Piastrinopenia immune: novità dall’ASH 2022

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Il fermento che in questi ultimi anni sta caratterizzando il mondo della piastrinopenia immune (ITP) trova il suo riflesso nelle numerose novità emerse durante il 64° meeting della Società Americana di Ematologia (ASH), che spaziano dalla diagnosi alla terapia, dalla fisiopatologia ai fattori predittivi di risposta, consolidando alcune conoscenze, portando nuove esperienze e lasciandoci molti spunti di riflessione.

Per esempio: possiamo davvero rassicurare un paziente con una moderata piastrinopenia isolata? Gli anticorpi anti-piastrine agiscono soltanto accelerando la fagocitosi oppure, tramite il loro legame, possono alterare la funzionalità delle piastrine, spiegando in tal modo i diversi fenotipi emorragici? Esperienze via via più consistenti emergono a favore del ruolo patogenetico dei linfociti T, che partecipano sia alla lisi diretta delle piastrine circolanti che all’alterata megacariopoiesi, anche se rimane indiscusso il ruolo dei linfociti B e degli anticorpi anti-piastrine, come testimoniato dai promettenti risultati dello studio di fase III con Efgartigimod, un inibitore specifico del recettore neonatale (FcRn) per la porzione costante delle immunoglobuline. L’ITP ha solo a che fare con il rischio emorragico, o dobbiamo iniziare a considerarla una malattia sistemica?

Le risposte a molte di queste domande si trovano nel testo sottostante, oppure consultando il sito https://www.hematology.org/meetings/annual-meeting.

 

Epidemiologia. Uno studio di coorte retrospettivo ha riportato l’outcome a lungo termine di 91 pazienti con lieve piastrinopenia isolata persistente (pazienti con conta piastrinica tra 100.000 e 149.000/mmc). Rispetto a soggetti con conta piastrinica normale, questi avevano un rischio più elevato di sviluppare dopo molti anni una malattia ematologica (30,8% vs 1,9%), nella maggior parte dei casi una ITP, ma anche sindromi mielodisplastiche (MDS), malattie mieloproliferative e linfomi non-Hodgkin, oppure malattie autoimmuni sistemiche (Ayad et al. abs n° 19). Questi risultati, se confermati in studi prospettici, potrebbero far cambiare la gestione dei pazienti con una conta piastrinica che ad oggi viene ancora considerata normale o fisiologica, e che potrebbero invece diventare meritevoli di approfondimento diagnostico o più stretta osservazione. Per pazienti con conta piastrinica < 100.000/mmc la diagnosi differenziale non è di solito complessa, tuttavia questa può diventare problematica in alcuni casi di piastrinopenia isolata senza una chiara evidenza di displasia midollare. In questi casi può essere d’aiuto utilizzare parametri aggiuntivi, come gli indici piastrinici e i livelli sierici di trombopoietina (TPO). I pazienti con ITP infatti, se paragonati ai pazienti con MDS, hanno livelli più alti di IPF (frazione di piastrine immature) e valori più bassi di TPO (Lucchini et al. abs n° 3765).

Nell’iter diagnostico di una piastrinopenia non bisogna dimenticare di testare i pazienti per l’Helicobacter pylori (HP) su feci, sangue o tramite breath test, soprattutto nelle aree endemiche. Infatti la terapia eradicante per HP migliora la conta piastrinica dei pazienti positivi (Siritham et al. abs n°917).

 

Fisiopatologia. Anche il midollo osseo è coinvolto nella patogenesi dell’ITP, verosimilmente come bersaglio di un sistema immunitario disfunzionale. Tramite una particolare tecnica citofluorimetrica (Cytometry by Time of Flight, CyTOF), sono stati analizzati i midolli di 40 pazienti con ITP in 3 diverse fasi della malattia (nuova diagnosi, persistente mai trattata e recidivata) e 10 controlli sani. I monociti e le cellule dendritiche mieloidi erano più rappresentate nei midolli dei pazienti con ITP rispetto ai controlli sani. Inoltre, i pazienti con ITP avevano ridotti livelli di linfociti T CD4+ e CD8+ naïve, mentre era aumentata la proporzione dei linfociti T CD8+ effettori, con un’elevata espressione di molecole co-stimolatorie (CD28 e ICOS) a discapito di molecole co-inibitorie (CTLA-4) (Liu et al. abs n° 914). Questo dimostra che nel midollo dei pazienti con ITP i linfociti T sono attivati, ed è lecito pensare che potrebbero essere attivati proprio contro gli antigeni piastrinici. Infatti, nel sangue periferico dei pazienti con ITP i linfociti T CD8+ TEMRA (terminally differentiated effector memory) si attivano e vanno incontro ad espansione oligoclonale e quando messi in coltura con le piastrine, si legano ad esse e causano attivazione e morte piastrinica (Malik et al. abs n° 915).

