Mieloma Multiplo

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INTRODUZIONE

Il mieloma multiplo (MM) ĆØ una patologia neoplastica coinvolgente plasmacellule che proliferano, si espandono a livello del midollo emopoietico e sono causa delle tipiche multiple lesioni osteolitiche. Le plasmacellule monoclonali producono immunoglobuline, identiche tra loro, che migrando in modo omogeneo al quadro proteico elettroforetico formano il caratteristico picco monoclonale. Il quadro clinico del MM ĆØ caratterizzato da dolore osseo, danno renale, astenia correlata all’anemia e infezioni. Il MM ĆØ attualmente considerato una patologia inguaribile, con una sopravvivenza, prima dell’avvento dell’era dei nuovi farmaci, non superiore ai 3 anni. Nelle ultime due decadi, l’introduzione di nuovi farmaci ha profondamente incrementato la qualitĆ  della risposta alle terapie, la durata della remissione, la qualitĆ  della vita ed in ultimo la sopravvivenza del paziente affetto da MM. Tra i nuovi farmaci si annoverano la talidomide ed i suoi analoghi di seconda e terza generazione, la lenalidomide e la pomalidomide, che agiscono sul clone plasmacellulare tramite vari meccanismi d’azione, tra cui la citotossicitĆ  diretta, l’effetto anti-angiogenetico e l’immunitĆ  anti-tumorale; gli inibitori del proteasoma come il bortezomib ed il carfilzomib, che interrompono la degradazione delle proteine e risultano specificamente citotossici per le plasmacellule neoplastiche. Recentemente anche nella cura del mieloma sono stati sperimentati anticorpi monoclonali diretti verso antigeni di superfice come elotuzumab (anti-CS1) e daratumumab (anti-CD38) e grande attenzione ĆØ rivolta a farmaci ad azione sempre più mirata nei confronti delle plasmacellule neoplastiche.

 

DEFINIZIONE

Il mieloma multiplo (MM) ĆØ una patologia neoplastica avente origine da plasmacellule monoclonali che proliferano e si espandono al livello del midollo emopoietico, provocando un danno all’organismo. Le plasmacellule monoclonali producono la cosiddetta componente monoclonale, costituita da immunoglobuline identiche tra loro che migrano in modo omogeneo al quadro proteico elettroforetico e formano cosƬ il caratteristico picco monoclonale. Il quadro clinico del MM ĆØ caratterizzato da una serie di sintomi, che sono espressione del danno d’organo determinato sia dalla proliferazione delle plasmacellule e dalla loro interazione con l’ambiente circostante sia dalla produzione di immunoglobuline, intere e frazionate. I caratteristici sintomi del mieloma multiplo sono: il dolore osseo correlato a patologiche anomalie ossee, il danno renale legato all’aumentata produzione di immunoglobuline o a frazioni di esse, la marcata astenia dovuta all’anemia e le infezioni.

Il MM ĆØ attualmente considerato una patologia curabile, ma inguaribile. Tuttavia, il quadro delle prospettive di vita e di cura del paziente affetto da MM ĆØ drasticamente cambiato negli ultimi due decenni. Infatti, sino alla fine dello scorso millennio, la terapia del mieloma si basava sull’utilizzo di chemioterapici convenzionali, con intensitĆ  differente nei pazienti giovani e candidabili a trapianto di cellule staminali autologhe, e nei pazienti anziani, per i quali il melfalan ed il cortisone erano il trattamento standard. La sopravvivenza di questi pazienti era mediamente non superiore ai 3-5 anni. Diversamente, nelle ultime due decadi, l’introduzione di nuovi farmaci e l’adozione di differenti strategie di trattamento hanno profondamente incrementato la qualitĆ  della risposta alle terapie, la durata della remissione, la qualitĆ  della vita ed in ultimo la sopravvivenza del paziente affetto da MM (Approfondimento: I nuovi farmaci nel Mieloma Multiplo ).

Tra i nuovi farmaci si annoverano la talidomide e i suoi analoghi di seconda e terza generazione, la lenalidomide e la pomalidomide. Questi farmaci agiscono sul clone plasmacellulare tramite vari meccanismi d’azione, tra cui possiamo ricordare la citotossicitĆ  diretta, l’effetto anti-angiogenico e l’immunitĆ  anti-tumorale. Inoltre, ĆØ necessario ricordare gli inibitori del proteasoma come il bortezomib e il carfilzomib, che interrompono la degradazione delle proteine e risultano specificamente citotossici per le plasmacellule neoplastiche. Recentemente, anche nella cura del mieloma sono stati introdotti, sperimentati e infine approvati anticorpi monoclonali diretti verso antigeni di superficie, come ad esempio l’elotuzumab (anti-CS1) e il daratumumab (anti-CD38). Inoltre, grande attenzione ĆØ rivolta a farmaci ad azione sempre più selettiva nei confronti delle plasmacellule neoplastiche.

 

EPIDEMIOLOGIA

Il MM rappresenta circa l’1-2% di tutte le neoplasie e circa il 10% di quelle ematologiche (Kristinsson SY et al, 2007; Palumbo A e Anderson K, 2011); la sua incidenza negli Stati Uniti d’America ĆØ pari a 6,6 casi ogni 100.000 abitanti. Il MM ĆØ una neoplasia caratteristica dei soggetti anziani, con un’etĆ  mediana alla diagnosi di circa 70 anni: circa il 30% dei pazienti ha più di 75 anni alla diagnosi e meno del 10% un’etĆ  compresa fra 20 e 40 anni. Le cause dell’insorgenza del mieloma sono ancora largamente sconosciute; ĆØ possibile che fattori predisponenti genetici e la loro interazione con l’ambiente giochino un ruolo nello sviluppo della patologia. Un agente eziologico certo ĆØ rappresentato dall’esposizione alle radiazioni ionizzanti. Un altro fattore di rischio correlato a un maggior rischio di sviluppare il MM ĆØ l’esposizione a pesticidi, metalli pesanti, fumo di sigaretta e alcool. Infine, sono descritti in letteratura casi familiari.

Nella maggior parte dei pazienti l’insorgenza della malattia nella sua forma sintomatica (MM attivo o sintomatico) ĆØ preceduta da una fase di ā€œgammopatia monoclonale di incerto significatoā€ (MGUS) (Approfondimento: MGUS ) e da una fase di ā€œmieloma multiplo indolenteā€ o “smouldering” (Approfondimento: SMM ). Queste fasi sono entrambe asintomatiche e pertanto spesso non clinicamente evidenziate.

 

PATOGENESI

Il mieloma deriva da una trasformazione neoplastica che avviene a livello della linea B linfocitaria. Modificazioni genetiche e interazioni con il microambiente midollare sono responsabili della proliferazione neoplastica. La trasformazione neoplastica si verifica a livello di cellule B del centro post-germinativo, ossia nelle fasi terminali della maturazione e differenziazione delle cellule B, coinvolgendo con buona probabilitĆ  una cellula B memoria o un plasmablasto. Il livello della trasformazione ĆØ supportato principalmente dall’identificazione di mutazioni nella regione variabile dei geni delle immunoglobuline. Tali mutazioni sono segnale del transito delle cellule coinvolte nel centro germinativo, mentre quelle somatiche riflettono la pressione selettiva dell’antigene.

Le alterazioni genetiche implicate nella patogenesi del mieloma sono complesse e sono state riconosciute delle anomalie genetiche primarie e secondarie (prevalentemente traslocazioni). Le traslocazioni primarie coinvolgono la regione 14q32 (IgH) delle immunoglobuline nel 40-50% dei pazienti e sono comuni al mieloma e alle gammopatie monoclonali di incerto significato (Hideshima T, 2007).Ā Queste lesioni sono quindi indispensabili per lo sviluppo della gammopatia, mentre occorre un secondo evento (ā€œsecond hitā€) per l’evoluzione neoplastica. Le lesioni secondarie compaiono quindi con la progressione della malattia e comprendono la perdita del cromosoma 13, mutazioni attivanti gli oncogeni NRAS e KRAS, mutazioni inattivanti o delezioni di p53 e l’inattivazione di PTEN (Kuehl WM e Bergsagel PL, 2002; Bersagel PL e Kuehl WM, 2005).

I pazienti affetti da MM possono essere suddivisi in gruppi che presentano cloni plasmacellulari iperdiploidi e non-iperdiploidi, a seconda del corredo cromosomico delle plasmacellule monoclonali. Sulla base dell’iper- o ipo-diploidia e delle traslocazioni cromosomiche che coinvolgono la regione 14q32, si possono identificare sottogruppi differenti di pazienti a diversa prognosi (Avet-Loiseau H et al, 2007a). Le caratteristiche cromosomiche/genomiche dei pazienti possono quindi essere utilizzate come parametri prognostici: le traslocazioni t(4;14), t(14;16) o la delezione del braccio corto del cromosoma 17 sono correlate a una ridotta sopravvivenza. Ad oggi, tuttavia, la caratterizzazione cromosomica della malattia non corrisponde ancora a specifici approcci terapeutici standardizzati, sebbene inizino a emergere dati circa l’efficacia di specifici farmaci in pazienti con plasmacellule con mutazioni specifiche.

Il processo di tumorigenesi lineare, caratterizzato dalla progressiva acquisizione di mutazioni differenti che conferiscono un vantaggio selettivo al clone neoplastico, viene oggi messo in discussione da studi genetici condotti sulle plasmacellule monoclonali in fasi diverse della malattia. Infatti, secondo la nuova teoria dell’evoluzione clonale (Approfondimento:Evoluzione clonale ), coesisterebbero all’interno dello stesso paziente cloni di plasmacellule genotipicamente differenti tra loro, il cui rapporto ed equilibrio sono responsabili della storia naturale della malattia (Bahlis NJ, 2012).

Il microambiente midollare ĆØ fondamentale per lo sviluppo delle plasmacellule monoclonali. L’adesione delle plasmacellule alle cellule emopoietiche induce la secrezione di citochine e fattori di crescita (interleukina-6, fattore di crescita dell’endotelio vascolare, fattore di crescita insulino-simile IGF-1), con la creazione di circuiti autocrini e paracrini che supportano la crescita plasmacellulare. Inoltre, l’adesione delle plasmacellule alle proteine della matrice extracellulare induce la produzione di proteine che regolano il ciclo cellulare e di proteine anti-apoptotiche.

Le lesioni osteolitiche tipiche del mieloma sono il prodotto di uno squilibrio fra la produzione di osso da parte degli osteoblasti e la distruzione da parte degli osteoclasti. L’aumento di attivitĆ  degli osteoclasti osservabile in pazienti affetti da MM ĆØ dovuto a uno sbilanciamento fra il ā€œreceptor activator of nuclear factor kBā€ (RANK) e l’osteoprotegerina (OPG) provocato a sua volta da un aumento della produzione di RANK ligand (RANKL) e da una ridotta produzione di osteoprotegerina. Il danno stromale ĆØ cosƬ rilevante che raramente si osserva una ricostruzione dell’osso anche in pazienti in remissione completa (Roodman GD, 2009).

 

MGUS, SMM E MM: CRITERI DIAGNOSTICI

PressochĆ© tutti i casi di mieloma sono preceduti da due fasi clinicamente silenti, quella di MGUS e la sua evoluzione in MM smouldering (asintomatico, SMM), che esita infine nella forma sintomatica del MM, caratterizzata dalla comparsa di un danno d’organo correlato alla proliferazione delle cellule di mieloma o alla loro produzione della paraproteina monoclonale (Landgren O et al, 2009; Weiss BM et al, 2009). Il fatto che molti pazienti ricevano una diagnosi di MM senza un precedente riscontro di MGUS o SMM si deve dunque all’assenza di segni o sintomi clinici che caratterizza questi quadri clinici che precedono l’evoluzione a MM sintomatico.

L’incidenza di MGUS nella popolazione generale ĆØ pari a circa il 3%, con un tasso di evoluzione a MM sintomatico che si mantiene costante nel tempo ed ĆØ pari a circa l’1% annuo. Al contrario, la probabilitĆ  di evoluzione del mieloma da asintomatico a sintomatico cala nel tempo: infatti essa ĆØ pari al 5% annuo nei primi 5 anni dalla diagnosi, per diminuire poi al 3% nei 5 anni successivi e ridursi quindi all’1,5% dopo 10 anni.

Nella Tabella I sono definiti i criteri diagnostici di MGUS, SMM e MM.

 

Tabella I. Criteri diagnostici per MGUS, SMM, MM e Plasmocitoma (Rajkumar SV et al, 2014)

 

Si definisce MGUS la presenza di una componente monoclonale sierica (IgA o IgG) inferiore a 3 g/dl o urinaria (proteinuria di Bence–Jones) inferiore a 0,5 g/die in associazione a una percentuale di plasmacellule monoclonali midollari inferiore al 10%.

La diagnosi di MM, invece, si basa sull’evidenza di almeno il 10% di plasmacellule monoclonali a livello midollare. La presenza o meno di segni o sintomi evocativi di un danno d’organo correlato alla proliferazione delle plasmacellule midollari costituisce la discriminante per definire il MM asintomatico o sintomatico.

