Linfoma non Hodgkin

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INTRODUZIONE

 

I linfomi non Hodgkin (NHL) sono patologie linfoproliferative clonali che originano dai linfociti B (80-85% dei casi), dai linfociti T (15-20%) o dai linfociti natural killer, NK (rari).
I NHL rappresentano il 4-5% dei casi incidenti di neoplasia nella popolazione maschile e femminile, e sono la nona causa di morte per cancro negli uomini e la sesta nelle donne (Jemal A et al, 2008).
La classificazione dei NHL (Tabella I) si basa attualmente sui criteri proposti dall’Organizzazione Mondiale della SanitĆ  (WHO), inizialmente modellata sulla classificazione REAL del 1994. I NHL si identificano in primo luogo sulla base della cellula di origine (linfocita B, T o NK) e quindi su criteri morfologici, immunofenotipici, genetici e molecolari, integrati con le caratteristiche di presentazione clinica (Swerdlow SH et al, 2008; Swerdlow SH et al, 2016).
In tutti i casi la diagnosi di NHL si deve basare sull’esame istologico di materiale bioptico adeguato. Una biopsia incisionale o escissionale ĆØ sempre raccomandata: dal momento che la classificazione WHO si basa su criteri morfologici e immunoistologici, l’esame citologico di un agoaspirato non può essere considerato un metodo di scelta per la diagnosi di NHL. Tuttavia, nel caso di linfomi leucemizzati, che non presentino localizzazioni adenopatiche facilmente sottoponibili a biopsia, un approccio diagnostico integrato comprendente l’esame morfologico dello striscio di sangue periferico e di aspirato midollare, la caratterizzazione immunofenotipica dei linfociti circolanti in citofluorimetria, la valutazione istologica e immunoistologica della biopsia osteomidollare da parte di ematopatologi esperti, consente una diagnosi di certezza pressochĆ© nella totalitĆ  dei casi. Sempre maggiore rilevanza stanno acquisendo gli approfondimenti citogenetici e molecolari per l’identificazione di profili caratterizzanti forme con caratteristiche prognostiche e predittive utilizzabili nelle decisioni terapeutiche (Onaindia A et al, 2017).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tabella I:Classificazione WHO 2016 delle neoplasie linfoidi.

 

LINFOMI INDOLENTI A CELLULE B

 

Definizione

 

Si tratta di un gruppo eterogeneo di NHL caratterizzati da un decorso non aggressivo, che consente in genere una lunga sopravvivenza anche quando non si ottiene l’eradicazione della malattia.

 

Epidemiologia e fattori di rischio

 

I linfomi indolenti rappresentano circa la metà di tutti i NHL. Il linfoma follicolare rappresenta circa la metà di tutti i casi di NHL indolenti. Seguono per frequenza il linfoma linfocitico e i linfomi della zona marginale, tra i quali i più numerosi sono quelli del tessuto linfoide associato alle mucose (MALT) (Teras LR et al, 2017)(Tabella II).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tabella II: Classificazione e frequenze relative dei linfomi non Hodgkin B indolenti negli adulti

 

 

Negli ultimi anni l’incidenza dei NHL indolenti ĆØ aumentata, anche se in maniera meno evidente rispetto a quella dei linfomi aggressivi. L’etĆ  rappresenta il maggior fattore di rischio associato allo sviluppo di un NHL indolente (l’etĆ  mediana alla diagnosi ĆØ di 60 anni); inoltre queste neoplasie sono più frequenti nel sesso maschile (con alcune eccezioni, come alcune forme di linfoma MALT associato a collagenopatie che prediligono il sesso femminile) e nella razza bianca. In uno studio epidemiologico condotto su una popolazione inglese di 5.796 pazienti con diagnosi di NHL (anni 2004-2012), la frequenza del linfoma follicolare era del 15,9%, con un’etĆ  mediana alla diagnosi significativamente più bassa negli uomini (63,1 anni) che nelle donne (66,3 anni) (Smith A et al, 2015). Anche uno studio retrospettivo condotto sulla popolazione svedese ha evidenziato che gli uomini hanno un’etĆ  alla diagnosi inferiore (64 vs 66 anni, rispettivamente) (Junlen HR et al, 2015). L’incidenza del linfoma primitivo gastrico di tipo MALT, di cui ĆØ nota la stretta associazione con l’infezione da Helicobacter pylori (HP), risulta particolarmente elevata in alcune zone dell’Italia del Nord-Est, probabilmente a causa della maggiore diffusione in tali aree dell’infezione da HP (Doglioni C et al, 1992). Tra gli altri agenti infettivi, il virus HCV riveste un importante ruolo patogenetico nell’insorgenza di patologie linfoproliferative indolenti: studi di metanalisi riportano una prevalenza di HCV-positivitĆ  nettamente superiore nei pazienti con NHL (rischio complessivo di 5,7) rispetto ai controlli, sia nelle zone di endemia per HCV che in quelle a bassa prevalenza di tale infezione (Matsuo K et al, 2004). Questa ipotesi ĆØ supportata dall’efficacia della terapia antivirale con interferone alfa e ribavirina osservata in alcuni casi di linfoma della zona marginale. Recentemente ĆØ stata documentata l’associazione tra linfoma marginale degli annessi oculari e infezione da Chlamydia spp: anche in questo caso la terapia antibiotica (doxiciclina) ĆØ in grado di ottenere la remissione del linfoma in circa il 50% dei pazienti eradicati con successo (Ferreri AJ, 2012).