Un trattamento diretto contro i linfociti T potrebbe quindi essere efficace? La rapamicina, un inibitore di mTOR, è stata testata sia in vitro che in un modello murino di ITP, e ha dimostrato di inibire l’attività dei linfociti T CD8+, con un parallelo incremento della conta piastrinica (Ni et al. abs n° 3764). Il coinvolgimento dei linfociti T nella patogenesi dell’ITP può essere dimostrato anche indirettamente, studiando le risposte a trattamenti diretti verso il comparto B cellulare. È stato infatti osservato che i pazienti che rispondono alla splenectomia presentano alti livelli di citochine che, come BAFF ed APRIL, sono coinvolte nell’attivazione dei linfociti B, mentre pazienti che non rispondono alla splenectomia presentano un’attivazione dei linfociti T e NK (Li at al. abs n° 916).

Eltrombopag ha un effetto immunomodulatorio sui linfociti T? È stato osservato che eltrombopag sopprime in vitro la proliferazione dei linfociti T, probabilmente per il suo effetto ferrochelante. Anche la deferoxamina, un ferrochelante, induce infatti l’arresto del ciclo cellulare nella fase G1, sebbene in maniera meno potente; questo effetto non si ottiene con il romiplostim o la TPO umana ricombinante, che non esplicano un’attività ferrochelante. Inoltre, aggiungendo ferro ai linfociti T trattati con eltrombopag, si riattiva la loro proliferazione. In vivo, nei pazienti che rispondono a eltrombopag si osserva una riduzione dei linfociti T CD8+, a conferma di un effetto immunomodulatorio del farmaco (Tan et al. abs n° 2451).

 

ITP: rischio emorragico e trombotico. L’ITP è prima di tutto un disordine emorragico, ma è ormai noto che questa patologia si associa anche ad un incrementato rischio trombotico, specie per alcune categorie di pazienti sottoposti a determinati trattamenti. Le trombosi venose sono una complicanza non trascurabile nei pazienti con ITP cronica, riportate in 1,4 su 100 persone/anno. Le trombosi possono verificarsi anche per conte piastriniche molto basse, che non sembrano quindi essere protettive, e nella maggior parte dei casi in pazienti con altri fattori di rischio. Le trombosi arteriose si verificano in 2 su 100 persone/anno, e spesso vengono trattate in maniera non ottimale, probabilmente per le preoccupazioni legate al rischio emorragico. In questi pazienti è fondamentale trattare l’ITP per raggiungere una conta piastrinica tale da permettere l’utilizzo di farmaci antiaggreganti e/o anticoagulanti (Wang et al. abs n° 22, 24). A supporto di ciò, uno studio francese ha dimostrato che l’utilizzo di un solo antiaggregante (l’acido acetilsalicilico) non incrementa il rischio di sanguinamento nei pazienti con ITP, che invece aumenta se si associano due agenti con questa azione (Ollier et al. abs n° 23).

Le manifestazioni emorragiche sono molto eterogenee nei pazienti con ITP: anche a parità di conta piastrinica, la diatesi emorragica è molto variabile. Questa variabilità di fenotipo emorragico può essere legata alla diversa specificità di epitopo degli anticorpi anti-piastrine. Questi anticorpi infatti possono legarsi a diversi siti – epitopi – della glicoproteina espressa sulla membrana piastrinica, e possono alterarne anche la funzionalità. Per esempio, gli anticorpi anti-GPIIb/IIIa che si legano alle porzioni terminali di aIIb aumentano l’espressione della fosfatidilserina, mentre quelli che si legano alla regione bIIIa determinano l’effetto opposto; anticorpi con specificità ancora diverse possono alterare l’adesione e migrazione delle piastrine (Shaver et al. abs n°913). Gli anticorpi anti-piastrine quindi potrebbero non soltanto avere un ruolo fondamentale nella patogenesi dell’ITP, tramite la catena pesante responsabile della clearance delle piastrine, ma essere responsabili di un difetto della funzionalità piastrinica dipendente dalla specificità antigenica della porzione variabile.