Il mieloma multiplo smouldering (asintomatico o indolente) ĆØ un quadro clinico caratterizzato dalla presenza di almeno il 10% plasmacellule monoclonali a livello del midollo (o di una componente monoclonale sierica > 3 gr/dl o urinaria > 500 mg/die) in assenza di segni o sintomi di danno d’organo correlato alla patologia proliferativa. Biologicamente, il SMM ĆØ una patologia eterogenea: esso infatti può presentare caratteristiche simili a quelle descritte nei casi di MGUS, avendo un decorso clinico realmente indolente; oppure caratteristiche simili a quelle che si osservano nei pazienti con MM sintomatico, con una maggiore probabilitĆ  di progressione clinica. Tale quadro clinico viene quindi distinto dai quadri di MGUS innanzitutto per il rischio di progressione a MM: nel primo caso infatti tale rischio ĆØ pari al 10% annuo, nel secondo ĆØ pari invece al 1% annuo. In uno studio condotto sul registro svedese del mieloma, il 14% di pazienti con diagnosi di MM era classificato come SMM (Kristinsson SY et al, 2013).

Sino alla fine del 2014, la diagnosi di MM sintomatico richiedeva quindi la presenza di almeno il 10% di plasmacellule monoclonali midollari (o una componente monoclonale sierica ≄ 3 gr/dl), accompagnata dalla presenza di almeno uno tra i segni o sintomi di danno d’organo correlati al mieloma e comunemente rappresentati (e riassunti) dall’acronimo CRAB: ipercalcemia, insufficienza renale, anemia e lesioni ossee (ā€œbone lesionsā€). Nel novembre 2014, tuttavia, l’International Myeloma Working Group (IMWG) ha pubblicato nuove linee-guida in merito ai nuovi criteri diagnostici per il mieloma. Le novitĆ  sostanziali introdotte sono due: una migliore definizione dei criteri CRAB e l’introduzione di tre ulteriori fattori che concorrono a definire il MM come patologia attiva.
Per ciò che attiene alla precisazione dei criteri CRAB, sono due le modifiche apportate:

  • la definizione d’insufficienza renale ĆØ stata perfezionata e, accanto a un valore di creatininemia > 2 mg/dl, ĆØ stato aggiunto un valore di clearance della creatinina < 40 /ml;
  • nella valutazione delle lesioni ossee, sono state aggiunte alla radiografia convenzionale la tomografia computerizzata (TC) e la tomografia ad emissione di positroni (PET-TC).

Per ciò che concerne i criteri di sintomaticitĆ  del mieloma, l’IMWG ha introdotto, accanto ai noti criteri CRAB, tre nuovi myeloma defining events (MDE), ossia quegli elementi clinico-laboratoristici in presenza dei quali si può definire il mieloma come sintomatico e pertanto meritevole di trattamento (Tabella II):

  • ≄60% di plasmacellule monoclonali midollari;
  • rapporto tra catene leggere libere sieriche kappa e lambda (catena coinvolta / catena non coinvolta) > 100 (la catena coinvolta deve essere presente in misura superiore a 100 mg/L);
  • ≄ 1 lesione focale in RMN.

 

Tabella II: Criteri per la diagnosi di mieloma multiplo sintomatico

 

Il motivo dell’aggiunta di questi tre criteri nella definizione di MM sintomatico risiede nel loro valore prognostico. Sono stati infatti identificati determinati parametri, riportati sopra, che circoscrivono una frazione dei pazienti affetti da SMM definiti ad alto rischio di evoluzione a MM, evoluzione pari a circa il 40% annuo e quindi significativamente maggiore rispetto al 10% comunemente riportato nei pazienti con SMM, per i quali si ritiene, anche alla luce dei recenti sviluppi farmacologici, che sia necessario instaurare un trattamento atto a prevenire una pressochĆ© certa evoluzione del mieloma da asintomatico a sintomatico, prevenendo al tempo stesso le comorbiditĆ  che tale evoluzione reca seco.

 

Invasione midollare da parte di plasmacellule monoclonali ≄60%

Uno studio della Mayo Clinic, condotto su una coorte di pazienti affetti da SMM diagnosticato tra il 1996 e il 2010, ha descritto una sotto-popolazione pari al 3% di pazienti con un’invasione midollare da parte di plasmacellule monoclonali superiore o uguale al 60%. A 2 anni, nel 95% di questi pazienti si ĆØ assistito a una progressione di mieloma da smouldering asintomatico, con un tempo mediano di progressione di circa 7 mesi (Rajkumar SV et al, 2011). Un secondo studio ha confermato i dati riportati da Rajkumar et al.: in un gruppo di 96 pazienti affetti da SMM, per coloro i quali presentavano una quota plasmacellulare ≄60% il tempo mediano di progressione a mieloma sintomatico era pari a 15 mesi (Kastritis E et al, 2013).

 

Rapporto tra catene leggere libere sieriche ≄ 100

Il normale rapporto tra catene leggere libere kappa e lambda (K/L) misurabili nel siero ĆØ compreso tra 0,26 e 1,65; la presenza di una popolazione plasmacellulare monoclonale esprimente una delle due catene K/L porta a un inevitabile sbilanciamento nel rapporto tra le due. In passato, ĆØ stato riportato dal gruppo della Mayo Clinic che un rapporto K/L sbilanciato, con un ratio maggiore di almeno 8 volte, ĆØ associato a un rischio di progressione di SMM a MM sintomatico pari al 40% nei primi due anni (Dispenzieri A et al, 2008).Ā Larsen et al., in una popolazione di 586 pazienti con SMM, hanno quindi definito che un rapporto tra la catena leggera libera sierica coinvolta e quella non coinvolta ≄ 100, con una concentrazione sierica della catena leggera coinvolta ≄100 mg/L, ĆØ predittivo di una progressione a MM sintomatico o amiloidosi entro 2 anni nel 82% dei pazienti. Inoltre, il 27% dei pazienti con un rapporto tra catene leggere ≄100 ha sviluppato un quadro di insufficienza renale acuta come danno d’organo correlato alla progressione di mieloma (Larsen JT et al, 2013). Questi dati sono stati confermati da Kastritis et al.: su 96 pazienti affetti da SMM, il 7% di essi presentava un rapporto tra catene leggere libere ≄100 e la quasi totalitĆ  ĆØ andata incontro a una progressione entro 18 mesi dalla prima osservazione (Kastritis E et al, 2013).

 

Lesioni focali in RMN >1 (> 5 mm)

Nella stadiazione e nel follow-up del mieloma, sia esso smouldering o attivo, la risonanza magnetica nucleare (RMN) riveste un ruolo fondamentale. In RMN si possono evidenziare sia anomalie diffuse che lesioni focali. Hillengass et al. hanno applicato la metodica della RMN whole-body a 196 pazienti con SMM, evidenziando lesioni focali nel 28% dei casi (Hillengass J et al, 2010). Il 15% dei pazienti esaminati ha presentato > 1 lesione focale; in questo gruppo di pazienti il tempo mediano di progressione ĆØ risultato pari a 13 mesi, con un 70% di pazienti progrediti a 2 anni. A conferma di questi dati, Kastritis et al. hanno pubblicato un’analisi condotta su un gruppo di 65 pazienti con SMM: nel 14% era stata evidenziata >1 lesione in RMN. A 2 e 3 anni, il tasso di progressione a MM sintomatico era pari a 69% e 85%, rispettivamente (tempo mediano di progressione: 15 mesi). Nei pazienti con una o nessuna lesione focale, invece, il tempo mediano di progressione eccedeva i 5 anni (Kastritis E et al, 2014).

 

Diagnostica del mieloma multiplo

  • Esame fisico
  • Esami ematici per: emocromo con formula, striscio di sangue periferico e tipizzazione su sangue periferico per la ricerca di plasmacellule circolanti, esami di funzionalitĆ  renale ed epatica, calcio sierico, vitamina D, LDH, proteine sieriche totali, elettroforesi delle proteine sieriche, dosaggio delle immunoglobuline, dosaggio delle catene leggere libere sieriche, immunofissazione sierica, albumina, beta-2-microglobulina.
  • Esame urine: dosaggio della proteinuria delle 24 ore, ricerca e dosaggio della proteinuria di Bence-Jones su urine delle 24 ore, immunofissazione urinaria.
  • Indagine midollare: aspirato di sangue midollare per esame microscopico, tipizzazione, analisi citogenetica e FISH. Biopsia osteomidollare per analisi morfologica ed immunoistochimica.
  • Indagini radiologiche: Whole-body low-dose (WBLD)-CT; PET-CT; MRI (whole-body o colonna in toto + bacino); se non disponibili, Rx sistematica scheletrica.

 

ESAMI DI STADIAZIONE, STRUMENTALI E DI LABORATORIO

Esami su siero e urine

Per un corretto inquadramento della malattia occorre eseguire specifici test per definire la qualitĆ  e la quantitĆ  della componente monoclonale, sia sul siero che sulle urine. ƈ quindi necessario eseguire: quadro proteico elettroforetico su proteine sieriche, dosaggio delle immunoglobuline sieriche (IgA, IgG, IgM), immunofissazione su siero e urine e dosaggio della proteinuria e della proteinuria di Bence–Jones su urine delle 24 ore (Kyle RA, 2009).

Il dosaggio delle catene leggere libere ĆØ consigliato in ogni paziente con disordine plasmacellulare alla diagnosi, in particolare nei pazienti con: a) mieloma non secernente (assenza di componente monoclonale, 3% di tutti i pazienti con mieloma secondo i dati pubblicati dal gruppo della Mayo Clinic) (Kyle RA et al, 2003); b) piccole quantitĆ  di componente monoclonale (mieloma oligosecernente); c) mieloma secernente solo catene leggere (Dispenzieri A, 2009).

A completamento diagnostico, ĆØ necessario dosare alla diagnosi: emocromo con formula, funzionalitĆ  epatica e renale (creatinina sierica e urea), calcemia sierica, livelli di lattico deidrogenasi (LDH), beta-2-microglobulina – che riflette la ā€˜quantità’ o ā€œburdenā€ di malattia – e l’albumina sierica.

 

Esame midollare

La presenza di plasmacellule a livello midollare ĆØ confermata mediante aspirato midollare e biopsia ossea. La percentuale di plasmacellule può essere misurata con precisione mediante l’uso di anticorpi anti-CD138, mentre la clonalitĆ  può essere valutata mediante l’identificazione della catena leggera a livello citoplasmatico. Inoltre, ĆØ necessario eseguire la ā€œfluorescent in situ hybridizationā€ (FISH) per la valutazione dell’assetto cromosomico delle plasmacellule in esame (preferibilmente purificate), avvalendosi di sonde per la ricerca delle seguenti alterazioni cromosomiche: del17p13, del13, t(4;14), t(14;16), t(11;14) e amplificazione del cromosoma 1q (Avet-Loiseau H, 2007b; Anderson KC et al, 2016). L’analisi convenzionale del cariotipo fornisce invece ulteriori informazioni sulla ploidia delle plasmacellule.

 

Esami radiologici

Il coinvolgimento osseo ĆØ una caratteristica frequente dei pazienti con mieloma, tra i quali circa il 70-80% presenta lesioni osteolitiche alla diagnosi (Terpos E et al, 2014). Il principale esame per la rilevazione di lesioni ossee ĆØ rappresentato dalla radiografia convenzionale estesa a tutto lo scheletro (sistematica scheletrica). Le lesioni osteolitiche rilevabili mediante Rx hanno il classico aspetto litico, in assenza di orletto sclerotico; le lesioni si localizzano preferenzialmente a livello della colonna vertebrale, delle coste, del cranio e del bacino (Terpos E, 2011). Tuttavia, negli ultimi anni, alla Rx sistematica si sono affiancate metodiche radiologiche differenti che hanno dimostrato una maggiore sensibilitĆ  nell’identificare la presenza di malattia ossea: TAC total-body a bassa intensitĆ  (WBLD-CT), PET-CT e RMN. Tali metodiche sono state pertanto incluse nei nuovi criteri diagnostici del mieloma pubblicati nel 2014 come tecniche di rilevazione di coinvolgimento osseo da parte di mieloma (Rajkumar SV et al, 2014).

 

WBLD-CT

La WBLD-CT permette una valutazione globale dello scheletro nella ricerca di lesioni osteolitiche; tale esame non richiede alcun mezzo di contrasto e permette di somministrare al paziente una dose totale di radiazione inferiore di 2-3 volte a quella di una TC convenzionale. Numerosi studi hanno dimostrato che la capacitĆ  di rilevare lesioni litiche della WBLD-CT ĆØ superiore a quella della radiografia convenzionale (Pianko MJ et al, 2014; Gleeson et al, 2009; Princewill et al, 2013).

Tale caratteristica può potenzialmente modificare in maniera clinicamente significativa la definizione che viene assegnata al mieloma alla diagnosi, ossia la differenza tra smouldering e attivo. In uno studio retrospettivo, il 61% dei pazienti con una Rx sistematica negativa presentava più di una lesione alla WBLD-CT (Princewill K et al, 2013). La maggiore sensibilitĆ  della WBLD-CT ĆØ stata inoltre confermata in uno studio prospettico in pazienti alla diagnosi (Wolf MB et al, 2014). I vantaggi di questa metodica sono pertanto la maggiore sensibilitĆ  nel rilevare lesioni litiche (in particolare a livello della colonna e del bacino), la migliore definizione di fratture patologiche e lesioni instabili e la maggiore velocitĆ  d’esecuzione. Viceversa, i limiti sono costituiti da una dose di radiazione (3,6 mSv per le femmine e 2,8 mSv per i maschi) superiore rispetto alla Rx sistematica (1,2) e dal maggiore tempo necessario per la refertazione da parte del radiologo (Borggrefe J et al, 2015). Per tali motivi, la WBLD-CT viene raccomandata come metodica alternativa alla radiografia scheletrica convenzionale (Terpos E et al, 2015).