 

Genetica molecolare

 

I linfomi B indolenti vengono in parte classificati in relazione alla presunta controparte normale del linfocita neoplastico: per quanto lo spettro delle neoplasie linfoidi B ricapitoli lo sviluppo ontogenetico dei linfociti B normali, alcune forme (ad es. la leucemia a cellule capellute) non corrispondono chiaramente a specifici stadi differenziativi. Le indagini genetiche e molecolari mettono spesso in luce anomalie ricorrenti e caratteristiche che meglio definiscono lo stadio di maturazione e di deregolazione della cellula neoplastica.

I precursori linfoidi B vanno normalmente incontro al riarrangiamento delle immunoglobuline di superficie (IgM, IgD), trasformandosi cosƬ in linfociti B naive (CD5+) che circolano nel sangue periferico e si ritrovano nei follicoli linfoidi primari degli organi linfatici e nella zona del mantello: la maggior parte di casi di linfoma mantellare corrisponde a linfociti B CD5+ naive. Dopo l’incontro con l’antigene, i linfociti B proliferano e maturano nel contesto del centro germinativo dei follicoli linfoidi, trasformandosi in centroblasti: questi elementi esprimono CD10 e BCL6, marcatori frequentemente espressi dai linfomi B aggressivi che si presume derivino da essi. I centroblasti vanno incontro ad intensa attivitĆ  proliferativa, sviluppando ipermutazioni somatiche delle catene immunoglobuliniche di superficie. Nel contesto del centro germinativo, l’interazione tra centroblasti e linfociti T e tra centroblasti e cellule follicolari dendritiche determina i processi di selezione negativa e positiva che portano alla maturazione delle cellule allo stadio di centrociti, allo spegnimento di BCL6 e all’espressione della molecola anti-apoptotica BCL2. I linfomi follicolari derivano da cellule B del centro germinativo (CD10+) che hanno perso i meccanismi di controllo apoptotico, nella maggior parte dei casi per effetto del riarrangiamento cromosomico t(14;18) che porta all’iperespressione di BCL2. Uscendo dal centro germinativo, i linfociti B maturi ricircolano nel sangue periferico e si ridistribuiscono nelle zone marginali dei linfonodi, della milza e dei tessuti MALT. I linfomi della zona marginale linfonodale, splenica e MALT corrispondono a linfociti B memory (CD5- CD10-) nella fase di maturazione post-centro germinativo.
Le più caratteristiche alterazioni genetiche e molecolari riscontrate nei linfomi B indolenti sono, come già accennato, la t(14;18) nel linfoma follicolare e la t(11;18) nei linfomi MALT: questa traslocazione determina la formazione di un gene di fusione (API2/MALT1) che determina iperespressione della proteina antiapoptotica API2 e del gene MALT1 che attiva la cascata di segnalazione dipendente da NF-kB.

Negli ultimi anni ĆØ emerso con chiarezza che molte vie di segnalazione che partono dalĀ B-cell receptor (BCR) sono coinvolte nello sviluppo, nella sopravvivenza e nella proliferazione dei linfociti B normali: tali segnali sono implicati, sia in maniera tonica che per attivazione costitutiva a seguito di mutazioni puntiformi, nella patogenesi dei linfomi B indolenti e aggressivi. A seguito di queste osservazioni sono stati progettati e hanno trovato applicazione clinica numerosi farmaci target nei confronti di protein chinasi coinvolte nella via di segnalazione del BCR (Pal Singh S et al, 2018).
Le nuove tecniche di sequenziamento del DNA hanno inoltre consentito di individuare lesioni genetiche ricorrenti in distinti sottotipi di linfomi indolenti. Il linfoma linfoplasmocitico/macroglobulinemia di Waldestrom ĆØ associato in circa il 90% dei casi a una mutazione puntiforme (L265P) del gene MYD88, proteina della via di segnalazione dipendente dai Toll-like receptor, la cui attivazione costitutiva determina aumento della proliferazione cellulare per attivazione diretta e indiretta (attraverso la Bruton’s Tyrosin Kinase) di NF-kB (Treon SP, 2012). La leucemia a cellule capellute ĆØ associata a una mutazione puntiforme (V600E) del gene BRAF, una tirosin chinasi componente della via di segnalazione delle MAP-chinasi che controlla la proliferazione e la differenziazione cellulare (Tiacci E, 2011). Entrambe queste lesioni hanno dimostrato un ruolo patogenetico nei rispettivi linfomi, possono essere usate come marcatore nella diagnosi differenziale con altre forme di linfomi indolenti a presentazione clinica simile e sono bersaglio molecolare per nuove terapie target.
Infine, ĆØ stato ben dimostrato che il microambiente non neoplastico nei linfomi indolenti ĆØ alterato e gioca un ruolo chiave nel determinare la risposta al trattamento e la sopravvivenza (Dave SS et al, 2004). Oltre il 50% della massa neoplastica linfomatosa ĆØ infatti rappresentata da cellule T, cellule B normali, cellule dendritiche e macrofagi. La composizione del microambiente (percentuale di macrofagi CD68+, rapporto tra linfociti CD4/CD8 e T regolatori) ĆØ quindi cruciale nel determinare andamenti clinici eterogenei, come accade in particolare nel linfoma follicolare, anche se gli sforzi fatti per tradurre le conoscenze biologiche sul microambiente in modelli prognostici validati hanno dato finora risultati contraddittori (Fowler NH et al, 2016).

