectomizzati tra il 1959 e il 2002 in 22 centri italiani. Si osservava una risposta al trattamento nell’85,6% dei casi. Il 23% di quelli inizialmente rispondenti andava incontro a recidiva e il 14% risultava refrattario. La maggior parte dei pazienti recidivi o refrattari rispondeva comunque ai successivi trattamenti medici on demand, confermando la splenectomia come una pratica sicura ed efficace in circa due terzi dei pazienti con ITP cronica (Vianelli N et al, 2005). Questi risultati sono in linea con l’esperienza generale di un miglioramento del decorso dell’ITP dopo la splenectomia, e hanno trovato conferma anche in pubblicazioni più recenti. Ad esempio, in un altro studio multicentrico europeo, Vianelli et al, hanno descritto 233 pazienti affetti da ITP con un follow-up minimo di 10 anni dalla splenectomia, riportando un tasso iniziale di risposta dell’88%. Sebbene nel 40% dei casi (92/233) si assistesse a ricaduta o a una risposta insufficiente, dopo 20 anni il 67% dei pazienti manteneva una risposta completa o parziale, confermando la possibilità di ottenere una “guarigione” in una sostanziale proporzione di pazienti. Rilevante notare che solo nell’11% della coorte iniziale è stato necessario un trattamento continuativo per mantenere una risposta (Vianelli N et al, 2013). In un report su 174 pazienti sottoposti a splenectomia dal 1994 al 2014 in un unico grande ospedale della Cina, l’88,5% ha raggiunto CR (72,4%) o R (16,1%). Il tasso di risposta complessivo a lungo termine era del 70%. La sopravvivenza a 20 anni senza ricaduta per pazienti con CR iniziale è stato stimato intorno all’80% (Guan Y et al, 2017). In un’analisi retrospettiva di 167 pazienti con ITP persistente o cronica splenectomizzati tra il 1995 e il 2009 in un unico ospedale indiano, la CR iniziale più R era dell’86%. Dopo un follow-up mediano di 54,3 mesi, il 70% ha mantenuto la risposta (Ahmed R et al, 2016). L’influenza dell’età sul tasso di risposta alla splenectomia non risulta avere un impatto rilevante, ove si escludano le complicanze chirurgiche. Mentre in uno studio spagnolo è stato rilevato un tasso leggermente inferiore di CR e R e un tasso più alto di ricaduta negli over 65 (Gonzalez-Porras JR et al, 2013), in un altro studio questa differenza non è risultata sostanziale (Park YH et al, 2016).

 

Indicatori di risposta 

 

Numerose variabili demografiche, cliniche e di laboratorio sono state studiate per la loro capacità di prevedere la risposta alla splenectomia. Nella loro revisione, Kojouri et al, hanno evidenziato migliori risultati nei pazienti di età inferiore ai 50 anni . Anche una precoce risposta ai glucocorticoidi risultava correlata con una migliore risposta, ma non trovava conferma nell’analisi multivariata. Non vi era correlazione significativa con la risposta precoce alle IVIg (Kojouri K et al, 2004). Anche in serie più recenti, il tasso di risposta e la durata risultavano inferiori nei pazienti più anziani (>65 anni) e nei pazienti non rispondenti ai corticosteroidi o esposti a più di due linee di terapia; questi fattori non sono stati tuttavia confermati nell’analisi multivariata (Gonzalez-Porras JR et al, 2013; Guan Y et al, 2017; Park YH et al, 2016). In mancanza di indicatori demografici e clinici affidabili, la dimostrazione di un prevalente sequestro piastrinico a livello splenico ha suscitato un notevole interesse. Questo approccio non è risultato però predittivo nell’analisi di Kojouri et al,, anche in considerazione dell’eterogeneità delle diverse tecniche radioisotopiche di marcatura con cromo o indio delle piastrine impiegate (51Cr o 111In in piastrine autologhe od omologhe) (Kojouri K et al, 2004). Una successiva analisi aggregata di sei studi nei quali veniva effettuata una scintigrafia splenica ed epatica utilizzando esclusivamente piastrine autologhe marcate con 111In (ILAPS, Indium Labelled Autologous Platelet Scan) ha prodotto risultati divergenti. Anche se i pazienti con un sequestro completamente o prevalentemente splenico hanno mostrato un tasso più alto di risposta dopo la splenectomia rispetto a quelli con un sequestro prevalentemente epatico, diffuso o misto (91% vs 41%), la validità di questa analisi è risultata limitata dalla eterogeneità degli studi in termini di popolazione investigata, definizione di risposta, tempo di risposta (pochi dati sulle risposte a lungo termine), metodologia tecnica e interpretazione. Pertanto, sebbene promettente (Sarpatwari A et al, 2010) l’uso di questa tecnica come strumento per predire la risposta alla splenectomia nell’ITP cronica, non può essere attualmente raccomandato se non all’interno di centri con una grande esperienza (Cuker A e Cines DB, 2010), tanto più che la sua validità non è stata confermata da ulteriori studi (Roca M et al, 2011) (Navez J et al, 2015).