 

RMN

Diversamente da quanto accade con Rx e TC, le quali sono in grado di rilevare la distruzione ossea determinata dall’invasione delle plasmacellule, la RMN evidenzia invece l’infiltrazione midollare da parte delle cellule di mieloma. In ordine di frequenza, sono 5 i pattern d’invasione midollare descritti in RMN: 1) lesioni focali di diametro > 5 mm; 2) invasione diffusa con totale sostituzione del tessuto midollare normale; 3) pattern misto con lesioni focali e invasione diffusa; 4) midollo normale; 5) pattern a sale e pepe con innumerevoli minute lesioni focali (Dimopoulos M et al, 2009b; Terpos E et al, 2011; Dimopoulos M et al, 2015).
Dati preliminari suggeriscono che la tipologia del pattern di presentazione in RMN nei pazienti con mieloma alla diagnosi costituisca un fattore prognostico indipendente (i.e. pattern d’infiltrazione diffusa, elevato numero di lesioni focali) (Song MK et al, 2014; Usmani SZ et al, 2013).

ƈ stato dimostrato che la RMN ĆØ superiore alla radiografia sistematica scheletrica nel rilevare il coinvolgimento osseo in pazienti affetti da mieloma, in particolare nell’individuare le lesioni allo scheletro assile (Dimopoulos M et al, 2009b; Terpos E et al, 2011; Dimopoulos M et al, 2015). Questa elevata sensibilitĆ  ha condotto all’utilizzo della RMN per discriminare tra mieloma smouldering e mieloma sintomatico. ƈ stato infatti riportato come circa il 40-50% dei pazienti con esame radiografico negativo presentasse invece anomalie in RMN (Moulopoulos LA et al, 1995). Due studi hanno inoltre dimostrato che i pazienti con mieloma definito smouldering con più di 1 lesione focale in RMN avevano un tasso di progressione a mieloma sintomatico del 70% circa secondo i vecchi criteri CRAB, con un tempo mediano alla progressione di 15 e 17 mesi, rispettivamente (Hillengass J et al, 2010; Kastritis E et al, 2014).

La RMN riveste quindi un ruolo fondamentale nella stadiazione del paziente con SMM per una corretta definizione clinica; nella stadiazione del paziente con nuova diagnosi di mieloma sintomatico, specialmente laddove ĆØ presente un esame radiografico convenzionale negativo per coinvolgimento osseo; cosƬ come nella stadiazione dei pazienti affetti da plasmocitoma osseo solitario. Inoltre, la RMN rappresenta un esame fondamentale sia per discriminare tra cedimenti vertebrali su base osteoporotica o correlati al mieloma, sia per descrivere con precisione la compressione del midollo o delle radici nervose, risvolto essenziale per un eventuale approccio chirurgico. Il ruolo della RMN nel follow-up del paziente e nella definizione della risposta ossea alla terapia ĆØ invece ancora oggetto di studio e dibattito. Una nuova metodica, la Diffusion Weighted Imaging (DWI) RMN, basata sullo studio della diversa diffusibilitĆ  delle molecole di acqua nei tessuti esaminati, ĆØ oggetto di studio sia per ciò che concerne la rilevazione dell’infiltrazione midollare mielomatosa sia per ciò che riguarda il monitoraggio della risposta alla terapia.

 

PET-CT

La PET-CT ĆØ un esame strumentale che combina l’identificazione di lesioni ossee mediante TC con la valutazione funzionale dell’attivitĆ  metabolica delle cellule tumorali. In primo luogo, la PET-CT ha dimostrato d’essere utile nella stadiazione del mieloma, avendo maggiore sensibilitĆ  della radiografia convenzionale nell’identificazione di lesioni osteolitiche. In secondo luogo, la PET-CT si ĆØ rivelata efficace nell’identificazione della malattia extramidollare sia come fattore predittivo dell’evoluzione delle forme asintomatiche in mieloma sintomatico, sia come fattore prognostico in corso di terapia (Tirumani SH et al, 2016).

In uno studio condotto su 188 pazienti con SMM, il 39% presentava una PET-CT positiva, con un tasso di progressione a mieloma sintomatico a 2 anni pari al 75% rispetto al 30% dei pazienti con PET-CT negativa. In un altro studio, condotto su pazienti con mieloma precedentemente definito asintomatico, il 16% dei pazienti con radiografia sistematica scheletrica negativa per lesioni osteolitiche presentava una PET-CT positiva: il tempo mediano di progressione a mieloma sintomatico di questi pazienti era pari a 1,1 anni, significativamente inferiore rispetto ai 4,5 anni dei pazienti con PET-CT negativa (Siontis B et al, 2015; Zamagni E et al, 2016). Per questa ragione, nei nuovi criteri diagnostici del mieloma IMWG la presenza di lesioni positive in PET-CT costituisce un criterio sufficiente per impostare un trattamento chemioterapico. L’analisi dell’attivitĆ  metabolica della malattia mediante PET-CT ha dimostrato di costituire un fattore prognostico statisticamente significativo sia alla diagnosi sia in ambito di monitoraggio della risposta ottenuta con la terapia (Zamagni E, 2007; Zamagni E, 2011). Una captazione estesa, un’intensitĆ  di captazione elevata (in termini di Standardized Uptake Value, SUV) e una presenza di malattia extra-midollare alla diagnosi rappresentano elementi prognostici sfavorevoli. Per ciò che concerne la valutazione della risposta alla terapia, la soppressione del segnale correla con la risposta biochimica ottenuta dopo la chemioterapia: la persistenza di positivitĆ  alla PET-CT ĆØ significativamente associata ad una sopravvivenza inferiore rispetto ai pazienti in cui la PET-CT risulti essere negativa. Per questa ragione, la valutazione della malattia minima residua (MRD) mediante PET-CT ĆØ stata abbinata alla valutazione MRD midollare nei criteri IMWG pubblicati nel 2016 (Kumar S et al, 2016).

Questa metodica presenta dei risultati promettenti, ma necessita ancora di essere opportunamente standardizzata: un gruppo italiano ha recentemente pubblicato dei nuovi criteri d’interpretazione delle immagini PET-CT che andranno validati in trial randomizzati (Nanni C et al, 2016).

In accordo con le linee-guida più recenti, dunque, tutti i pazienti con sospetto di mieloma dovrebbero essere esaminati alla ricerca di un coinvolgimento osseo mediante WBLD-CT, metodica che ha rimpiazzato la radiografia sistematica scheletrica. In assenza della WBLD-CT, la radiografia convenzionale rimane l’indagine di I livello. La RMN, preferibilmente WB, ĆØ indicata nei pazienti con SMM e in quelli con MM con esami radiografico di I livello negativo, cosƬ come in caso di compressione midollare o di malattia extramidollare a partenza ossea. La PET-CT risulta utile nella valutazione della malattia extra-midollare e nella definizione della risposta alla terapia, in base alla disponibilitĆ  della risorsa.

 

FATTORI PROGNOSTICI

La prognosi del paziente affetto da mieloma ĆØ legata principalmente a due categorie di elementi: quelli correlati al paziente e quelli connessi con le caratteristiche biologiche intrinseche alla malattia stessa. I fattori correlati al paziente sono l’etĆ , le comorbiditĆ  e le condizioni cliniche (ā€œfitnessā€). I fattori prognostici correlati alla biologia del mieloma sono costituiti dall’albumina e dalla beta-2 microglobulina, che rappresentano il peso di malattia (ā€œburdenā€) e le anomalie citogenetiche presenti nelle plasmacellule di mieloma.

Solitamente i pazienti con mieloma venivano suddivisi in categorie a prognosi differente sulla base della stadiazione di Durie e Salmon, la quale suddivide i pazienti in 3 stadi a prognosi progressivamente peggiore sulla base di alcuni semplici dati clinici quali l’entitĆ  della componente monoclonale e la presenza o assenza di segni di danno d’organo (Durie BGM e Salmon S, 1975).Ā Oltre il 70% dei pazienti risultava in stadio III, e la capacitĆ  predittiva nel singolo paziente non era elevata. Negli ultimi anni, questa classificazione ĆØ stata dapprima affiancata e quindi progressivamente soppiantata da un nuovo sistema di stadiazione, ossia l’International Staging System (ISS) (Greipp PR et al, 2005). L’ISS prende in considerazione esclusivamente 2 parametri sierici: la beta-2 microglobulina, strettamente legata alla funzionalitĆ  renale e alla massa tumorale, e l’albumina, definendo cosƬ 3 classi di rischio, ISS 1,2 e 3.

Accanto all’ISS, la presenza di determinate anomalie citogenetiche rappresenta uno dei più forti fattori prognostici ad oggi descritti. La presenza della delezione 17p13 (su cui ĆØ situato l’oncosoppressore TP53), la traslocazione t(4;14) e l’amplificazione 1q21 sono anomalie cromosomiche che conferiscono una prognosi sfavorevole. La traslocazione t(14;16) e la delezione del cromosoma 13 sembrano essere correlati a una prognosi sfavorevole, tuttavia mancano dati chiari a riguardo. La traslocazione t(11;14) rappresenta invece un’anomalia a prognosi favorevole (Gertz MA et al, 2005). In aggiunta ai dati di citogenetica, stanno emergendo negli ultimi anni dati circa il potere prognostico di specifiche ā€œespressioni genicheā€. Studi in corso stanno valutando dei ā€œpattern di espressione genicaā€ il cui ruolo nella pratica clinica resta tuttavia in fase di definizione (Zhou Y et al, 2009).

L’etĆ  costituisce da tempo il criterio fondamentale per l’eleggibilitĆ  del paziente alla chemioterapia ad alte dosi e alla procedura trapiantologica autologa, in alternativa a una terapia meno intensiva o addirittura palliativa. Tuttavia, ĆØ bene precisare come l’invecchiamento non sia un fenomeno biologico omogeneo: il semplice dato anagrafico non tiene in considerazione le condizioni cliniche globali del paziente, la sua precedente storia clinica e le comorbiditĆ  presenti. Recentemente, per quanto concerne la valutazione complessiva del paziente con mieloma alla diagnosi, sono emerse numerose evidenze circa la necessitĆ  d’integrare l’etĆ  con elementi di valutazione della fitness del paziente, passando quindi dal concetto di etĆ  cronologica a quello di etĆ  biologica. Uno studio IMWG condotto su 869 pazienti, arruolati alla diagnosi di mieloma in tre protocolli sperimentali con nuovi farmaci, ha condotto alla creazione di uno score geriatrico mediante la combinazione di parametri come l’etĆ  e parametri derivanti dall’applicazione di strumenti per la valutazione delle comorbiditĆ  (Charlson Comorbidity Index) e della fitness paziente (ADL – Activities of Daily Living e IADL – Instrumental Activities of Daily Living). Tale score, noto come IMWG frailty score, si ĆØ dimostrato capace di stratificare i pazienti dello studio in 3 gruppi: pazienti fit, unfit e frail, ciascuno con differenti rischi di progressione, morte e incidenza di tossicitĆ  correlata al trattamento (Palumbo A et al, 2015; Engelhardt M et al, 2016).

 

PRESENTAZIONE CLINICA

La clinica del mieloma ĆØ certamente cambiata nel tempo: la malattia veniva sovente diagnosticata in stadio avanzato, mentre ora si calcola che almeno un quarto delle diagnosi venga effettuato casualmente durante esami di routine.