Non sempre il sanguinamento nell’ITP è macroscopico, ed anche i micro-sanguinamenti possono risultare pericolosi, specie se apparentemente asintomatici. Uno studio ha analizzato la presenza e l’entità di sanguinamenti microscopici cerebrali nei pazienti pediatrici tramite risonanza magnetica dell’encefalo. Questi sono stati riscontrati in 5/38 bambini con ITP, tutti con malattia cronica. La presenza della micro-emorragia correlava con un più alto bleeding score, mentre non è stata osservata alcuna correlazione con durata dell’ITP, presenza di deterioramento cognitivo, “fatigue” e qualità della vita (Hart et al. abs n°21).

 

L’ITP è solo un problema di emostasi? Le manifestazioni emorragiche non sono l’unico disturbo riferito dai pazienti con ITP. Anche astenia, difficoltà di concentrazione e disturbi della memoria sono sintomi riportati spesso dai pazienti. Disturbi della memoria a lungo termine, ed in particolare della memoria episodica, sono tra quelli riscontrati più frequentemente, e sembrano essere associati ad un più alto bleeding score, un’età più avanzata e un numero più elevato di linee di terapia ricevute (Vladescu et al. abs n° 2447). Anche nei pazienti arruolati allo studio di fase 1/2 con rilzabrutinib sottoposti a test cognitivi, è stata osservata una riduzione delle abilità di apprendimento, memoria ed attenzione (Kuter et al. abs n° 3773). Inoltre, i pazienti con ITP sono affetti da patologie psichiatriche come depressione, ansia e disturbi di tipo ossessivo-compulsivo piú frequentemente rispetto alla popolazione generale (Mannering et al. abs n° 3768).

 

Terapia

Sono stati presentati i risultati dello studio ADVANCE, studio di fase III randomizzato con placebo, che ha valutato l’efficacia e la sicurezza di un inibitore specifico del recettore neonatale delle immunoglobuline (efgartigimod) in pazienti adulti con ITP persistente o cronica. 131 pazienti sono stati randomizzati 2:1 a ricevere efgartigimod per via endovenosa o placebo per 12 settimane. Efgartigimod si è dimostrato superiore in termini di risposta sostenuta (piastrine ≥50.000/mmc in almeno 4 di 6 controlli eseguiti tra la settimana 9 e 24 senza necessità di rescue treatment), che è stata ottenuta nel 22% dei pazienti (vs 5% di quelli trattati con placebo), risposta globale secondo i criteri IWG (51% vs 20%) e rapidità della risposta piastrinica. Non sono emersi nuovi allarmi per quanto riguarda il profilo di sicurezza (Broome et al. abs n°3, presentato in sezione plenaria).

Per quanto riguarda i TPO-mimetici, uno studio retrospettivo spagnolo ha valutato il mantenimento della risposta dopo sospensione della terapia con eltrombopag (75 pazienti) o romiplostim (13 pazienti), che è stato possibile in circa un terzo dei casi, e anche per pazienti che erano passati da un TPO-mimetico all’altro prima di interromperlo (Ramirez Lopez et al. abs n°1127).

Uno studio retrospettivo monocentrico ha valutato l’efficacia della combinazione di eltrombopag e rituximab (69 pazienti) vs eltrombopag in monoterapia (53 pazienti). Nei pazienti trattati con la combinazione è stata osservata una percentuale maggiore di risposta a 12 e 24 settimane (72% vs 54% ae 70% vs 50%) e di mantenimento della risposta dopo sospensione di eltrombopag (25% vs 9%) (Yanmei et al. abs n° 2453).