 

Complicanze perioperatorie

 

Kojouri et al (Kojouri K et al, 2004) hanno limitato la loro analisi esclusivamente alle complicanze a breve termine correlate alla chirurgia (avvenute durante l’ospedalizzazione o entro 30 giorni). Sono state analizzate congiuntamente sia le serie che includevano solo adulti che quelle con adulti e bambini. Il tasso di mortalità per l’intervento in laparotomia era dell’1% (48 su 4955 pazienti) rispetto allo 0,2% (3/1301) ottenuto con l’approccio laparoscopico. Similmente, si osservavano più complicanze con la laparotomia 12,9% (318/2465) rispetto all’intervento per via laparoscopia 9,6% (88/921). La maggior parte delle complicazioni erano dovute a sanguinamento intra-addominale in pazienti con pre-intervento e conteggio delle piastrine molto basso. Dopo il primo report di splenectomia laparoscopica in pazienti con ITP (Delaitre B e Maignien B, 1991), questa tecnica è stata progressivamente adottata in tutto il mondo. Una revisione sistematica ha confermato un’efficacia simile o addirittura maggiore in termini di risposta a breve e lungo termine, con un tasso di fallimento stimato del 28% dopo 5 anni di follow-up (Mikhael J et al, 2009). La splenectomia laparoscopica rappresenta il gold standard nell’ITP, considerati i migliori risultati in termini di complicanze perioperatorie (generalmente meno del 10%), il ridotto tasso di conversione alla chirurgia laparotomica (costantemente meno del 10% dei casi) e i migliori risultati estetici e consentendo nel contempo una simile capacità di individuare milze accessorie. Inoltre, la splenectomia laparoscopica richiede un’ospedalizzazione più breve (inferiore a 4-6 giorni) – anche se a discapito di un tempo di operazione un po’ più lungo (circa 2 ore) – ridotto sanguinamento e una più rapida ripresa dell’alimentazione (Dolan JP et al, 2008; Rijcken E et al, 2014). I pazienti con più di 60/70 anni hanno un rischio significativamente maggiore di complicanze perioperatorie (Gonzalez-Porras JR et al, 2013; Park YH et al, 2016). Ferite, infezioni polmonari o subfreniche, breve malattia febbrile o versamento pleurico subfrenico possono essere complicazioni benigne. Le morti occasionali perioperatorie, riportate dopo la splenectomia laparoscopica anche in serie recenti, potrebbero essere virtualmente abolite riservando l’intervento a chirurghi esperti dopo un’adeguata valutazione del rischio chirurgico ed un’accurata preparazione dei pazienti in termini di conta piastrinica preoperatoria di sicurezza, tale anche da permettere la profilassi anti-trombotica (Rodeghiero F e Ruggeri M, 2012).

A tal proposito, anche se la splenectomia laparoscopica sembra sicura e fattibile anche nei pazienti con piastrine <10 x 109/L e con una tecnica chirurgica meticolosa (Cai Y et al, 2014), altri studi hanno suggerito un aumento del rischio di sanguinamento con livelli di piastrine <20 x 109/L (Keidar A et al, 2005). Nei pazienti che rispondono a un breve corso di terapia medica, suggeriamo di aumentare la conta piastrinica prima dell’intervento a 30-50 x 109/L, anche al fine di adottare la profilassi antitrombotica con eparina a basso peso molecolare (LMWH).