I più comuni segni della malattia sono:

  • Dolore osseo. ƈ un sintomo comune (riportato in oltre il 50% dei pazienti) dovuto alle lesioni osteolitiche. Le plasmacellule a livello osseo secernono citochine con attivitĆ  stimolante gli osteoclasti (ā€œosteoclast activating factorsā€) e a loro volta gli osteoclasti secernono fattori che stimolano la proliferazione delle plasmacellule (IL6) (Terpos E, 2011). Essendo il fenomeno di riparazione scarso o assente, le lesioni si presentano a margini netti e di conseguenza rimangono generalmente invariate anche in pazienti che a seguito della terapia raggiungono la remissione completa. Le lesioni osteolitiche sono più frequentemente localizzate nei segmenti ossei in cui ĆØ presente midollo emopoietico (vertebre, ossa piatte, cranio). Il dolore ĆØ tipicamente localizzato a livello della colonna vertebrale e delle coste, e può essere anche molto intenso e indicare la presenza di una frattura patologica.
  • Ipercalcemia. ƈ direttamente correlata al rimaneggiamento osseo. Può essere sintomatica (anoressia, poliuria e polidipsia, fino a quadri di nausea, vomito, disidratazione e da ultimo segni di encefalopatia ipercalcemica nei casi severi) e in alcuni casi può essere peggiorata da una concomitante insufficienza renale.
  • Astenia La proliferazione delle plasmacellule a livello midollare ne compromette la normale attivitĆ  emopoietica, portando alla riduzione della produzione di globuli rossi e, di conseguenza, a una progressiva anemizzazione. L’astenia ĆØ l’espressione più significativa dello stato anemico dei pazienti.
  • Infezioni ricorrenti. L’espansione del clone neoplastico si accompagna alla riduzione delle immunoglobuline normali e i pazienti presentano quindi una significativa immunosoppressione. Si osservano infezioni polmonari e delle vie urinarie, di natura batterica, e riattivazioni di virus, quali l’Herpes Zoster, il virus di Hepstein-Barr e il Citomegalovirus.
  • Insufficienza renale. La patogenesi ĆØ multifattoriale, con un ruolo primario svolto dall’eccesso di catene leggere monoclonali nel plasma, filtrate a livello glomerulare e quindi riassorbite e catabolizzate a livello tubulare. Nel corso di questi processi le catene leggere possono precipitare a livello intratubulare, depositarsi a livello della membrana basale dei tubuli o dei glomeruli, oppure determinare un danno alle cellule tubulari di tipo diretto o mediato da enzimi lisosomiali. Il quadro morfo-funzionale più frequente ĆØ rappresentato dal rene da mieloma, la cui manifestazione clinica più comune ĆØ un’insufficienza renale cronica (un quadro d’insufficienza renale acuta ĆØ più raro e in genere si verifica qualora concomitino altri fattori precipitanti quali iperuricemia e disidratazione). Meno frequenti sono la malattia da catene leggere e l’amiloidosi AL.
  • Manifestazioni neurologiche. Il danneggiamento osseo e il successivo possibile crollo vertebrale o, meno frequentemente, la presenza di masse plasmacellulari (plasmocitomi) di origine vertebrale o costali possono determinare compressione midollare o radicolare con conseguenti segni e sintomi neurologici. Neuropatie sensitivo-motorie possono essere conseguenti alla produzione di anticorpi contro le diverse strutture nervose (i più frequenti sono gli anticorpi anti-glicoproteina mielina-associata, MAG) o al deposito di sostanza amiloide lungo le strutture nervose.
  • Sindrome da iperviscositĆ . ƈ più frequente nei casi di MM di tipo IgA (per la tendenza alla polimerizzazione delle immunoglobuline). Le manifestazioni cliniche sono rappresentate da disturbi visivi con caratteristiche alterazioni del fundus, disturbi neurologici, insufficienza vascolare periferica, insufficienza cardiaca e diatesi emorragica.

 

IL TRATTAMENTO DEL MIELOMA MULTIPLO

Ad oggi, solo i pazienti affetti da MM sintomatico necessitano di un trattamento chemioterapico. I pazienti affetti da SMM, anche coloro ad alto rischio di evoluzione a MM sintomatico, non devono essere trattati al di fuori di trial clinici.

Prima di definire l’approccio terapeutico al MM, affinchĆ© esso possa essere compreso appieno, ĆØ necessario però descrivere la storia clinica del mieloma multiplo stesso. Una volta posta la diagnosi di MM sintomatico, accertata quindi la necessitĆ  di instaurare un trattamento anti-mieloma, il paziente viene trattato con quella che si definisce ā€œterapia di I lineaā€; a essa segue un periodo di remissione più o meno duraturo, in base all’efficacia del trattamento stesso. In maniera pressochĆ© inevitabile, tuttavia, il clone plasmacellulare torna a proliferare, configurando quindi un quadro di recidiva. Quest’ultima ĆØ definita ā€œbiochimicaā€ in presenza della sola proliferazione plasmacellulare a livello midollare e del conseguente incremento nel sangue e nelle urine del suo marcatore specifico, ossia la componente monoclonale prodotta dalle plasmacellule; oppure ĆØ definita ā€œclinicaā€ quando a tale proliferazione si accompagna un danno all’organismo: dall’anemia alle lesioni ossee all’insufficienza renale, sino all’ipercalcemia. L’intervallo di tempo che intercorre tra l’inizio della terapia e la recidiva ĆØ definito ā€œsopravvivenza libera da malattiaā€ (PFS).

All’occorrenza della recidiva di mieloma ĆØ necessario instaurare una nuova linea di terapia. Le linee guida IMWG (International Myeloma Working Group) raccomandano di trattare il paziente nei casi di recidiva clinica o di recidiva biochimica ā€œaggressivaā€, ossia caratterizzata da un rapido incremento della componente monoclonale, espressione di una rapida proliferazione cancerosa. All’adozione di una successiva linea terapeutica che risulti efficace, segue quindi un nuovo periodo di remissione, la cui lunghezza ĆØ largamente variabile e dipendente da diversi fattori. Di conseguenza, la storia clinica del mieloma ĆØ caratterizzata da un’alternanza di fasi di latenza e recidiva che connotano un andamento cronico della patologia.

Il trattamento del MM ĆØ stato rivoluzionato nel corso degli ultimi venti anni: sebbene si tratti ancora oggi di una patologia incurabile, l’aspettativa di vita dei pazienti ĆØ significativamente aumentata rispetto al passato. Il MM ĆØ una patologia estremamente eterogenea da un punto di vista sia biologico che clinico: la sopravvivenza può infatti variare da pochi anni sino a oltre 10 anni.

Fino all’inizio degli anni Novanta, infatti, il bagaglio terapeutico del MM prevedeva l’utilizzo di agenti chemioterapici classici – come melphalan e ciclofosfamide, gli alcaloidi della vinca, come la vincristina, e le antracicline come l’idarubicina, in combinazione con steroidi ad alte dosi – Ā e la prognosi del paziente con mieloma era infausta, essendo la sopravvivenza globale mediana (OS) pari a 2-3 anni. La prima rivoluzione nel trattamento del mieloma ĆØ sopraggiunta con l’introduzione del trapianto autologo, procedura che ha consentito la somministrazione di alchilanti ad alte dosi, in particolare il melphalan, seguita dal supporto di cellule staminali autologhe per consentire la ricostituzione midollare. Tale procedura ha permesso di incrementare significativamente la percentuale di pazienti che raggiungevano la remissione completa (CR), fatto altrimenti sporadico, e concomitantemente ha prodotto un migliore controllo della patologia a lungo termine, con un incremento della OS. Tuttavia, di tale miglioramento beneficiavano unicamente i pazienti candidabili al trapianto, ossia quelli più ā€œgiovaniā€ e in condizioni cliniche tali da poter affrontare tale procedura. All’inizio degli anni Duemila, si ĆØ assistito a una seconda rivoluzione, grazie all’introduzione di un nuovo farmaco attivo contro le plasmacellule di mieloma, la talidomide. Si ĆØ aperta quindi l’era dei cosiddetti nuovi farmaci, di cui la talidomide rappresenta il capostipite; un’era caratterizzata da una più profonda conoscenza della biologia del mieloma e del microambiente in cui le cellule mielomatose proliferano (il midollo emopoietico), e dal conseguente sviluppo di farmaci-bersaglio con meccanismi d’azione specifici e differenti, ma tutti diretti a colpire le cellule cancerose. Questa seconda rivoluzione ĆØ ā€˜ecumenica’, poichĆ© i nuovi farmaci sono utilizzabili sia per il trattamento dei pazienti più giovani e candidabili a trapianto sia per quello dei pazienti più anziani e pertanto non eleggibili a tale procedura. Dall’inizio degli anni Duemila, l’ente regolatore statunitense (Food and Drug Administration – FDA) e quello europeo (European Medicine Agency – EMA) hanno approvato più di dieci farmaci di classi differenti, tra cui farmaci immunomodulanti, inibitori del proteasoma, anticorpi monoclonali e chimeric antigen receptor T cell (CAR-T)) per il trattamento del mieloma multiplo, alcuni dei quali licenziati in somministrazione singola, altri invece in combinazione tra loro (Tabella III).

 

Tabella III: ā€œNuovi farmaciā€ per il trattamento del mieloma multiplo

 

L’introduzione del trapianto di cellule staminali autologhe e dei nuovi farmaci ha permesso un migliore controllo della patologia, con un incremento significativo della OS esteso a tutti i pazienti affetti da MM, indipendentemente dall’etĆ . L’introduzione di numerosi farmaci efficaci contro le cellule mielomatose, con meccanismi d’azione differenti e talvolta sinergici tra loro, ha permesso inoltre ai clinici che si occupano di tale patologia di creare strategie terapeutiche differenti, mirate da una parte all’eradicazione del clone plasmacellulare midollare per un controllo a lungo termine della malattia, dall’altra alla cronicizzazione della patologia stessa mediante farmaci in grado di mantenere le plasmacellule monoclonali in una fase di latenza sia biologica che clinica.

L’approccio terapeutico al paziente con mieloma multiplo dipende essenzialmente da due elementi: lo stadio della patologia, diagnosi o recidiva, e la candidabilitĆ  del paziente al trapianto autologo, condizione questa definita in base all’etĆ  cronologica e alle condizioni cliniche (comorbiditĆ , funzionalitĆ  d’organo, assenza di fragilitĆ  del paziente stesso). Per convenzione, si definisce ā€œgiovaneā€ il paziente candidabile alla chemioterapia ad alte dosi e al trapianto di cellule staminali autologhe, mentre si definisce ā€œanzianoā€ il paziente non candidabile a tale procedura. Tradizionalmente, il limite di etĆ  che fa da spartiacque tra il paziente giovane e quello anziano, concorrendo quindi alla eleggibilitĆ  del paziente stesso al trapianto autologo, corrispondeva ai 65 anni. Tale limite di etĆ , tuttavia, ĆØ andato aumentando nel tempo: attualmente in Europa i pazienti sino a 70-75 anni di etĆ , in adeguate condizioni cliniche, vengono considerati dei potenziali candidati alla chemioterapia ad alte dosi e alla procedura trapiantologica, mentre negli Stati Uniti tale limite ĆØ stato esteso ulteriormente sino ai 79 anni (Mina R e Lonial S, 2019).

 

APPROCCIO TERAPEUTICO AL PAZIENTE CON MIELOMA DI NUOVA DIAGNOSI

Paziente candidabile al trapianto autologo

Nonostante l’introduzione dei nuovi farmaci, ad oggi la chemioterapia ad alte dosi (melfalan 200 mg/m2) seguita dal trapianto autologo di cellule staminali emopoietiche rimane lo standard nel paziente che viene giudicato idoneo a tale procedura.
Diversi studi hanno comparato strategie terapeutiche per pazienti con mieloma multiplo in I linea basate sull’utilizzo di nuovi farmaci con o senza trapianto autologo. In tutti questi studi ĆØ stato dimostrato che incorporare il trapianto autologo nel trattamento di I linea permetta un prolungamento significativo della PFS rispetto alle strategie che non prevedono il trapianto; inoltre, una parte di questi studi ha anche dimostrato un vantaggio di overall survival (OS) a vantaggio del trapianto (Attal M et al, 2017; Cavo M et al, 2020; Gay F et al, 2020).
Non esiste un chiaro cut-off di etĆ  per definire l’idoneitĆ  o meno al trapianto, sebbene convenzionalmente tale procedura sia stata dapprima riservata ai pazienti di etĆ  inferiore ai 65 anni e poi estesa anche ai pazienti di etĆ  compresa tra i 66 e i 70 anni. Diversi studi hanno inoltre mostrato come il trapianto sia applicabile, senza un significativo aumento della mortalitĆ , anche a pazienti di etĆ  compresa tra i 70 e i 75 anni (Mina R e Lonial S, 2019).
La strategia terapeutica di I linea nel paziente candidabile a trapianto autologo consta di 5 fasi differenti: la terapia d’induzione, la mobilizzazione delle cellule staminali, il trapianto autologo (singolo o doppio), la terapia di consolidamento e infine la terapia di mantenimento.