 

Diagnosi differenziale

 

Il linfoma follicolare rappresenta la forma di NHL indolente di più frequente riscontro. Nella maggior parte dei casi la diagnosi istopatologica si basa sui criteri morfologici; in alcuni casi però le anomalie morfologiche possono apparire molto sfumate e l’alternativa diagnostica di linfadenite appare possibile. Inoltre, non sempre ĆØ semplice distinguere un linfoma follicolare da altri NHL caratterizzati da presentazione nodulare (linfoma B a cellule del mantello, linfoma della zona marginale). Le anomalie più comuni del follicolo neoplastico comprendono: la diminuzione di eterogeneitĆ  morfologica (monomorfismo) delle cellule del linfoma, la netta diminuzione dei macrofagi centrofollicolari (con perdita dell’aspetto starry-sky che caratterizza il centro germinativo reattivo), la parziale scomparsa delle aree mantellari, la perdita di ā€œpolarizzazioneā€ e la riduzione dell’attivitĆ  mitotica (e conseguentemente dell’indice proliferativo valutabile tramite immunocolorazione con Ki-67). I linfociti neoplastici del linfoma follicolare esprimono caratteristicamente i marcatori di linea B (CD19, CD20, CD79a) e, nella maggioranza dei casi, il CD10, BCL6, LMO2 e BCL2; normalmente sono negativi per CD5, CD23 e ciclina D1 (Figura I). La valutazione citologica quantitativa delle componenti centroblastica/centrocitica ĆØ importante per definire il grado istologico del linfoma follicolare, definito in base alla conta assoluta di centroblasti (CB) presenti in 10 follicoli neoplastici per campo a forte ingrandimento (CFI). Il grado 1 comprende 0-5 CB x CFI, il grado 2 comprende 6-15 CB x CFI, il grado 3 >15 CB x CFI: si riconoscono inoltre una forma 3a (con presenza di una quota residua di centrociti) e una forma 3b (assenza di centrociti). Quest’ultima condizione presenta un andamento simile a quello dei linfomi aggressivi e come tale viene normalmente trattata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura I. Caratterizzazione dei linfomi follicolari. A) Linfonodo a struttura parzialmente sovvertita, comprendente numerosi noduli neoplastici a fisionomia follicolare (E&E). B) Intensa espressione di CD20 nelle cellule neoplastiche. C) Intensa espressione di CD10 nelle cellule neoplastiche. D) Anomala espressione di bel-2 nei centri germinativi neoplastici. Per confronto, in basso, alcuni follicoli residui mostrano il caratteristico aspetto ā€œa bersaglioā€ con la zona mantellare bcl-2 positiva e il centro germinativo bcl-2 negativo.

 

 

Il linfoma linfocitico rappresenta il corrispettivo istologico della leucemia linfatica cronica da cui si distingue per la presentazione esclusivamente nodale: l’analisi istologica del linfonodo mostra un caratteristico aspetto monomorfo, corrispondente alla proliferazione di piccoli linfociti. Talvolta la componente neoplastica ĆØ limitata alle aree interfollicolari ma frequentemente l’architettura del linfonodo ĆØ sovvertita dalla presenza di pseudofollicoli (i cosiddetti centri di proliferazione), contenenti cellule di medie e grandi dimensioni (prolinfociti, paraimmunoblasti). L’indice mitotico ĆØ molto basso. Le cellule neoplastiche mostrano un immunofenotipo caratteristico (CD5+, CD23+, CD10-, CD43+, CD20 debole, IgM di superficie debole), identico a quello riscontrabile nella leucemia linfatica cronica.
I linfomi della zona marginale (MZL) comprendono forme a localizzazione splenica, nodale ed extranodale (MALT), queste ultime a loro volta suddivise in linfomi primitivi extranodali gastrici e non-gastrici. Il tipico immunofenotipo del MZL ĆØ CD5-, CD10-, CD20+, CD23-/+, CD43-/+, ciclina D1-, BCL2-, CD103-. La negativitĆ  per CD5 ĆØ importante per escludere una leucemia linfatica cronica B o un linfoma a cellule del mantello. Le indagini molecolari e citogenetiche possono mettere in evidenza caratteristiche anomalie cromosomiche con significato sia diagnostico che prognostico e/o predittivo (Tabella III). Ad esempio, la scoperta che una mutazione attivante di MYD88 ĆØ associata alla maggior parte dei casi di linfoma linfoplasmocitico ha consentito di mettere a punto una metodica PCR allele-specifica utile per inquadrare meglio questa neoplasia che spesso si presenta con caratteristiche cliniche e istopatologiche sovrapponibili ad altre forme, quali i MZL (Xu L, 2013). Va sottolineato che i test genetico-molecolari devono sempre essere integrati in una diagnostica clinica, di laboratorio e istopatologica, dal momento che nessuna alterazione molecolare nei linfomi indolenti ĆØ patognomonica di una singola entitĆ  nosologica (Bogusz AM & Bagg A, 2016).