Il rischio di trombosi venosa profonda (DVT) nel periodo immediatamente successivo alla chirurgia non assume particolare rilievo in assenza di fattori di rischio (simile agli interventi di chirurgia minore) mentre il rischio di trombosi venosa nel sistema venoso spleno/portale (SPV) può essere significativo. Tale rischio potrebbe essere addirittura maggiore negli interventi laparoscopici a causa della stasi venosa intra-addominale conseguente al pneumoperitoneo necessario ai fini dell’utilizzo della tecnica laparoscopica, con conseguenti stasi venosa. Questa evenienza rafforza l’indicazione alla profilassi con LMWH. Le trombosi del sistema spleno/portale hanno una frequenza relativamente ridotta (1,7%) (Krauth MT et al, 2008), ma possono essere rilevate fino al 20% dei casi applicando sistematicamente tecniche diagnostiche ultrasonografiche. La profilassi con LMWH dovrebbe essere somministrata per almeno 10 giorni dopo l’intervento e sospesa soltanto dopo aver effettuato esami strumentali per escludere le trombosi asintomatiche (Rodeghiero F, 2016; Rodeghiero F e Ruggeri M, 2012). Conseguenze più gravi comporta l’estensione distale del trombo oltre la congiunzione della vena splenica con la vena porta. In questo caso, i pazienti richiedono un’anticoagulazione e una sorveglianza clinica prolungate. Raramente sono stati riportati anche casi di trombosi della vena mesenterica.

 

Infezioni

 

L’infezione incontrollabile post-splenectomia (Overwhelming Post Splenectomy Infection, OPSI) è la complicanza più temuta, anche se relativamente rara, della splenectomia, con un tasso di mortalità pari o superiore al 40-50%, ed è principalmente dovuta allo Streptococcus pneumoniae, Meningococcus meningitidis o all’Haemophilus influenzae di tipo b. Tuttavia, sono più frequenti altre infezioni non pericolose per la vita causate da altri agenti patogeni. In una revisione sulle infezioni post-splenectomia su 6942 pazienti negli anni 1966-1996, che includeva 194 bambini e 283 adulti con ITP, con un follow-up mediano di 6,9 anni, l’incidenza di OPSI era del 2,6% nei bambini e del 2,1% negli adulti; i decessi raggiungevano l’1,5% e l’1,1% rispettivamente (Bisharat N et al, 2001). Queste percentuali sono 2-3 volte inferiori a quelle riscontrate in pazienti con diagnosi di anemia falciforme o talassemia. Di conseguenza, è necessario considerare il rischio di OPSI con riferimento specifico alla malattia sottostante. Un report di Thomsen et al, basato sulla popolazione danese ha confrontato l’incidenza delle infezioni che richiedevano ospedalizzazione, anche se non necessariamente gravi. Oltre alla popolazione di interesse, ovvero pazienti splenectomizzati per varie patologie dal 1996 al 2005, sono stati considerati tre gruppi di confronto: popolazione generale, pazienti appendicectomizzati, e pazienti con identiche patologie ma non splenectomizzati (coorte di confronto appaiata per indicazione) (Thomsen RW et al, 2009). Dopo un follow-up di 2,2 anni, il tasso complessivo di infezioni nei pazienti splenectomizzati per le varie indicazioni era di 7,7/100 anni-persona (rispetto a 2,0/100 anni-persona nella popolazione generale), 2-3 volte più alto rispetto ai soggetti appendicectomizzati e tuttavia soltanto lievemente più alto se rapportato alla coorte di confronto appaiata per indicazione. Boyle et al, hanno identificato 9976 pazienti con ITP non splenectomizzati, dei quali 1762 richiedevano un secondo ricovero per splenectomia. Dopo un follow-up mediano di 5 anni, è stato calcolato un incremento di rischio a lungo termine negli splenectomizzati rispetto ai non splenectomizzati, compreso fra 1,6 e 3,1, a seconda delle comorbidità (Boyle S et al, 2013). Poiché casi di sepsi sono stati segnalati anche trascorsi 20-40 anni dalla splenectomia, queste indagini potrebbero aver sottostimato il rischio a lungo termine di infezioni. Tuttavia, le infezioni più gravi avvengono durante i primi 3-4 anni e pertanto i dati sopra riportati sono da ritenersi affidabili (Kyaw MH et al, 2006).