  1. LaĀ terapia d’induzioneĀ ha lo scopo di citoridurre la massa tumorale di plasmacellule proliferanti al momento della diagnosi, riducendo o eliminando il danno d’organo correlato all’insorgenza del mieloma e permettendo al paziente di procedere alla raccolta delle cellule staminali, senza interferire quindi con la mobilizzazione stessa delle cellule staminali, e permettendo di affrontare il successivo trapianto con il minor grado possibile di malattia residua. L’attuale regime di induzione standard in Europa e negli Stati Uniti si basa sulla combinazione di bortezomib (V), inibitore del preoteasoma (PI), di un immunomodulante (IMiD) come la talidomide (T, in Europa) o la lenalidomide (R, negli USA) e il desametasone (D) (VTD, VRD). Recentemente gli studi di fase III CASSIOPEA e di fase II GRIFFIN hanno dimostrato che l’aggiunta di un quarto farmaco, ossia l’anticorpo monoclonale anti-CD38 daratumumab (D), alle triplette VTD (D-VTD) e VRD (D-VRD) incrementa significativamente il tasso di risposte, compreso il tasso di pazienti che raggiungono la MRD negativitĆ , e la PFS (nel caso dello studio CASSIOPEIA) rispetto alle triplette di confronto. D-VTD e D-VRD sono stati approvati rispettivamente da FDA e EMA e rappresentano pertanto il nuovo standard of care per pazienti con mieloma multiplo di nuova diagnosi candidabili a trapianto autologo (Dimopoulos MA et al, 2021). Tali regimi consentono di ottenere, al termine dei primi 4 cicli di induzione, risposte almeno parziali in oltre il 90% dei pazienti (Voorhees PM et al, 2020; Moreau P et al, 2019).
  2. La seconda fase della terapia di I linea del paziente giovane e candidabile al trapianto consiste nella mobilizzazione e nella raccolta delle cellule staminali. Questa procedura può essere preceduta dalla somministrazione di un chemioterapico atto a stimolare la ā€œfuoriuscita delle cellule staminaliā€ come la ciclofosfamide (dose di 2-4 g/m2). Sia che questo avvenga oppure no, la somministrazione del fattore di crescita granulocitario noto come G-CSF (granulocyte-colony stimulating factor) stimola la proliferazione e la fuoriuscita nel sangue periferico delle cellule staminali CD34+, oggetto della raccolta. La conta delle cellule CD34+ permette d’identificare il momento ottimale per l’aferesi, vale a dire il momento opportuno per la loro raccolta, che oggi viene eseguito da sangue periferico in media in 1-2 sedute aferetiche consecutive. Prima dell’introduzione di plerixafor, un antagonista del recettore chemochinico di tipo 4, il tasso di pazienti definiti scarsi mobilizzatori, ossia nei quali non era possibile raccogliere un numero di cellule CD34+ adeguato per permettere un successivo trapianto autologo (≄2×10^6/Kg), era pari al 5-15% dei pazienti che si sottoponevano alla stimolazione e aferesi delle cellule staminali emopoietiche. L’introduzione di plerixafor, usato di default come regime di mobilizzazione assieme al G-CSF oppure al bisogno, ā€œon demandā€, nei pazienti con scarsa mobilizzazione periferica di cellule staminali dopo somministrazione di G-CSF o chemioterapia + G-CSF, ha permesso di ridurre significativamente il tasso di pazienti ā€œscarsi mobilizzatoriā€ (Afifi S et al, 2016). Attualmente i pazienti ritenuti candidabili al trapianto autologo ricevono uno o due cicli di chemioterapia ad alte dosi seguite, ad ogni ciclo chemioterapico, da reinfusione di cellule staminali precedentemente raccolte. ƈ opportuno pertanto che la raccolta aferetica al termine della terapia di induzione sia sufficiente per permettere al paziente di andare incontro ad almeno 2 trapianti di cellule staminali.
  3. La terza fase ĆØ quella delĀ trapianto autologo. Al paziente viene somministrata una dose di melphalan pari a 200 mg/m2 (in caso di insufficienza renale o significative comorbiditĆ  la dose di melphalan può essere ridotta a 100-140 mg/m2) con la successiva infusione delle cellule staminali precedentemente raccolte dopo 24-48 ore. La somministrazione di alte dosi di melphalan viene considerata mieloablativa, ossia capace di uccidere le cellule staminali midollari in maniera potenzialmente irreversibile. L’infusione di cellule staminali autologhe permette invece una rapida ricostituzione midollare, senza la quale la fase di aplasia conseguente alla somministrazione di melphalan sarebbe gravata da un’alta mortalitĆ  provocata da infezioni legate alla bassa conta di globuli bianchi e da emorragie conseguenti alla piastrinopenia. Il trapianto di cellule staminali può essere ripetuto una seconda volta a distanza di 3-6 mesi dal primo, al fine di ottenere la massima citoriduzione possibile. Il vantaggio del doppio trapianto era stato inizialmente rilevato nei pazienti che non raggiungevano almeno una VGPR dopo il primo trapianto (Moreau P et al, 2015). L’analisi condotta su pazienti arruolati nello studio HOVON65/GMMG-HD4 nell’ambito del trattamento con bortezomib sia in induzione che in mantenimento ha mostrato, nonostante lo studio non fosse disegnato per tale confronto, un vantaggio di sopravvivenza per i pazienti che hanno ricevuto due trapianti rispetto ai pazienti sottoposti a un solo trapianto (Sonneveld P et al, 2012). Uno studio recentemente condotto dal gruppo europeo di ricerca sul mieloma (EMN, European Myeloma Network) ha dimostrato un vantaggio in termini di PFS per il doppio trapianto rispetto al singolo trapianto (Cavo M et al, 2016b), in particolare nei pazienti considerati ad alto rischio per la presenza in FISH di anomalie quali la del17p e la t(4;14) (Cavo M et al, 2020). Analogamente, il beneficio di un doppio trapianto rispetto al trapianto singolo ĆØ stato osservato, in termini di PFS, nei pazienti ad alto rischio citogenetico nello studio di fase III StaMINA (Stadtmauer EA et al, 2019), mentre nei pazienti a rischio standard non vi ĆØ differenza in termini di PFS e OS tra un singolo ed il doppio trapianto. Attualmente pertanto il doppio trapianto autologo può essere preso in considerazione in pazienti ad alto rischio, in particolare in presenza di alterazioni citogenetiche ad alto rischio, che abbiano ben tollerato e per i quali vi sia evidenza di un beneficio clinico dal primo trapianto.

Successivamente al trapianto, il paziente può ricevere un numero limitato di cicli di terapia d’intensitĆ  uguale o simile a quella della terapia d’induzione (generalmente 2), al fine di ulteriormente approfondire la risposta ottenuta col trapianto. Questa fase del percorso terapeutico di I linea nei pazienti candidabili a trapianto autologo ĆØ detta diĀ consolidamento. Diversi studi che hanno incorporato tale approccio nella strategia globale di trattamento del paziente con nuova diagnosi di MM hanno mostrato un progressivo approfondimento delle risposte dalla fase di induzione, attraverso il trapianto sino al consolidamento. I regimi che hanno mostrato tale efficacia sono VTD, VRD, DVTD, DVRD (Cavo M et al, 2010; Cavo M et al, 2012; Attal M et al, 2017; Cavo M et al, 2016a; Voorhees PM et al, 2020; Moreau P et al, 2019) e KRd (Gay F et al, 2019). Tali studi non permettono tuttavia di stabilire il reale beneficio della terapia di consolidamento non prevendendo una randomizzazione dei pazienti arruolati ad un braccio di consolidamento confrontato con un braccio privo di consolidamento. Pertanto, ad oggi esistono in tal senso dati discordanti circa il beneficio del consolidamento: lo studio EMN02/H095 ha dimostrato, attraverso una randomizzazione formale, un beneficio in termini di PFS per pazienti che dopo la prima fase di trattamento ricevevano un numero limitato di cicli di consolidamento, secondo schema VRd, rispetto ai pazienti che proseguivano direttamente con la terapia di mantenimento. Lo studio StaMINA (Stadtmauer EA et al, 2019), invece, in cui pazienti con MM di nuova diagnosi, dopo una prima fase di induzione e trapianto autologo, venivano randomizzati ad un secondo trapianto seguito da lenalidomide di mantenimento, consolidamento con VRD e lenalidomide di mantenimento, o direttamente lenalidomide di mantenimento, non ha dimostrato, nell’intera popolazione dello studio, un beneficio nei confronti di un breve ciclo di consolidamento prima della terapia di mantenimento. L’utilizzo della terapia di consolidamento nel mieloma rimane pertanto ancora oggetto di discussione, sebbene molti studi clinici sperimentali l’abbiano incorporato nelle strategie terapeutiche investigate. I nuovi regimi approvati, DVTd e DVRd, prevedono che dopo il trapianto autologo il paziente riceva 2 ulteriori cicli di consolidamento con gli stessi farmaci utilizzati durante la fase di induzione.L’ultima fase del trattamento di I linea ĆØ rappresentata dalla terapia diĀ mantenimento, che deve essere efficace nel mantenere e/o migliorare la risposta ottenuta e nel prolungare il periodo di remissione e la sopravvivenza globale. Il mantenimento deve essere agevolmente somministrabile al paziente, ben tollerabile, e non deve interferire con la qualitĆ  di vita del paziente. Il primo farmaco ad avere dimostrato un vantaggio in termini di PFS come mantenimento post-trapianto ĆØ stata la talidomide (Barlogie B et al, 2008). Tuttavia, tale vantaggio non era esteso alla sopravvivenza globale (OS); inoltre, la scarsa tollerabilitĆ  della talidomide, gravata da elevati tassi di neuropatia periferica, incide negativamente sulla somministrazione a lungo termine di questo farmaco. La lenalidomide, analogo della talidomide, ĆØ stata ampiamente testata come mantenimento post-trapianto autologo. Diversi studi di fase 3 hanno dimostrato un vantaggio in termini di PFS per i pazienti che hanno ricevuto la lenalidomide come agente di mantenimento post-trapianto (Palumbo A et al, 2014b; Gay F et al, 2015; Attal M et al, 2012; McCarthy PL et al, 2012). Una meta-analisi che ha preso in esame 1200 pazienti inclusi nei trial sopramenzionati ha mostrato come il vantaggio di sopravvivenza per i pazienti che hanno ricevuto la lenalidomide sia esteso anche alla sopravvivenza globale, con un vantaggio di circa 2,5 anni rispetto ai pazienti che non hanno ricevuto una terapia di mantenimento o che hanno ricevuto placebo (McCarthy PL et al, 2017). Sulla base di tali dati, pertanto, la lenalidomide ĆØ stata approvata come farmaco in mantenimento nei pazienti precedentemente sottoposti a trapianto autologo di cellule staminali sia da FDA che da EMA. La durata del mantenimento con lenalidomide ĆØ, ad oggi, indicata sino a progressione o intolleranza; non sono infatti disponibili dati sulla possibilitĆ  di interrompere il trattamento al raggiungimento di un certo periodo di trattamento o di una determinata risposta alla terapia (es. in pazienti in CR). La lenalidomide costituisce peraltro anche la base su cui sono stati testati o sono in corso di sperimentazioni, combinazioni a 2 o 3 farmaci, inclusi ixazomib, bortezomib, carfilzomib, daratumumab e isatuximab, come terapia di mantenimento post-trapianto. Ad esempio, nello studio randomizzato FORTE, l’aggiunta di carfilzomib a lenalidomide come terapia di mantenimento post-trapianto ha dimostrato un prolungamento della PFS rispetto al solo utilizzo della lenalidomide (Gay F et al, 2020). Bortezomib ĆØ stato testato come agente di mantenimento sia nei pazienti giovani post-trapianto, sia nei pazienti anziani al termine della terapia di induzione. Lo studio di fase III HOVON65/GMMG4 ha comparato bortezomib e talidomide quali terapie di mantenimento in pazienti sottoposti a trapianto autologo, dimostrando un vantaggio di sopravvivenza a favore di bortezomib, anche in pazienti considerati ad alto rischio in base alle caratteristiche citogenetiche (FISH), in particolare in coloro i quali presentavano la del17p o la t(4;14). Il principale limite dello studio deriva tuttavia dai differenti regimi d’induzione nei due bracci che non permettono di quantificare correttamente il beneficio della terapia continuativa con bortezomib rispetto alla talidomide. Ad oggi, il bortezomib non ĆØ quindi un farmaco approvato come mantenimento post-trapianto (Sonneveld P et al, 2012) sebbene diverse linee-guida raccomandino un approccio al paziente ad alto rischio citogenetico che comprenda anche il bortezomib. La sua somministrazione parenterale, cosƬ come il rischio di insorgenza di neuropatia periferica, ne hanno limitato lo sviluppo quale terapia a somministrazione continuativa. Più recentemente, lo studio di fase III Tourmaline-MM3 ha arruolato 702 pazienti con MM di nuova diagnosi sottoposti a singolo trapianto autologo, con l’obbiettivo di valutare efficacia e sicurezza di ixazomib, inibitore del proteasoma analogo di bortezomib ma a biodisponibilitĆ  orale, somministrato per 26 cicli rispetto al placebo come terapia di mantenimento post-trapianto autologo (Dimopoulos MA et al, 2019). Tale studio ha dimostrato una riduzione statisticamente significativa, a vantaggio di ixazomib, del rischio di progressione o morte (HR:0,72; p=0,002) rispetto al placebo. ƈ significativo inoltre che tale beneficio fosse esteso anche al sottogruppo di pazienti ad alto rischio citogenetico.
Nonostante i benefici recati dalla terapia di mantenimento, la recidiva ĆØ pressochĆ© inevitabile. Allo scopo di migliorare l’efficacia della terapia di mantenimento, diversi studi sono in corso per testare regimi di mantenimento a 2 farmaci, combinando lenalidomide con inibitori del proteasoma (carfilzomib e ixazomib) o anticorpi monoclonali (daratumumab e isatuximab) o inibitori del proteasoma con anticorpi monoclonali (ixazomib e daratumumab). Anche daratumumab, anticorpo monoclonale diretto contro il CD38 espresso dalle plasmacellule, ĆØ stato impiegato quale farmaco per la terapia di mantenimento post-trapianto. Nello studio di fase III CASSIOPEIA, pazienti con mieloma in I linea di terapia trattati con bortezomib, talidomide e desametasone (VTd) con o senza daratumumab come terapia di induzione e consolidamento nell’ambito di una strategia trapiantologica, sono stati randomizzati a terapia di mantenimento con daratumumab per due anni o sola osservazione. Gli autori hanno riportato un beneficio statisticamente significativo in termini di PFS (riduzione del 47% del rischio di progressione o morte) per i pazienti che hanno ricevuto daratumumab di mantenimento rispetto ai pazienti nel braccio di controllo (Moreau P et al, 2021b).

