L’aggiunta di anticorpi monoclonali (monoclonal antibodies, mAbs) alle combinazioni standard approvate per il trattamento del mieloma multiplo (MM), sia in prima linea che in quelle successive, ha rivoluzionato l’approccio terapeutico al mieloma stesso (Bonello F et al, 2019). L’inserimento dell’anticorpo monoclonale anti-CD38 nella terapia d’induzione del paziente giovane e candidato a trapianto autologo di cellule staminali, così come la sua combinazione con inibitori del proteasoma (PIs) o immunomodulanti (IMiDs) per i pazienti più anziani, ha dimostrato di incrementare i tassi di risposta, di aumentare la probabilità di raggiungere la negatività alla malattia minima residua (MRD) e di prolungare progression-free survival (PFS) e overall survival (OS) rispetto alle combinazioni standard (Moreau P et al, 2019. Mateos MV et al, 2018. Facon T et al, 2019).
Allo stesso modo, l’aggiunta di un anticorpo diretto contro l’antigene di superficie espresso dalle plasmacellule CD38 (daratumumab) alle combinazioni bortezomib e desametasone, lenalidomide e desametasone e pomalidomide e desametasone, ha significativamente migliorato le performance di tutti questi regimi, anche nei pazienti già sottoposti a precedenti linee di terapia (Dimopoulos MA et al, 2016. Palumbo A, et al, 2016. Spencer A et al, 2018. Attal M et al, 2019). Tali risultati hanno pertanto condotto all’approvazione, da parte della Food & Drug Administration (FDA) statunitense e della European Medicine Agency (EMA), dei regimi daratumumab, lenalidomide e desametasone (DRd), daratumumab, bortezomib e desametasone (DVd), e isatuximab, pomalidomide e desametasone (Isa-Pd).
mAbs, anticorpi coniugati con agenti citotossici (antibody-drug conjugates, ADCs,) e anticorpi bispecifici rappresentano quindi già oggi, e ancor più nel futuro, la base delle prossime strategie terapeutiche nell’ambito del MM.
Al 25° congresso EHA 2020, Philippe Moreau et al. hanno presentato come late-breaking abstract i risultati di un altro importante studio di fase III che ha confermato come l’aggiunta del mAb anti-CD38 alla combinazione carfilzomib-desametasone (Kd, già approvata per il paziente con MM recidivato-refrattario, RRMM) migliori risposte e PFS rispetto alla doppietta Kd.
Moreau P et al. EHA25 Virtual Congress:LB2603.
Lo studio IKEMA ha arruolato pazienti affetti da RRMM sottoposti a 1-3 linee di trattamento precedenti, randomizzati a ricevere carfilzomib (20 mg/m2 nei giorni 1, 2 e 56 mg/m2 nei giorni 8, 9, 15, 16 del primo ciclo; 56 mg/m2 nei giorni 1, 2, 8, 9, 15, 16 dei cicli successivi) e desametasone (nei giorni 1, 2, 8, 9, 15, 16, 22, 23) oppure carfilzomib, desametasone e isatuximab (10 mg/kg nei giorni 1, 8, 15, 22 del primo ciclo; nei giorni 1 e 15 dal ciclo 2 in avanti) in cicli di 28 giorni fino a progressione o intolleranza. L’endpoint primario dello studio era la PFS, mentre tra gli endpoint secondari figuravano l’overall response rate, (ORR), il rate di very good partial response (VGPR) e la MRD.
302 pazienti (età mediana: 63-65 anni), con una mediana di 2 precedenti linee di terapia (93%/85% esposti a PI; 76%/81% esposti a IMiD, di cui il 30% circa refrattari a lenalidomide; Isa-Kd vs. Kd), sono stati randomizzati a ricevere Isa-Kd o Kd. L’aggiunta di isatuximab a Kd ha ridotto del 47% il rischio di progressione o morte rispetto a Kd (PFS mediana non raggiunta con Isa-Kd vs. 19,15 mesi con Kd; HR: 0,531; p=0,0007). Tale beneficio di PFS si è mantenuto in tutti i sottogruppi di pazienti analizzati, indipendentemente dall’età (>65 anni, HR: 0,429), dal numero di terapie precedenti (1, HR: 0,589; >1, HR: 0,479), dall’esposizione precedente ai PIs (HR: 0,565) o agli IMiDs (HR: 0,498), dall’alto rischio citogenetico (high risk, HR: 0,724) o dallo stadio (International Staging System I, HR: 0,592; III, HR: 0,650).
Nonostante tassi di risposte globali simili nei due bracci (ORR, 86,6% vs. 82,9%; p=0,19), i pazienti nel braccio Isa-Kd hanno ottenuto tassi di risposta migliore o uguale a VGPR (72,6% vs. 56,1%; p=0,0011) e migliore o uguale a una risposta completa (CR, 39,7% vs. 27,6%) superiori rispetto ai pazienti del braccio Kd. I tassi di MRD negatività sono risultati significativamente maggiori nei pazienti che hanno ricevuto Isa-Kd rispetto a Kd, sia nell’analisi in intention-to-treat (29,6% vs. 13%; p=0,0004) sia nei soli pazienti che hanno raggiunto almeno una VGPR (41,4% vs. 22,9%). Il follow-up ancora troppo breve (20,7 mesi) non ha permesso d’individuare al data cutoff differenze in termini di OS tra i due bracci di trattamento.
In termini di sicurezza e tollerabilità, l’aggiunta di isatuximab alla combinazione Kd ha indotto un incremento delle tossicità di grado 3-4 rispetto a Kd (76,8% vs. 67,2%), in particolare in termini di neutropenia (19% vs 7,4%), di infezioni delle alte vie respiratorie (24% vs 2%) e di polmoniti (20% vs. 12%). Tuttavia, il tasso di eventi avversi seri (SAEs, 25% in entrambi i bracci) è risultato simile con le due combinazioni, così come non è stato osservato un aumento del rischio d’interruzione del trattamento per tossicità nel braccio sperimentale (8,5% vs. 13,3%). Nel 44,6% dei pazienti trattati con isatuximab si è verificata, come tipicamente accade con i mAbs, una reazione infusionale, per lo più di grado lieve, mentre rare sono state le reazioni infusionali severe (grado 3-4: 0,6%).
Gli autori dello studio concludono quindi affermando che l’aggiunta di isatuximab a Kd ha ridotto del 47% il rischio di progressione o morte in pazienti con RRMM rispetto alla combinazione standard Kd. Tale beneficio è stato osservato in tutte le sottopopolazioni studiate e ha altresì incrementato le probabilità di raggiungimento della MRD negatività (30% vs. 13%), a fronte di un aumento del rischio di neutropenia e infezioni che non ha impattato sfavorevolmente sull’efficacia della tripletta.
Bibliografia
Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute, Università degli Studi di Torino, SC Ematologia U, AOU Città della Salute e della Scienza di Torino
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