Utilizzando la stessa coorte danese e le stesse metodologie descritte da Thomsen et al (Thomsen RW et al, 2009), Yong et al hanno valutato un minor rischio di morte a breve e lungo termine nei soggetti con splenectomia rispetto ai non splenectomizzati appaiati per indicazione (Yong M et al, 2010). Ancora più importante è stata l’osservazione che il tasso di mortalità dopo splenectomia era inferiore a quello della coorte appaiata nei periodi di 3-12 mesi (0,5) e >12 mesi (0,4). Una plausibile spiegazione potrebbe consistere nella più frequente esposizione all’immunosoppressione nei pazienti non splenectomizzati, allo scopo di mantenere una conta piastrinica di sicurezza.

 

Trombosi

 

Nei vari ampi studi epidemiologici nei pazienti con ITP si è consistentemente rilevato un rischio di tromboembolismo venoso (VTE) lievemente aumentato, con un rapporto di rischio significativo rispetto alle popolazioni di controllo, ma inferiore a 2. Il rischio di trombosi arteriosa (AT), anch’esso lievemente aumentato, non raggiungeva la significatività statistica. In questi studi la splenectomia non emergeva come fattore di rischio aggiuntivo significativo (Rodeghiero F, 2016; Rodeghiero F, 2017). Al contrario, almeno due ampi studi hanno confrontato pazienti con ITP non splenectomizzati versus splenectomizzati, mostrando un rischio più elevato di VTE e AT nei pazienti sottoposti a splenectomia. Boyle et al hanno rilevato un rischio a lungo termine di VTE 2,7 volte maggiore negli splenectomizzati. A tre mesi dall’intervento (o dall’ingresso nello studio per i non splenectomizzati) veniva rilevata un’incidenza di trombosi venosa addominale dell’1,7% negli splenectomizzati rispetto all’1% nei controlli (Boyle S et al, 2013). Uno studio retrospettivo multicentrico su 986 pazienti trattati per ITP (per un totale di 3888 anni persona, follow-up mediano di circa 4 anni) di cui 136 splenectomizzati, ha confermato un aumento del rischio trombotico nei pazienti splenectomizzati rispetto ai non splenectomizzati, con un rapporto di rischio di 4,1 per VTE e 3,2 per AT (Ruggeri M et al, 2014). In aggiunta alla splenectomia, l’età avanzata, l’uso di steroidi o la compresenza di almeno 3 fattori di rischio vascolare contribuivano in maniera indipendente ad aumentare il rischio di VTE e AT.

Ulteriori morbilità a lungo termine possibilmente correlate ad eventi vascolari sono state collegate alla splenectomia. Tuttavia, questi dati non sono direttamente trasferibili alla splenectomia effettuata per ITP

 

Integrazione fra evidenze e opzioni terapeutiche

 

Tradizionalmente, il trattamento dell’ITP primaria era basato sull’impiego di corticosteroidi e immunoglobuline per via endovenosa (IVIg). Trattamenti più pesanti, inclusi gli agenti immunosoppressivi come micofenolato mofetile, azatioprina e molti altri con evidenza aneddotica (Vesely SK et al, 2004) venivano riservati a pazienti non rispondenti che rifiutavano o avevano controindicazione alla splenectomia. Dosi minime di corticosteroidi sono ancora usate liberamente, nella convinzione errata che siano abbastanza sicure, mentre anche dosi intorno ai 4-5 mg/die hanno una tossicità cumulativa con un aumento del rischio di infezioni e complicanze metaboliche.