IlĀ trapianto allogenicoĀ ĆØ considerato un’opzione potenzialmente curativa per pazienti giovani e con un donatore compatibile. Tuttavia, laĀ graft versus host diseaseĀ (GVHD) cronica rimane la principale morbilitĆ  con un impatto notevole sulla sopravvivenza e sulla qualitĆ  di vita dei pazienti. In uno studio randomizzato, condotto nell’era antecedente l’introduzione dei nuovi farmaci, il trapianto allogenico ĆØ risultato superiore al trapianto autologo (Bruno B et al, 2007; Giaccone L et al, 2011). In seguito all’introduzione dei nuovi farmaci e ai risultati con essi ottenuti, il trapianto allogenico ĆØ considerato una opzione meno attrattiva e il suo uso ĆØ sconsigliato al di fuori di protocolli clinici. Il suo impiego rimane confinato agli studi randomizzati, in associazione ai nuovi farmaci, nei pazienti ad altissimo rischio (es. delezione del cromosoma 17), in particolare nei pazienti con recidiva precoce dopo trapianto autologo (Gay F et al, 2018).

 

Paziente non candidabile al trapianto autologo

Tradizionalmente, il paziente di etĆ  superiore ai 65-70 anni, o di etĆ  inferiore ma con compromissione d’organo, veniva definito non candidabile al trapianto. Tale limite di etĆ  non ĆØ tuttavia un discrimine sufficiente a determinare o meno la candidabilitĆ  alla chemioterapia ad alte dosi ed al trapianto, in quanto l’etĆ  cronologica non ĆØ un parametro adeguato a descrivere appieno le condizioni cliniche di un paziente e non coincide molto spesso con l’etĆ  biologica del paziente stesso. Sebbene non esistano linee-guida che esprimano un parere netto circa il cut-off per l’eleggibilitĆ  al trapianto, attualmente a tale procedura vengono indirizzati pazienti sino ai 70 anni di etĆ , con talune eccezioni per pazienti in ottime condizioni generali fino ai 75 anni di etĆ .

La popolazione di pazienti anziani ĆØ estremamente eterogenea sia per ciò che concerne l’etĆ  che per ciò che riguarda le condizioni cliniche e sociali. Negli ultimi anni ĆØ stata posta una forte attenzione nei confronti di strumenti di valutazione geriatrica che permettano di meglio stratificare la popolazione anziana, al fine di eseguire una corretta valutazione dell’etĆ  biologica del paziente e adattare a ciò i diversi regimi chemioterapici, riducendo le tossicitĆ  del trattamento, ottimizzando la compliance del paziente e migliorando quindi l’efficacia del trattamento stesso. Per fare ciò, sono stati condotti studi che hanno impiegato l’utilizzo di differenti strumenti di valutazione geriatrica (Palumbo A et al, 2015; Engelhardt et al, 2016). Nel 2016 l’IMWG ha pubblicato il risultato di uno studio condotto su 869 pazienti affetti da MM alla diagnosi, tutti sottoposti a una valutazione geriatrica pre-trattamento che ha dimostrato come non solo l’etĆ , ma anche il ā€œburdenā€ delle comorbiditĆ , valutato mediante il Charlson comorbidity index (CCI), e l’aspetto funzionale del paziente nella vita quotidiana, definito mediante le scale ADL e IADL, siano variabili in grado di stratificare tre gruppi distinti di pazienti, ognuno dei quali caratterizzato da una diversa tollerabilitĆ  al trattamento e da un differente outcome di sopravvivenza, ossia PFS e OS, differenti tra loro (Palumbo A et al, 2015; Engelhardt et al, 2016). ƈ stato quindi definito uno score (poi soprannominato ā€œFrailty scoreā€) costituito da quattro variabili: etĆ , CCI, ADL e IADL. Tale score ha stratificato i pazienti in esame in tre gruppi: fit, intermediate fit e frail. Rispetto ai pazienti fit, quelli definiti ā€œfrailā€ hanno una più alta probabilitĆ , statisticamente significativa, di andare incontro a eventi avversi di tipo non-ematologico e alla morte e/o progressione (Tabelle IV e V).

 

Tabella IV: variabili del Frailty score.

 

Tabella V. Frailty score.

 

La valutazione del paziente anziano con nuova diagnosi di mieloma, non candidabile alla procedura trapiantologica, non può quindi più tenere conto soltanto delle caratteristiche biologiche della patologia e deve necessariamente contemplare una corretta valutazione geriatrica. L’introduzione di score geriatrici in grado di identificare precise sottopopolazioni all’interno del gruppo di pazienti anziani ha permesso lo sviluppo di studi clinici volti direttamente a specifici sottogruppi di pazienti al fine di testare, in maniera precisa e mirata, efficacia e sicurezza dei regimi di terapia. In uno di questi studi, volti a testare regimi chemioterapici su popolazioni anziane specifiche, Larocca A. et al hanno dimostrato come, in pazienti definiti ā€œunfitā€ attraverso il frailty score dell’International myeloma working group e trattati con lenalidomide e desametasone (Rd), la riduzione del dosaggio della lenalidomide e la sospensione del desametasone dopo una fase di induzione a dosaggio pieno, non determinino una riduzione dell’efficacia della combinazione rispetto al suo impiego a dose standard (Larocca A et al, 2021).

Dagli anni Sessanta, la combinazione di melphalan, somministrato per via orale, e prednisone (MP) ha rappresentato il trattamento standard del paziente con MM di nuova diagnosi. Con l’avvento del trapianto autologo tale combinazione ĆØ stata riservata ai pazienti non eleggibili al trapianto. L’approccio terapeutico al mieloma ĆØ però cambiato radicalmente quando, ad inizio 2000, ĆØ stato introdotto il primo ā€œnovel agentā€, ossia la talidomide. Da allora, una serie di numerosi farmaci anti-mieloma sono stati sviluppati, testati e quindi introdotti nella pratica clinica ed incorporati nelle strategie terapeutiche dei pazienti anziani: nello specifico, i principali attori di tale rivoluzione sono stati talidomide, lenalidomide e bortezomib prima, e daratumumab poi.

MPT. La prima rivoluzione nel trattamento del paziente anziano ĆØ stata rappresentata dall’aggiunta della talidomide allo standard MP (MPT). Palumbo A et al. hanno riportato per primi che la combinazione MPT, confrontata con lo standard MP, portava a un tasso significativamente superiore di CR (27,9% vs 7,2%) e a un incremento del PFS (2,8 vs 14,5 mesi, p=0,004). Tuttavia, non ĆØ stato dimostrato un vantaggio di OS a favore dei pazienti trattati con talidomide (40,5 vs 47,6, p=0,79) (Palumbo A et al, 2006; Palumbo A et al, 2008).

Diversi studi randomizzati hanno confermato il beneficio dell’aggiunta della talidomide alla sola combinazione MP sia in termini di risposte che di PFS, ma non in tutti gli studi ĆØ stato evidenziato anche un vantaggio di sopravvivenza (Palumbo A et al, 2006; Palumbo A et al, 2008; Facon T et al, 2007; Hulin C et al, 2009; Wijermans P et al, 2010; Kapoor P et al, 2011). Una meta-analisi basata sugli studi precedentemente condotti ha dimostrato come la tripletta MPT si associ a un più alto tasso di risposte, a un PFS più lungo e a un trend tendente a una migliore sopravvivenza se paragonato alla doppietta MP (Fayers PM et al, 2011).
Alla luce delle nuove combinazioni disponibili, quali lenalidomide-desametasone (Rd), MP+bortezomib (VMP) associati o daratumumab e VRd, lo schema MPT non rappresenta più un’opzione terapeutica attualmente valida come terapia di I linea del paziente non candidabile a trapianto autologo.
Le nuove linee guida della European Society of Medical Oncology (ESMO) aggiornate nel 2021, raccomandando quali combinazioni di I linea per il paziente affetto da mieloma multiplo non candidabile a trapianto autologo DRd, DVMP o VRd. Opzioni di seconda scelta sono invece Rd e VMP (Dimopoulos MA et al, 2021).

VMP. L’aggiunta del bortezomib alla combinazione di MP (VMP) ĆØ stata investigata come terapia di I linea nei pazienti di etĆ  superiore ai 65 anni, o di etĆ  inferiore ma non candidabili a trapianto autologo, e comparata con lo standard MP. Nello studio randomizzato di fase III VISTA sono stati arruolati e randomizzati nei due bracci di trattamento (VMP vs MP) 682 pazienti affetti da MM alla diagnosi. Tra i pazienti trattati secondo lo schema VMP si ĆØ registrato un più alto tasso di CR (30% vs 4%, p<0,001) e un incremento sia del tempo alla progressione (TTP; mediana, 24 vs 16,6 mesi, p<0,001) sia della OS (mediana, 56,4 vs 43,1 mesi, p<0,001). Sulla base di questi dati, lo schema VMP ĆØ stato approvato come terapia di I linea per i pazienti non candidabili al trapianto autologo (San-Miguel JF et al, 2008; San Miguel JF et al, 2013a).

D-VMP.Ā Lo studio ALCYONE ha randomizzato 706 pazienti affetti da MM di nuova diagnosi non eleggibili a trapianto autologo a ricevere la terapia standard, ossia 9 cicli di VMP oppure 9 cicli di VMP più l’anticorpo monoclonale anti-CD38 daratumumab seguiti da terapia di mantenimento sino a progressione con solo daratumumab. In tale studio, l’utilizzo di un regime a 4 farmaci (DVMP) quale terapia di induzione e la somministrazione continuativa di daratumumab come terapia di mantenimento hanno permesso di ridurre in maniera statisticamente significativa il rischio di progressione o morte (HR: 0,42; p<0,0001) e quello di morte (HR: 0,6; p=0,003) rispetto al regime standard VMP (Mateos MV et al, 2018;Ā Mateos MV et al, 2020). DVMP inoltre ha dimostrato un incremento significativo della percentuale di pazienti che raggiunge la malattia minima residua (MRD) negativa rispetto a VMP (27% vs 7%, sensibilitĆ  10^-5) (Mateos MV et al, 2020).

Rd.Ā  La lenalidomide, immunomodulante di seconda generazione derivante dalla talidomide, dopo aver dimostrato la propria efficacia nei pazienti con MM recidivato e/o refrattario, ĆØ stata testata nei pazienti con MM di nuova diagnosi (Stadtmauer EA et al, 2009; Wang M et al, 2008). Lo studio statunitense randomizzato di fase III ECOG E4A03 ha testato la lenalidomide nei pazienti con MM di nuova diagnosi includendo pazienti non candidabili al trapianto e comparando l’utilizzo del desametasone ad alte dosi (RD) o basse dosi (Rd). L’utilizzo del desametasone a basse dosi, in associazione alla lenalidomide, ha dimostrato un vantaggio di OS, particolarmente evidente nei pazienti di etĆ  > 65 anni (Rajkumar SV et al, 2006).
Un paragone formale tra i due standard di trattamento MPT e Rd ĆØ stato condotto nello studio FIRST, trial di fase III randomizzato che ha arruolato 1623 pazienti affetti da MM non precedentemente trattato e non candidabili al trapianto autologo. I pazienti sono stati randomizzati a tre gruppi di trattamento: MPT, Rd per 18 mesi e Rd in continuo sino a progressione o intolleranza. Obiettivo primario dello studio era il PFS, mentre obiettivi secondari erano la OS e gli eventi avversi. Dopo un follow-up mediano di 37 mesi, i pazienti trattati con Rd in continuo hanno mostrato un vantaggio di PFS con una riduzione del 28% di progressione o morte nei confronti dei pazienti randomizzati a MPT (HR, 0,72; 95% CI, 0,61–0,85, p<0,001) e del 20% nei confronti dei pazienti trattati con Rd per 18 cicli (HR, 0,70; 95% CI, 0,89–1,20; p=0, 70). ƈ stato dimostrato inoltre un vantaggio in termini di OS per i pazienti del braccio Rd in continuo rispetto ai pazienti del braccio MPT (HR: 0,78; CI, 0,64–0,96, p=0,02) (Benboubker L et al, 2014).

VRd. Lo studio statunitense randomizzato di fase III SWOG S0777 ha comparato l’aggiunta del bortezomib alla combinazione Rd (VRd) al solo utilizzo di Rd in 525 pazienti con MM di nuova diagnosi senza l’intento di procedere al trapianto autologo (Durie BGM et al, 2017); di questi poco più della metĆ  avevano un’etĆ  superiore o uguale a 65 anni. Tale studio ha dimostrato come l’impiego della tripletta VRd induca un maggior tasso di ORR (82% vs 72%), con un vantaggio statisticamente significativo in sia in termini di PFS mediano (41 vs 29 mesi) che di OS mediana (not reached vs 69 mesi,) rispetto alla doppietta Rd (Durie BGM et al, 2020). Sulla base di questi dati VRd rappresenta, sia negli Stati Uniti che in Europa, uno standard of care per il paziente anziano.