 

 

 

 

 

 

Tabella III: Caratteristiche morfologiche, immunofenotipiche, citogenetiche e molecolari utili nella diagnosi differenziali dei linfomi non Hodgkin B indolenti

 

 

Presentazione clinica

 

L’esordio clinico dei linfomi indolenti ĆØ generalmente subdolo. Nelle forme a localizzazione prevalentemente nodale, il segno tipico di esordio ĆØ la presenza di linfoadenomegalia, spesso diffusa, sia superficiale che profonda. Talvolta il paziente riferisce che l’ingrossamento linfonodale ĆØ stato notato da tempo e ha presentato un andamento fluttuante. La coesistenza di sintomi sistemici, quali febbre, sudorazione e calo ponderale, ĆØ infrequente; talora vengono riferiti lieve malessere generale, astenia o senso d’ingombro addominale nei casi con importante adenomegalia profonda retroperitoneale o splenomegalia. Nel caso dei linfomi indolenti primitivi extranodali, quali i linfomi MALT, il quadro d’esordio ĆØ generalmente condizionato dall’organo interessato dal linfoma.

 

Stadiazione e monitoraggio

 

Fatta eccezione per i linfomi MALT, nei quali le cellule linfomatose hanno una ridotta tendenza a diffondere al di fuori dei siti extranodali coinvolti, i linfomi indolenti sono quasi inevitabilmente diagnosticati in stadio avanzato, e una quota minoritaria (<10-20%) sono in stadio localizzato. L’infiltrazione osteomidollare ĆØ comune, cosƬ come la leucemizzazione: l’esame microscopico e citofluorimetrico del sangue periferico ĆØ in grado di evidenziare la presenza di elementi neoplastici clonali in circa il 50% dei linfomi follicolari, nell’80-90% dei linfomi marginali splenici e, in quota minore, nelle altre malattie linfoproliferative indolenti. La forte prevalenza di stadi avanzati riduce il valore prognostico del tradizionale sistema classificativo di Ann Arbor, che pur rimane il sistema di riferimento per la stadiazione dei NHL. Per la stadiazione dei linfomi primitivi extranodali MALT dello stomaco vengono comunemente impiegato anche lo schema ā€œdi Luganoā€e lo schema di Parigi (Tabella IV), che riflettono meglio la diffusione locale di questo tipo di neoplasia (Zucca E et al, 2000; Ruskone-Fourmestraux A et al, 2003).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tabella IV: Stadiazione dei linfomi gastrointestinali, confronto degli schemi di Ann Arbor, Lugano e Parigi

 

 