Più recentemente, trattamenti meno invasivi come rituximab e i TPO-RA hanno messo in discussione questo approccio e la splenectomia è stata progressivamente proposta solo una volta esaurite tutte le altre opzioni terapeutiche. Il rifiuto della splenectomia è comprensibile dal punto di vista dei pazienti, per l’impatto negativo sul piano emotivo e psicologico causato dalla chirurgia, in considerazione della necessità di ricovero, di un rischio, sia pur minimo, e dell’irreversibilità della procedura, la cui efficacia non è prevedibile con certezza. Tuttavia, questo approccio esclusivamente medico non è sostanziato da sufficienti evidenze e non può certamente essere escluso che durante l’intero decorso della malattia i pazienti non splenectomizzati non finiscano per essere esposti a una dose cumulativa di corticosteroidi o a terapie immunosoppressive che globalmente ne aggravino lo stato di salute in termini di comorbilità. Anche l’uso esteso per molti anni dei TPO-RA (nei pazienti che non riescono a sospendere la terapia e a mantenere una risposta sufficiente) non può essere considerato privo di rischi, oltre che a indurre una prolungata medicalizzazione. In effetti, mancano dati sull’outcome globale ottenibile con le diverse strategie terapeutiche nei pazienti con ITP persistente o cronica. Queste informazioni richiedono valutazioni comparative in coorti di pazienti nei quali si confrontino diverse sequenze terapeutiche comprendenti la splenectomia, il rituximab e i TPO-RA.

Anche le prove indirette ottenibili dalle descrizioni delle serie contemporanee sono molto limitate. Un confronto sulla mortalità e morbilità (dopo aggiustamento attraverso uno score di propensione al trattamento) ha mostrato risultati migliori nei pazienti splenectomizzati rispetto a quelli trattati con rituximab (Moulis G et al, 2014). Inoltre, la splenectomia seguita da rituximab dava migliori risultati rispetto alla sequenza inversa in uno studio condotto presso la Mayo Clinic negli Stati Uniti (Hammond WA et al, 2016).

 

Commenti finali

 

Indubbiamente i TPO-RA rappresentano il maggior successo terapeutico nel trattamento dell’ITP dopo decadi di stagnazione nello sviluppo di farmaci utili in questa patologia e ne stanno rivoluzionando il trattamento, che tuttora non può però prescindere da altri tipi di intervento in una consistente proporzione di pazienti.

Nonostante una miriade di studi clinici che abbracciano molti decenni, sono possibili solo analisi frammentarie. In effetti, i confronti e le osservazioni della Tabella I derivano principalmente da studi con follow-up di durata molto diversa (da pochi anni a decenni) e nei quali la sequenza dei vari trattamenti era anch’essa variabile. Inoltre, negli studi più vecchi, rituximab e i TPO-RA non erano disponibili. In mancanza di confronti diretti delle diverse strategie globali, i suggerimenti della Tabella II derivano da una valutazione critica delle prove disponibili, in parte soggettiva e pertanto non esente da critiche.

Tabella I. La splenectomia a confronto con rituximab e TPO-RA negli adulti sulla base di una valutazione critica delle evidenze.

 

Tabella II. Indicazione alla splenectomia nell’ITP cronica primaria (o persistente) in pazienti che richiedono un trattamento per l’aumentato rischio di sanguinamento, avendo considerazione anche dei valori e delle preferenze soggettive.

 

In conclusione, il basso tasso di splenectomie nella maggior parte dei paesi occidentali non sembra giustificato dalle evidenze. Secondo l’autore la splenectomia, qualora inizialmente rifiutata, dovrebbe essere rivalutata periodicamente con il paziente, in particolare in mancanza di una risposta duratura ai tentativi di sospensione dei TPO-RA oppure nel caso che questi agenti richiedano di essere somministrati in concomitanza con altri trattamenti non esenti da tossicità come i corticosteroidi, sia pure a basso dosaggio. Il medico curante dovrebbe costruire un’alleanza terapeutica con il paziente, consigliandolo e dando la priorità alle diverse opzioni in base alla loro efficacia e sicurezza, sia pure con la dovuta considerazione per i valori del paziente.

 

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