D-Rd.Ā Nello studio randomizzato MAIA sono state valutate efficacia e sicurezza dell’aggiunta di daratumumab alla doppietta Rd rispetto alla somministrazione standard di Rd sino a progressione o intolleranza in pazienti anziani con nuova diagnosi di MM.Ā  Analogamente a quanto riportato dalla combinazione D-VMP nello studio ALCYONE, anche in questo trial clinico l’aggiunta di daratumumab ha determinato un incremento del tasso di CR (47,6% vs. 24,9%) e di pazienti con malattia minima residua negativa (29% vs 9%, 10^-5) (Facon T et al, 2019; San-Miguel JF et al, 2020). La migliore profonditĆ  di risposta ottenuta con DRd rispetto a Rd si traduce inoltre in una riduzione significativa del rischio di progressione (HR: 0,53; p=0,0013) e morte (HR 0,68; p<0,001) a vantaggio di DRd (Facon T et al, 2021).

 

La terapia di mantenimento nel paziente anziano

Diversi studi hanno investigato l’effetto della terapia di mantenimento, dopo una fase di induzione, con i nuovi farmaci in pazienti affetti da MM di nuova diagnosi al termine della terapia d’induzione: MPR-R vs MPR vs MP (Palumbo A et al, 2014a), VMP-VP vs VTP-VT (Mateos MV et al, 2012).
Tuttavia, la natura degli studi sopra citati, non ha permesso l’approvazione di tali farmaci come mantenimento nel paziente non candidabile a trapianto. Nello studio di fase III TOURMALINE-MM4, condotto su 706 pazienti di etĆ  mediana pari a 72 anni e non candidabili a trapianto autologo, i pazienti sono stati randomizzati a ricevere, al termine della terapia di induzione somministrata come da pratica clinica, una terapia di mantenimento per circa 2 anni con ixazomib o placebo. Nei pazienti randomizzati al braccio sperimentale, ixazomib ha ridotto significativamente il rischio di progressione o morte del 31,4% (HR: 0,659; p<0,001) rispetto al placebo; la PFS mediana dall’inizio della terapia di mantenimento ĆØ risultata pari a 17,4 mesi nel braccio con ixazomib e 9,4 mesi nel braccio placebo. Un altro dato importante ĆØ che l’efficacia di ixazomib nel prolungamento della PFS mediana ĆØ stato osservato in tutti i sottogruppi di pazienti analizzati, indipendentemente da etĆ , frailty score e stadio della malattia (ISS). Un più lungo follow-up permetterĆ  di valutare l’impatto di ixazomib sulla sopravvivenza globale (Dimopoulos MA et al, 2020a).
Di fatto la terapia continuativa ĆØ parte integrante del trattamento del paziente con mieloma, e tutti e 3 i regimi raccomandati come trattamento di I linea del paziente anziano (DRd, VRd e DVMP) prevedono la somministrazione fino a progressione o intolleranza di lenalidomide e/o daratumumab.

 

APPROCCIO TERAPEUTICO AL PAZIENTE CON MIELOMA RECIDIVATO E/O REFRATTARIO

Sino al 2015, gli unici nuovi farmaci approvati da EMA e quindi disponibili per i pazienti con MM recidivati e/o refrattari (RRMM) dopo almeno una linea di terapia erano la lenalidomide, in combinazione con desametasone (Rd), e il velcade, sia in single agent sia in associazione a desametasone e/o doxorubicina pegilata. In studi randomizzati di fase III sia la lenalidomide che il bortezomib hanno dimostrato, in associazione al desametasone, di essere superiori in termini di PFS rispetto alla sola somministrazione del desametasone, rappresentando cosƬ per diversi anni lo standard di terapia del paziente RR dopo una prima linea di terapia (Stadtmauer EA et al, 2009; Dimopoulos M et al, 2009a; San-Miguel JF et al, 2011; Wang M et al, 2008; Richardson PG et al, 2007b; Richardson PG et al, 2007a; Lee SJ et al, 2008).
Negli ultimi anni, tuttavia, una migliore conoscenza della biologia del mieloma e lo sviluppo di nuove molecole con dimostrata efficacia anti-mieloma (siaĀ in vitroĀ cheĀ in vivo) hanno portato alla conduzione di trial clinici in cui questi con nuovi farmaci, dotati di differenti target, meccanismi d’azione, sono stati testati sia come agenti singoli sia in combinazione con immunomodulanti e inibitori del proteasoma, al fine di bypassare le resistenze molecolari sviluppate dopo il trattamento di I linea e di offrire ai pazienti con RRMM alternative terapeutiche efficaci nel riportare la patologia a uno stato di latenza clinica e biochimica (Approfondimento:Immunoterapia nel MM ).

Nella tabella VI sono riportati i regimi attualmente approvati da EMA per il trattamento del paziente con mieloma multiplo recidivato e refrattario.

Le linee guida ESMO propongono una scelta della terapia alla recidiva basata in primis sul tipo di combinazione terapeutica eseguita alla diagnosi e sulla sensibilitĆ  o refrattarietĆ  a lenalidomide, bortezomib e daratumumab, ossia gli attuali farmaci cardine della terapia di prima linea.

Se il paziente ĆØ stato trattato alla diagnosi con bortezomib, la terapia alla recidiva di prima scelta verterĆ  su combinazioni contenenti lenalidomide e desametasone (Rd) associati ad un terzo farmaco come daratumumab (DRd, se il paziente non ĆØ stato trattato con daratumumab di mantenimento o non vi ĆØ refrattario), carfilzomib (KRd), ixazomib (IRd) o elotuzumab (ERd). Se il paziente ĆØ stato invece trattato con Rd fino a progressione, le alternative terapeutiche alla prima recidiva si basano sull’adozioni di regimi contenenti un inibitore del proteasoma come bortezomib o carfilzomib, associati ad un anticorpo monoclonale come daratumumab (DVd, DKd) o isatuximab (IsaKd) oppure ad un immunomodulante come la pomalidomide (PVd). Sulla base delle linee precedenti, in seconda recidiva vengono raccomandate combinazioni contenenti pomalidomide o carfilzomib quali quelle giĆ  approvate per la prima recidiva, cui si aggiungono inoltre isatuximab, pomalidomide e desametasone (IsaPd) e elotuzumab, pomalidomide e desametasone (EPd). In caso di pluri-refrattarietĆ  ai farmaci immunomodulanti, agli inibitori del proteasoma e ad anticorpi monoclonali anti-CD38, l’anticorpo coniugato belantamab-mafodotin e l’inibitore di EXPO1 selinexor sono due opzioni attualmente approvate EMA.

 

Combinazioni basate su lenalidomide

KRd. Per anni la combinazione Rd ha rappresentato lo standard alla recidiva, in particolare per i pazienti trattati con il bortezomib alla diagnosi. Gli sperimentatori dello studio di fase III ASPIRE hanno confrontato la tripletta costituita da Rd + carfilzomib (KRd) con Rd in pazienti con RRMM dopo 1-3 linee precedenti. La combinazione di un IP di seconda generazione, carfilzomib, con la lenalidomide ĆØ risultata in un incremento statisticamente significativo di ORR (87,1% vs 66,7%; p<0,001) e CR (31,8% vs 9,3%), che si riflette nel prolungamento sia della PFS mediana (26,3 vs 17,6 mesi, HR 0,69, p=0,001) che dell’OS mediana (48,3 vs 40,3 mesi, HR 0,79, p=0,01) (Stewart AK et al, 2015).

IRD. L’introduzione di un nuovo inibitore del proteasoma somministrabile per via orale, l’ixazomib, ha permesso lo sviluppo della prima combinazione orale di un PI con un IMID. Tale combinazione (IRd) ĆØ stata confrontata con lo standard Rd in uno studio di fase III, TOURMALINE-MM1, in cui sono stati arruolati pazienti con RRMM e non più di 3 linee terapeutiche precedenti. È stato osservato un incremento statisticamente significativo della PFS mediana nei pazienti del braccio IRd rispetto ai pazienti del braccio di controllo (20,6 vs 14,7, HR 0,74, p=0,01) (Moreau P et al, 2016). L’analisi finale dello studio non ha evidenziato differenze in termini di OS tra i due bracci (SO mediana, 53.6 mesi vs 51.6 mesi; HR: 0.939); tuttavia, una riduzione del rischio di morte ĆØ stata osservata in pazienti ad alto rischio citogenetico (HR: 0.86) e in pazienti refrattari alla precedente linea di terapia (HR: 0.74) (Richardson PG et al, 2021).

EloRd. L’elotuzumab ĆØ il primo anticorpo monoclonale introdotto e approvato per il trattamento del mieloma. Si tratta di un anticorpo monoclonale IgG diretto controĀ targeting signaling lymphocytic activation molecule F7Ā (SLAMF7) dotato di attivitĆ  immunostimolante. L’effetto additivo e la sinergia tra elotuzumab e lenalidomide sono stati testati nello studio di fase III ELOQUENT-2, in cui pazienti con RRMM (1-3 line precedenti) sono stati randomizzati a EloRd vs Rd. I pazienti inclusi nello studio dovevano essere refrattari all’ultima linea di terapia e potevano avere in precedenza ricevuto la lenalidomide, ma non dovevano essere refrattari ad essa. Lo studio ha dimostrato un vantaggio statisticamente significativo a favore del braccio EloRd rispetto al braccio Rd sia in termini di PFS mediano (19,4 vs 14,9 mesi, HR 0,70; p<0,001) che di OS mediana (48,3 vs 39,6 mesi, HR 0,82; p=0.04) (Lonial S et al, 2015; Dimopoulos MA et al, 2020b).

DaraRd. Il daratumumab ĆØ un anticorpo (IgG4) completamente umanizzato e diretto contro la molecola di superfice CD38, ampiamente espressa dalle plasmacellule. Il daratumumab ĆØ stato inizialmente testato, e quindi approvato, come single agent in pazienti con RRMM altamente pre-trattati. Nella pooled analysis che ha unito dati provenienti da due differenti studi in cui daratumumab ĆØ stato testato in monoterapia, ĆØ stato evidenziato come, in una popolazione di pazienti con una mediana di 5 precedenti linee di terapia, il daratumumab abbia indotto una risposta almeno parziale nel 31,1% dei pazienti, con una durata mediana della risposta (DOR) di 7,6 mesi, e PFS e OS mediane pari a 5 e 20,5 mesi, rispettivamente (Usmani SZ et al, 2016;Ā Lokhorst HM et al, 2015;Ā Lonial S et al, 2016).

Ancora una volta Rd ha rappresentato il braccio di controllo standard verso cui ĆØ stata testata la tripletta, costituita da daratumumab + Rd (DaraRd), in uno studio di fase III (POLLUX) che ha arruolato 569 pazienti con RRMM dopo almeno una precedente linea di terapia, inclusa la lenalidomide in assenza di progressione in corso della stessa. L’aggiunta del daratumumab alla doppietta Rd ha dimostrato un incremento significativo dell’ORR (93% vs. 76%, p<0,001), del tasso di CR (57% vs. 23%, p<0,001) e di pazienti con MRD negativitĆ  (30% vs 5%, sensibilitĆ  di 10^-5), traducendosi poi in un incremento del PFS mediana a favore di DRd (44 vs 17,5 mesi; HR 0,44, P<0,0001). Ā (Dimopoulos M et al, 2016a; Bahlis NJ et al, 2020).

 

Combinazioni basate su inibitori del proteasoma

Kd. Per la prima volta, lo studio ENDEAVOR ha confrontato direttamente due inibitori del proteasoma (IP), carfilzomib (Kd) e bortezomib (Vd), entrambi associati a desametasone per il trattamento di pazienti RR con 1-3 linee precedenti. I pazienti arruolati potevano essere stati trattati in precedenza con il bortezomib, ma non dovevano esserne refrattari. I pazienti arruolati nel braccio Kd hanno beneficiato di un vantaggio sia di PFS (mediana, 18,7 vs 9,4 mesi, HR 0,53; p<0,0001) sia di OS (mediana, 47,6 vs 40,0 mesi, HR 0,79, p=0,01; Dimopoulos MA et al, 2017). Un ulteriore passo in avanti in termini di efficacia è però stato ottenuto combinando Kd con un anticorpo monoclonale anti-CD38

Isa-Kd. Lo studio di fase 3 IKEMA ha comparato Isa-Kd a Kd quale trattamento di salvataggio per pazienti con 1-3 precedenti linee di terapia, dimostrando una riduzione del rischio di morte o progressione del 47% a vantaggio della tripletta Isa-Kd rispetto alla doppietta Kd (mediana di PFS, non raggiunta vs 19 mesi; HR 0,53; p=0,0007). Anche per i pazienti refrattari a lenalidomide si è osservata una riduzione del 40% del rischio di morte o progressione rispetto al solo utilizzo di Kd. Nonostante un tasso di risposte almeno parziale simile nei due bracci di terapia (87% vs 83%), IsaKd ha dimostrato una maggiore profondità di risposta con più elevati tassi di very good partial responses (73% vs 56%) e di pazienti che hanno raggiunto la MRD negatività (sensibilità 10^-5, 30% vs 13%) (Moreau P et al, 2021a).