Uno studio cinese sta valutando l’efficacia della combinazione di eltrombopag e diacereina vs eltrombopag in monoterapia. La diacereina è un farmaco che agisce bloccando l’attività dell’interleuchina-1b e che sembra sensibilizzare i megacariociti al TPO-mimetico. Dai risultati preliminari, i pazienti nel braccio in combinazione hanno tassi più elevati di risposta, durata della risposta e riduzione delle manifestazioni emorragiche (Sun et al. abs n° 3767).

Uno studio retrospettivo ha dimostrato che l’utilizzo precoce di romiplostim (prima della fase cronica), se paragonato ai farmaci immunosoppressori “classici”, permette di raggiungere una conta piastrinica più elevata, con meno episodi emorragici ed interruzione più precoce della terapia steroidea (McDonald et al. abs n° 1128).

Nonostante l’avvento di nuovi farmaci, il loro utilizzo sempre più ampio nella pratica clinica e le allettanti prospettive di combinare agenti che impattino su diversi meccanismi patogenetici, il problema dell’ITP refrattaria, anche se limitato ad una piccola proporzione di pazienti, resta uno degli scenari clinici più difficili, con un alto carico di necessità assistenziale. Dal registro francese CARMEN, che include tutti i casi di ITP diagnosticati dal 2013, sono stati rilevati 32 pazienti (3%) refrattari sia ad eltrombopag che a romiplostim e 24 (2,2%) refrattari ad entrambi i TPO-mimetici e a rituximab. Questo gruppo di pazienti è non solo a più alto rischio emorragico (tutti questi pazienti hanno presentato almeno una manifestazione emorragica), ma anche di infezioni (25-29%), trombosi venose (8-9%) o arteriose (3-4%) e ospedalizzazione (Moulis et al. abs n° 2449).

 

Fattori predittivi di risposta al trattamento. Uno studio su 275 pazienti ha valutato l’impatto dell’indice di massa corporea (BMI) sull’outcome dell’ITP. I pazienti sono stati suddivisi in quattro gruppi in base alla gravità del sovrappeso: quelli con BMI più alto necessitavano più frequentemente di un trattamento, erano più dipendenti dallo steroide e sottoposti a più linee di terapia. Non sono invece state osservate differenze per quanto riguarda l’entità della risposta, il tempo per la risposta, refrattarietà, complicanze trombotiche ed emorragiche (Xiao et al. abs n° 20).

È stato proposto un modello predittivo di risposta ai TPO-mimetici piuttosto che alla terapia steroidea, che includeva alcuni parametri clinici e biologici (sottopopolazioni linfocitarie, citochine, anticorpi anti-piastrine). I livelli basali di TGF-beta1 correlavano positivamente con l’efficacia dei TPO-mimetici, mentre ciò non era vero per i livelli basali di TPO; i livelli di IP-10 risultavano invece buoni predittori di risposta ai corticosteroidi (Xu et al. abs n° 1133).

 

ITP, vaccinazione e COVID-19. Uno studio retrospettivo su 442 pazienti con ITP ha osservato che in 60 pazienti con ITP di nuova diagnosi, 18 casi erano correlati a COVID-19: in 5 pazienti in coincidenza con l’infezione e in 13 pazienti in concomitanza con la vaccinazione. I pazienti con ITP relata al vaccino erano più anziani e rispondevano meno bene alla terapia. Di 382 pazienti con diagnosi nota di ITP, 69 sono recidivati e la causa della recidiva è stata attribuita all’infezione da COVID-19 in un caso e alla vaccinazione in 35 casi (Auteri et al. abs n° 3761). Un altro report non ha notato un più alto tasso di recidiva dell’ITP dopo la vaccinazione per COVID-19, rispetto al tasso di recidiva registrato prima della pandemia (Stefani et al. abs n° 2444). Il tasso di recidiva dell’ITP durante l’infezione da COVID-19 sembra essere basso anche nei bambini e nei giovani adulti affetti da ITP, e spesso la riduzione della conta piastrinica è modesta e transitoria (MacWhirter et al. abs n° 1138).

A cura di:

UCO Ematologia Azienda Sanitaria Universitaria Giuliano Isontina, Ospedale Maggiore, Trieste

Fondazione Progetto Ematologia, affiliata alla Divisione di Ematologia, Ospedale San Bortolo, Vicenza

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