La stadiazione dei NHL si basa su un’accurata anamnesi e un attento esame obiettivo, per valutare le condizioni generali del paziente (performance status secondo la scala ECOG/WHO), le sedi, il numero, le dimensioni e le caratteristiche dei linfonodi superficiali e la presenza di eventuale epato-splenomegalia. Gli esami di laboratorio includono l’emocromo, gli indici di flogosi sistemici (VES, fibrinogenemia, ferritinemia, alfa2-globuline, proteina C reattiva), le indagini di funzionalitĆ  epatica e renale, il dosaggio della LDH sierica e della beta2-microglobulinemia. In tutti i pazienti ĆØ indispensabile uno screening sierologico per i virus epatitici (HBV , HCV) che, oltre a rivestire un potenziale ruolo patogenetico, possono condizionare le scelte terapeutiche. Nel caso dei linfomi MALT dello stomaco ĆØ inoltre richiesta la ricerca diretta dell’HP, che in genere viene eseguita consensualmente alla valutazione istologica della biopsia gastrica. La diagnostica per immagini deve comprendere la radiografia standard del torace, l’ecografia addominale e la tomografia computerizzata (TAC) toraco-addominale. L’esecuzione della FDG-PET ĆØ oggi un’indagine raccomandata alla diagnosi – anche se non obbligatoria – in tutti i pazienti con linfomi nodali captanti il FDG (ossia tutte le istologie ad eccezione del linfoma linfocitico, del linfoma linfoplasmocitico e dei linfomi della zona marginale) (Barrington SF, 2014). La FDG-PET risulta più efficiente rispetto alla TAC nell’individuare soprattutto le localizzazioni extralinfonodali (Moog F, 1998) e consente di attribuire uno stadio superiore rispetto alle metodiche radiologiche convenzionale (inclusa la TAC) nel 15-30% dei pazienti (Jerusalem G, 2001; Smith SD, 2015). Un’analisi condotta su 142 pazienti arruolati nello studio prospettico randomizzato multicentrico FOLL05 della Fondazione Italiana Linfomi ha dimostrato che la FDG-PET individua un diverso numero di siti nodali ed extranodali rispetto alla TAC nel 43% dei pazienti con linfoma follicolare; in particolare 15 su 24 pazienti classificati in stadio iniziale con la stadiazione convenzionale sono risultati essere in stadio III o IV sulla base della FDG-PET e il 24% dei pazienti era allocato in un diverso gruppo di rischio FLIPI (Luminari S, 2013). Una metanalisi dei lavori che hanno impiegato la FDG-PET nella stadiazione dei linfomi follicolari ha stimato che il 19% dei pazienti possa ricadere in uno stadio diverso da quello definito dalla radiologia convenzionale; tuttavia, va ricordata la possibilitĆ  di false positivitĆ  e, in particolare nel caso di lesioni PET-positive inusuali o a distanza dai siti nodali maggioramente interessati, i rilievi PET andrebbero confermati istologicamente prima di prendere decisioni terapeutiche sulla base di essi (Smith SD, 2015). La valutazione quantitativa mediante misurazione dello Standardized Uptake Value (SUV) consente una specifica e sensibile individuazione del coinvolgimento osteomidollare (Perry C et al, 2016). Inoltre, lesioni ad elevato SUVmax correlano con il grado istologico e l’indice di proliferazione Ki-67 (Novelli S et al, 2015): le sedi con SUV elevato (>11-14) andrebbero ove possibile sottoposte a valutazione istologica nel sospetto di trasformazione istologica in linfoma ad alto grado (Wondergem M et al, 2015).
Nei linfomi primitivi gastrici ĆØ raccomandabile eseguire un esame eco-endoscopico che consente di valutare con precisione il grado di infiltrazione linfomatosa della parete dello stomaco e l’eventuale interessamento di linfonodi adiacenti, di solito sottostimati da altre indagini. Infine, i pazienti per i quali si preveda una chemioterapia contenente antracicline devono essere sottoposti ad indagine ecocardiografica. La stadiazione va completata in tutti i pazienti con l’esame del midollo osseo sia citologico (striscio midollare) che istologico (agobiopsia ossea, BOM). Il materiale ottenuto con l’aspirato midollare si presta inoltre per le indagini citogenetiche e molecolari. Nella stadiazione e nel monitoraggio del linfoma follicolare possono essere utilizzati metodi di biologia molecolare (PCR e real-time PCR) per evidenziare la presenza (o la persistenza) di cellule con t(14;18), e/o presenza di riarrangiamento clonale dei geni delle immunoglobuline. La valutazione della malattia residua minima nel linfoma follicolare risulta particolarmente utile nel contesto delle nuove strategie terapeutiche finalizzate all’eradicazione della malattia ma va al momento considerata all’interno di studi e non come indagine di routine nella pratica clinica.

 

Fattori prognostici

 

La disponibilitĆ  negli ultimi anni di trattamenti più efficaci nei confronti dei linfomi indolenti ha messo in luce la necessitĆ  di disporre di parametri di valutazione prognostica affidabili tali da consentire, caso per caso, scelte terapeutiche commisurate al rischio. In particolare, nel linfoma follicolare sono stati individuati vari parametri clinico-laboratoristici con valore predittivo all’analisi multivariata, tra i quali: etĆ , stadio, massa tumorale, infiltrazione midollare, sintomi B, performance status, livelli di LDH, emoglobina, VES e beta2-microglobulina sierica. L’applicazione nei linfomi follicolari, e in generale nei NHL indolenti, dell’International Prognostic Index (IPI), concepito, validato e impiegato su vasta scala nei linfomi aggressivi, non ha dato risultati del tutto soddisfacenti, vista l’esiguitĆ  dei pazienti classificati ad alto rischio con tale schema. E’ stato quindi formulato, su un’analisi retrospettiva di oltre 4.000 casi, un “Follicular Lymphoma International Prognostic Indexā€ (FLIPI), in cui assumono significato prognostico negativo i seguenti fattori: etĆ  ≄60 anni, stadio III-IV di Ann Arbor, emoglobina <12g/dl, livelli sierici di LDH aumentati, >4 stazioni nodali coinvolte. I pazienti con un rischio basso (0-1 fattori di rischio) hanno una probabilitĆ  di sopravvivenza a 10 anni del 70% circa, mentre i pazienti ad alto rischio (≄3 fattori prognostici sfavorevoli) hanno una sopravvivenza a 10 anni pari a solo il 35% (Solal-Celigny P et al, 2004). Un secondo indice prognostico, denominato FLIPI2, ĆØ stato sviluppato in maniera prospettica in pazienti trattati nell’era rituximab: le variabili prognostiche indipendenti individuate in questo score sono l’etĆ  ≄60 anni, la presenza di adenopatie >6 cm, livelli elevati di β2-microglobulina, emoglobina <12 g/dl e presenza di interessamento midollare (Federico M et al, 2009). Anche in questo caso la sopravvivenza ĆØ significativamente diversa nei pazienti a basso, intermedio e alto rischio (79% vs 51% vs 20% a 5 anni, rispettivamente) (Tabella V).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tabella V: Follicular Lymphoma International Prognostic Index (FLIPI e FLIPI2)

 

 