DKd. Lo studio di fase 3 CANDOR ha comparato Kd a Kd più daratumumab (DKd) in pazienti affetti da mieloma con 1-3 precedenti linee di terapia. L’aggiunta di daratumumab a Kd si ĆØ tradotta in una riduzione del rischio di morte o progressione statisticamente significativa (PFS mediana, non raggiunta vs 16 mesi; HR 0,63, p=0,0014) rispetto a solo Kd; tale beneficio a vantaggio dei pazienti trattati nel braccio DKd si ĆØ osservata anche in caso di precedente esposizione (HR 0,52) o refrattarietĆ  a lenalidomide (HR 0,45) (Usmani SZ et al, 2019).

DaraVd. Lo studio di fase III CASTOR, trial gemello del POLLUX, ha studiato gli effetti dell’aggiunta di daratumumab all’altro regime standard alla recidiva, ossia Vd, e ad esso lo ha confrontato (DaraVd vs Vd). Anche in questo studio, tra i pazienti che hanno ricevuto daratumumab in combinazione con Vd, ĆØ stato dimostrato un chiaro vantaggio rispetto ai pazienti del braccio di controllo (Vd) in termini di ORR (84 vs 63,2%, p<0,001), di CR (23% vs 10%, p = 0,001) e di pazienti con MRD negativitĆ  (12% vs 2%, sensibilitĆ  di 10^-5), che si ĆØ tradotto in un PFS mediano significativamente più lungo (mediana, 16,7 vs 7,1 mesi, HR 0,31; p<0,001) (Palumbo A et al, 2016; Spencer A et al, 2018).

PanoVd. Il panobinostat ĆØ uno dei diversi inibitori dell’istone deacetilasi testati per il trattamento del mieloma. Nello studio di fase III PANORAMA-1, condotto in pazienti con RRMM e 1-3 precedenti linee di trattamento ma non refrattari al bortezomib, il panobinostat ĆØ stato associato a Vd (PanoVd) e confrontato con Vd. Nonostante un’ORR simile nei due bracci di trattamento (60,7% vs 54,6%; p=0,09), la PFS mediana ĆØ risultata significativamente maggiore nei pazienti del braccio PanoVd rispetto ai pazienti del braccio Vd (12,0 vs 8,1 mesi; HR, 0,63; p<0,0001). Nonostante il beneficio in termini di PFS, non ĆØ stata evidenziata alcuna differenza in termini di OS nei due bracci (mediana, 33,6 vs 30,4 mesi). Gli eventi avversi sono risultati più comuni nel braccio PanoVd, in particolare la diarrea, la trombocitopenia e l’astenia (San-Miguel JF et al, 2014).

 

Combinazioni basate su pomalidomide

Pd.Ā  La pomalidomide ĆØ un IMiD di terza generazione, un analogo di talidomide e lenalidomide che ĆØ stato testato in associazione con desametasone (PomDex) e confrontato alla sola somministrazione di desametasone in pazienti RR altamente pre-trattati (mediana di 5 precedenti linee di terapia). La combinazione PomDex ha dimostrato di indurre un ORR significativamente superiore rispetto al solo Dex (21% vs 3%; p<0,001) e d’incrementare significativamente sia la PFS mediana (4 vs 2 mesi; p<0,001) che la OS mediana (NR vs 8 mesi, p<0,001) (San-Miguel JF et al, 2013b).

Isatuximab-Pd. Lo studio di fase 3 ICARIA ha comparato la tripletta derivante dall’aggiunta di isatuximab alla doppietta standard pomalidomide e desametasone (IsaPd) in 307 pazienti trattati con almeno 2 precedenti linee di terapie, inclusi lenalidomide e un inibitore del proteasoma. Isa-Pd ha incrementato il tasso di risposte almeno parziali (60% vs 35%) e prolungato, in maniera statisticamente significativa, la PFS mediana (11,5 vs 6,5 mesi; HR 0,596, p=0,001) rispetto alla doppietta Pd (Attal M et al, 2019). E’ importante sottolineare come IsaPd abbia dimostrato una riduzione del rischio di morte o progressione rispetto a Pd anche nei pazienti refrattari a lenalidomide (HR: 0,59).

PVd. 559 pazienti affetti da mieloma multiplo che avevano ricevuto almeno una precedente linea di terapia sono stati arruolati nello studio OPTIMISMM e randomizzatiĀ  ricevere Pd o Pd associato a bortezomib (PVd). L’aggiunta di bortezomib a Pd ha incrementato i tassi di risposte almeno parziali (82% vs 50%) e ridotto il rischio di morte o progressione del 39% rispetto alla doppietta Pd (PFS mediana, 11 vs 7 mesi; HR 0,61, p<0,0001). PVd ha dimostrato una riduzione del rischio di morte o progressione rispetto a Pd anche nei pazienti refrattari a lenalidomide (HR: 0,65) (Richardson PG et al, 2019).

 

Opzioni terapeutiche per pazienti refrattari a immunomodulanti, inibitori del proteasoma e anticorpi monoclonali anti-CD38

Ā Belantamab-mafodotin. Belamaf ĆØ un anticorpo monoclonale IgG1 diretto contro il B-cell maturation antigen (BCMA) espresso dalle cellule di mieloma e coniugato con un agente diretto contro i microtubuli, la monometil-auristatina F (MMAF). Belamaf agisce sia attraverso un meccanismo apoptotico diretto legato al trasporto della MMAF all’interno della plasmacellula, sia attraverso meccanismi immunologici come l’antibody dependet cellular phagocytosis (ADCP) e l’antibody dependent cellular cytotoxicity (ADCC). L’approvazione degli enti regolatori di Belamaf per pazienti con mieloma recidivato e refrattario a immunomodulanti, inibitori del proteasoma e anticorpi monoclonali anti-Cd38, si basa sui risultati ottenuti nello studio di fase 2 DREAMM-2 in cui sono state testate due dosi di belamaf (2,5 e 3,4 mg/k) in 196 pazienti affetti da mieloma recidivato e refrattario altamente pretrattati (mediana di precedenti linee di terapia 6-7). Un terzo circa dei pazienti trattati alle due dosi di belamaf ha ottenuto almeno una risposta parziale, mentre un quinto circa ha ottenuto una VGPR. La PFS mediana ĆØ risultata pari a 2,9 mesi nei pazienti trattati alla dose di 2,5 mg/kg e 4,9 mesi nei pazienti trattati alla dose di 3,4 mg/kg (Lonial S et al, 2020). Sulla base dei dati di efficacia e tossicitĆ  ĆØ stata approvata la dose di 2,5 mg/kg somministrata ogni 21 giorni.

Sd. XPO1 ĆØ una molecola, iper-espressa nelle cellule di mieloma, in grado di trasportare al di fuori del nucleo cellulare oncosoppressori. Selinexor, suo inibitore, ĆØ stato testato in uno studio di fase 2 su pazienti affetti da mieloma tripli-refrattari, ossia refrattari a immunomodulanti, inibitori del proteasoma e anticorpi monoclonali anti-CD38. Nello studio di fase 2 pubblicato sul New England Journal of Medicine da Chari A. et al, selinexor (80 mg due volte a settimana) in associazione a desametasone (Sd) ĆØ stato testato in 122 pazienti con una mediana di 7 precedenti linee di trattamento. Il 26% dei pazienti che ha ricevuto Sd ha ottenuto una risposta almeno parziale; la PFS e l’OS mediane sono risultate pari a 3,7 e 8,6 mesi (Chari A et al, 2019) (Tabella VI).

 

Tabella VI: regimi terapeutici per pazienti con RRMM approvati da EMA.

 

CRITERI DI RISPOSTA AL TRATTAMENTOĀ 

Uno dei parametri di valutazione dell’efficacia delle terapie per il mieloma multiplo ĆØ rappresentato dalla capacitĆ  della terapia stessa di ā€œcitoridurreā€ la massa neoplastica. Tale parametro si basa sulla rilevazione della quantitĆ  di proteina monoclonale circolante nel siero e nelle urine, espressione indiretta della quota di plasmacellule neoplastiche. L’identificazione e la quantificazione della componente monoclonale vengono eseguite mediante rispettivamente l’immunofissazione e l’elettroforesi proteica (Durie BGM et al, 2006). Per la valutazione della risposta dei pazienti affetti da mieloma oligosecernente, ĆØ stata introdotta invece la misurazione delle catene leggere libere circolanti (kappa o lambda, FLC sieriche). In aggiunta alla ricerca della componente monoclonale nel siero e nelle urine, l’indagine del midollo emopoietico permette la rilevazione e la quantificazione delle plasmacellule monoclonali presenti nell’ambiente midollare.

In base ai criteri di risposta pubblicati dall’International Myeloma Working Group (IMWG) nel 2006 (Durie BGM et al, 2006), la risposta al trattamento si divide in 5 categorie differenti: malattia stabile (SD), risposta minima (MR), risposta parziale (PR), risposta parziale molto buona (VGPR) e risposta completa (CR). La progressione di malattia (PD), viene definita invece dall’assenza di risposta in corso di trattamento o dalla ripresa di malattia successivamente ad una risposta acquisita in precedenza (Tabella VII).

 

Tabella VII: Categorie di risposta al trattamento.

 

Al fine di definire correttamente una remissione completa di malattia qualora la componente monoclonale sierica e/o urinaria non fosse più rilevabile mediante elettroforesi ed immunofissazione, è necessario procedere alla quantificazione delle plasmacellule residue a livello midollare. Inizialmente, per la definizione di CR era necessaria una quota di plasmacellule monoclonali midollari residue inferiore al 5%; successivamente, è stata introdotta la definizione di risposta completa stringente (sCR), per la quale sono necessarie sia la totale assenza di plasmacellule monoclonali midollari che la concomitante normalizzazione del rapporto tra le catene leggere libere sieriche (FLC ratio) (Rajkumar SV et al, 2011).

L’importanza di questa categorizzazione della risposta al trattamento deriva dal valore prognostico insito nelle diverse categorie di risposta. E’ stato dimostrato infatti, sia nei pazienti giovani e candidabili a trapianto autologo, sia nei pazienti anziani non candidabili alla chemioterapia ad alte dosi, come l’ottenimento di una risposta completa correli con una migliore PFS e con la OS (Gay F et al, 2011; Kapoor P et al, 2013; Chanan-Khan AA et al, 2010; van de Velde HJ et al, 2007).
L’ottenimento della CR ĆØ diventato cosƬ uno degli obiettivi del trattamento del mieloma multiplo, sia nella pratica clinica che nel contesto di studi clinici.

Nonostante l’adozione della procedura di trapianto di cellule staminali autologhe a supporto della chemioterapia ad alte dosi e l’introduzione dei ā€œnuovi farmaciā€ abbia notevolmente incrementato il tasso di remissioni complete, stringenti e non, ad oltre il 50% dei pazienti trattati in I linea, la maggior parte dei pazienti andrĆ  incontro ad un recidiva di mieloma, segno, questo, della presenza, seppur invisibile alle tecniche convenzionali, di malattia minima residua (MRD) (McCarthy PL et al, 2012; Jakubowiak AJ et al, 2012; Cavo M et al, 2010).

Diversi studi hanno infatti dimostrato la presenza di plasmacellule monoclonali residue nell’ambiente midollare di pazienti che avevano raggiunto la remissione completa tradizionalmente definita, e che le tecniche di studio midollare convenzionali non erano in grado di rilevare (Paiva B et al, 2008; Paiva B et al, 2012). Tali studi hanno inoltre dimostrato come i pazienti in CR, ma con MRD positiva, avessero una PFS significativamente inferiore a quella di pazienti in CR e MRD negativi, indipendentemente dalla metodica impiegata per la rilevazione della MRD (Zamagni E et al, 2011; Rawstron AC et al, 2013; Martinez-Lopez J et al, 2014; Puig N et al, 2014).

Le tecniche utilizzate per lo studio della MRD nel mieloma permettono l’analisi contemporanea di centinaia di migliaia, sino a milioni, di cellule midollari o del rispettivo DNA, e la rilevazione della eventuale presenza, diretta o indiretta, della plasmacellule monoclonali nel campione esaminato.
Tali metodiche si dividono in metodiche cellulari (multiparametric flow cytometry, MFC), molecolari (allele-specific oligonucleotide-qPCR, ASO-qPCR e next-genereation sequencing delle sequenze VDJ) o di imaging (PET/CT).
L’evidenza generata dagli studi sulla MRD nel mieloma, ossia la presenza di malattia misurabile con tecniche più sensibili rispetto a quelle tradizionali, accanto al valore prognostico di tali risultati, ha condotto alla necessitĆ  di implementare la valutazione della risposta al trattamento del mieloma con lo studio della MRD.
Nell’agosto del 2016 l’IMWG ha pubblicato una revisione dei criteri di risposta al trattamento del mieloma, includendo la valutazione della MRD mediante le tecniche sopra citate (Tabella VIII) (Kumar S et al, 2016).

 

Ā 

Tabella VIII: Criteri di risposta MRD al trattamento.

 

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A cura di:

Professore Ordinario di Ematologia, UniversitĆ  di Torino; Direttore Dipartimento di Oncologia, Azienda Ospedaliera Universitaria CittĆ  della Salute e della Scienza di Torino.

Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute, UniversitĆ  degli Studi di Torino, SC Ematologia U, AOU CittĆ  della Salute e della Scienza di Torino

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