Uno dei principali limiti degli score FLIPI e FLIPI2 ĆØ che non forniscono informazioni sulla necessitĆ  di trattamento: ad esempio, un paziente giovane con stadio I o II dato dalla presenza di localizzazione bulky addominale con o senza interessamento di altre sedi linfonodali ha generalmente livelli normali di emoglobina e verrebbe classificato a basso rischio pur essendo chiaramente candidato a iniziare subito il trattamento; al contrario, pazienti anziani con adenopatie disseminate di modeste dimensioni sono classificati ad alto rischio pur potendo in molti casi essere gestiti con un approccio di ā€œwatch & waitā€. Più recentemente sono stati proposti due ulteriori modelli prognostici. Lo score PRIMA-PI ĆØ un semplice modello a due parametri (interessamento osteomidollare e beta 2 microglobulina >3 mg/L) che divide i pazienti in tre gruppi di rischio (Bachy E et al, 2018). Lo studio dello stato mutazionale di 151 pazienti con linfoma follicolare alla diagnosi ha portato a valorizzare 7 geni prognosticamente rilevanti, costruendo un modello prognostico clinico-molecolare (m7 FLIPI) con maggior potere predittivo della failure-free survival a 5 anni dal trattamento R-CHOP (Pastore A et al, 2015). Questi modelli sono giĆ  validati internamente o esternamente ma richiedono ulteriori studi; inoltre, l’analisi mutazionale non rientra al momento tra le indagini consigliate nella routine clinica.

Infine, la durata di risposta al trattamento iniziale rappresenta, come in altre patologie, un importante indice prognostico dinamico nel linfoma follicolare: la ricaduta/progressione entro 2 anni dalla terapia frontline (POD24) definisce un gruppo di pazienti con sopravvivenza significativamente inferiore (50% vs 90% a 5 anni) (Casulo C et al, 2015). Il sesso maschile, uno scarso performance status, un rischio FLIPI alto e livelli di beta2-microglobulina >3 mg/L sono risultati fattori di rischio indipendente per POD24 in una metanalisi di 13 studi clinici randomizzati includenti oltre 5.000 pazienti con linfoma follicolare (Casulo C et al, 2017).
Nel caso del linfoma linfocitico i fattori prognostici principali sono, come per la leucemia linfatica cronica, lo stato mutazionale dei geni immunoglobulinici e la presenza di del17p e di mutazione di p53.

I linfomi MALT a basso grado dello stomaco presentano in genere un decorso particolarmente indolente, con scarsa tendenza alla diffusione anche in assenza di terapia, tranne nei casi con interessamento linfonodale giĆ  rilevabile alla diagnosi. Anche un’infiltrazione in profonditĆ  della parete gastrica, evidenziabile istologicamente o mediante eco-endoscopia, costituisce un fattore di rischio per la diffusione del linfoma. I linfomi MALT non gastrici presentano complessivamente una prognosi più sfavorevole rispetto alle forme localizzate allo stomaco, sebbene mantengano generalmente una scarsa tendenza a diffondere al di fuori dei tessuti di tipo MALT. La diffusione linfonodale cosituisce un fattore di rischio per l’evoluzione in alto grado (Zucca E et al, 2003). Recentemente ĆØ stato proposto uno score prognostico specifico per pazienti con linfomi MALT (MALT-IPI), usando le informazioni dei 401 pazienti arruolati nello studio IELSG-19 e validando i fattori prognostici su una coorte indipendente di 633 pazienti: la presenza di 0, 1 o ≄2 fattori (etĆ  ≄70 anni, stadio III o IV, elevati livelli di LDH) conferisce una EFS a 5 anni del 70%, 56% e 29% rispettivamente (Thieblemont C et al, 2017a) (Figura II).
Nei pazienti con linfoma linfoplasmocitico asintomatico la presenza di livelli di IgM superiori a 45 g/L, infiltrazione midollare superiore al 70%, beta2-microglobulina superiore a 4 mg/dL e albumina sierica inferiore a 35 g/L rappresentano fattori indipendenti predittivi di progressione a malattia sintomatica con un tempo mediano alla progressione che va da 1,8 anni per i pazienti alto rischio a 9,2 anni per i pazienti a basso rischio (Bustoros M et al, 2019). Per i pazienti con linfoma linfoplasmocitico sintomatico ĆØ disponibile un modello prognostico basato su etĆ , livelli di beta2-microglobulina, LDH e albumina (Kastritis E et al, 2019). La presenza di mutazioni/delezioni della p53 ĆØ predittiva di cattiva prognosi, anche se tale esame viene raramente valutato nella pratica clinica (Poulain S et al, 2017).

 

 

Figura II: Curve Kaplan-Meier di sopravvivenza libera da eventi (EFS), sopravvivenza legata alla malattia (CSS) e sopravvivenza globale (OS) nei pazienti con 0 (basso rischio), 1 (rischio intermedio) o <=2 (alto rischio) fattori tra i seguenti: etĆ  >=70 anni; stadio Ann Arbor III o IV; LDH elevato (da Thieblemont C et al, 2017a)

 

 

Trattamento

 

Linfoma follicolare: trattamento di prima linea. I pazienti con malattia localizzata (stadio I-II non bulky) sono rari (<20%) (Michallet A Set al, 2013) e asintomatici e il loro trattamento precoce ĆØ giustificato dall’obiettivo di una possibile eradicazione completa con sola radioterapia ā€œinvolved-siteā€ 24 Gy (Hoskin PJ et al, 2014). Le recidive, tuttavia, si verificano in almeno il 50% dei pazienti in stadio I e nel 70-75% dei pazienti in stadio II, a testimonianza della presenza di malattia che sfugge alle metodiche stadiative al di fuori delle presunte uniche localizzazioni che vengono irradiate, dalle quali si sviluppa la recidiva. Infatti, le recidive non interessano per lo più le sedi irradiate, mentre frequente ĆØ il coinvolgimento midollare. Uno studio randomizzato ha evidenziato che l’aggiunta di chemioimmunoterapia (R-CVP) alla radioterapia ā€œinvolved-fieldā€ riduce del 74% il rischio di progressione sistemica, senza differenze tuttavia nella sopravvivenza a 10 anni (MacManus M et al, 2018).

I pazienti con malattia avanzata (stadio II bulky, III-IV) sono spesso asintomatici alla diagnosi. Nonostante la disponibilitĆ  di nuove armi terapeutiche abbia spostato la bilancia a favore del trattamento, i pazienti asintomatici dovrebbero ancora essere sottoposti al solo follow-up periodico (“watch and wait”) (Ardeshna KM et al, 2003). Tra i criteri che giustificano l’inizio di un trattamento vi sono le seguenti indicazioni: sintomi sistemici, compromissione d’organo legata alla presenza di localizzazioni linfomatose, citopenia secondaria a infiltrazione midollare, malattia bulky o in rapida progressione (Brice P et al, 1997) (Tabella VI).

 

 



Tabella VI: Criteri per differire il trattamento nei pazienti con linfoma follicolare

 

 

La scelta del trattamento dipende dall’etĆ  del paziente, dall’estensione di malattia, dalle comorbiditĆ  e, non ultimo, dal risultato che si vuole ottenere. Nei pazienti anziani e/o in condizioni generali scadute devono essere impiegate strategie terapeutiche mirate a preservare la qualitĆ  di vita, oltre che la sopravvivenza. La monoterapia con l’anticorpo monoclonale anti-CD20 rituximab determina una risposta globale del 67% nei pazienti mai sottoposti a precedente chemioterapia, e del 46% nei pazienti pretrattati ma la durata della risposta, attorno a 12 mesi, non ĆØ soddisfacente (Ghielmini M et al, 2004).
La chemioimmunoterapia ĆØ l’opzione di scelta per la maggior parte dei pazienti (Dreyling M et al, 2016a). Il trattamento con rituximab e polichemioterapia (basata su antracicline – ad es. CHOP – o meno – ad es. CVP) determina tassi di risposta, durata di risposta e progressione libera da malattia (PFS) superiori rispetto all’impiego della sola chemioterapia (Hiddemann W et al, 2005; Marcus R et al, 2008) (Tabella VII).

 

 

 

Tabella VII: Trials randomizzati chemioterapia vs immunochemioterapia nel linfoma follicolare

 

 

Uno studio italiano randomizzato tra R-CVP, R-CHOP e R-FM (fludarabina e mitoxantrone) ha mostrato tassi di risposta globale dell’88-91%; la PFS dei regimi contenenti antracicline ĆØ risultata superiore a quella dello schema R-CVP, senza differenze nella overall survival (OS). Gli schemi contenenti antracicline sono stati associati a maggior frequenza di citopenie e infezioni e la fludarabina a un più alto rischio di neoplasie secondarie (Federico M et al, 2013). Questi dati sono stati aggiornati con un follow-up mediano di 7 anni, confermando che la OS (83%) non differisce tra i 3 bracci ma i pazienti trattati senza antracicline hanno maggiore necessitĆ  di ricevere successivi trattamenti (Luminari S et al, 2018). Uno studio randomizzato ha dimostrato la non inferioritĆ  in prima linea del trattamento con bendamustina e rituximab (BR) rispetto alla chemioterapia R-CHOP (Rummel MJ, 2013), evidenziando inoltre una minore tossicitĆ  ematologica ed extraematologica e un miglioramento della qualitĆ  di vita nei pazienti trattati con bendamustina (Burke JM et al, 2016). Ad un follow-up mediano di 45 mesi, la PFS mediana dei pazienti randomizzati a ricevere lo schema BR ĆØ risultata significativamente superiore a quella dei pazienti trattati con R-CHOP (69,5 mesi vs 31,2 mesi). Tali evidenze hanno consentito la registrazione di bendamustina come terapia di prima linea nei linfomi B indolenti, in associazione a rituximab. L’impiego di rituximab per via sottocutanea in associazione a chemioterapia ĆØ risultato di pari efficacia rispetto al rituximab per via endovenosa in associazione ai medesimi schemi di terapia, e il profilo di sicurezza ĆØ risultato simile (Davies A et al, 2017).

Lo studio internazionale randomizzato GALLIUM ha confrontato obinutuzumab (1000 mg ai giorni 1, 8, 15 del ciclo 1 e al giorno 1 dei cicli successivi) vs rituximab (375 mg/mq al giorno 1 di ciascun ciclo) + chemioterapia a scelta dello sperimentatore (CHOP, CVP o bendamustina) come terapia di prima linea in 1202 pazienti con linfoma follicolare in stadio avanzato, seguito da mantenimento con il medesimo anticorpo usato in induzione (ogni 2 mesi per 2 anni) nei pazienti in risposta completa o parziale al termine dell’induzione. La PFS a 3 anni ĆØ risultata superiore nei pazienti trattati con obinutuzumab (80% vs 73,3%), senza differenze nella sopravvivenza globale (Figura III). I pazienti trattati con obinutuzumab hanno sperimentato una più alta incidenza di infezioni severe e reazioni infusionali severe (Marcus R et al, 2017). Il rischio di progressione entro 24 mesi dalla diagnosi (POD24) ĆØ inferiore per i pazienti trattati con G-chemio rispetto a quelli trattati con R-chemio (incidenza cumulativa 12% vs 19% rispettivamente) mentre la sopravvivenza post-progressione ĆØ risultata simile e sfavorevole in entrambi i bracci di randomizzazione (Seymour JF et al, 2019).

 

 

 

Figura III: Curve Kaplan-Meier di sopravvivenza libera da progressione (PFS) e sopravvivenza globale (OS) nei pazienti con linfoma follicolare di nuova diagnosi trattati con obinutuzumab e chemioterapia vs rituximab e chemioterapia (da Marcus R, 2017).

 

 

Questi dati hanno portato all’approvazione di obinutuzumab in associazione a chemioterapia nei pazienti con linfoma follicolare avanzato di nuova diagnosi, seguito da obinutuzumab come terapia di mantenimento nei pazienti che ottengono risposta. La rimborsabilitĆ  in Italia ĆØ limitata ai pazienti con rischio FLIPI intermedio e alto.
Un recente studio randomizzato (RELEVANCE) ha confrontato un trattamento chemio-free basato sull’associazione di lenalidomide e rituximab per 18 cicli rispetto al trattamento chemioimmunoterapico standard (R-CHOP, R-CVP o R-B), seguito da mantenimento con 6 dosi di rituximab in entrambi i bracci. Le due strategie hanno determinato tassi di risposta completa e PFS a 3 anni simili. BenchĆØ lo studio abbia fallito l’endpoint primario di superioritĆ , ipotizzato sulla base di tassi sorprendentemente alti di risposta in un precedente studio di fase 2 (Martin P et al, 2017), i pazienti trattati senza chemioterapia hanno avuto minore tossicitĆ  ematologica e infettiva (Morschhauser F et al, 2018).

La radioimmunoterapia (RIT) con 90Y-ibritumomab tiuxetan da solo o a seguito di breve regime di immunochemioterapia si ĆØ dimostrata in grado di indurre elevati tassi di remissione completa (RC) e PFS. Lo studio randomizzato FIT ha mostrato che l’impiego della RIT adiuvante a seguito della chemioterapia di induzione (non contenente rituximab) determina tassi di RC e PFS significativamente superiori rispetto ai pazienti trattati con la sola chemioterapia: il beneficio in termini di PFS si mantiene anche nel gruppo di pazienti in RC dopo la terapia di induzione, indicandoĀ  che una terapia di consolidamento può migliorare i risultati della terapia di prima linea nel linfoma follicolare (Morschhauser F et al, 2008) (Figura IV).

 

 

 

Figura IV. Schema dello studio randomizzato FIT. A)Schema dello studio. B) Curve Kaplan-Meier di sopravvivenza libera da progressione (PFS) nei pazienti che avevano ottenuto una remissione parziale dopo il trattamento di induzione. C) Curve Kaplan-Meier di PFS nei pazienti che avevano ottenuto una remissione completa/remissione completaĀ  non confermata dopo il trattamento di induzione.

 

 

Un follow-up aggiornato a oltre 7 anni conferma la superioritĆ  della PFS nel braccio trattato con la RIT di consolidamento rispetto al gruppo di controllo (41% vs 22%), evidenziando un tempo mediano al ritrattamento di 8,1 anni nel braccio RIT vs 3 anni nel braccio di controllo (Morschhauser F, 2013). Studi successivi hanno confermato il beneficio del consolidamento con RIT anche quando i pazienti avevano ricevuto in induzione immunoterapia con rituximab associata a CHOP (Jacobs SA et al, 2008) o bendamustina (Lansigan F et al, 2019).

 

La terapia ad alte dosi sequenziale seguita da trapianto autologo di cellule staminali (HDS/ASCT) in combinazione con rituximab come terapia di prima linea del linfoma follicolare con fattori prognostici sfavorevoli ĆØ stata indagata in uno studio prospettico randomizzato che ha mostrato come la terapia R-HDS, rispetto al tradizionale schema CHOP-R, determini un tasso maggiore di risposte molecolari, ma questo vantaggio non si traduce in un miglioramento della sopravvivenza dei pazienti, in quanto i pazienti che ricadono o sono refrattari alla terapia convenzionale possono ancora beneficiare del ricorso alla R-HDS/ASCT (Ladetto M et al, 2008) (Figura V). Un follow-up del medesimo studio, a una mediana di 13 anni, ha confermato identica sopravvivenza nei gruppi (66% complessivamente) e ha evidenziato come l’ottenimento della RC dopo chemioimmunoterapia sia il parametro più importante per la sopravvivenza, indipendentemente dal tipo di trattamento; inoltre, circa un terzo dei pazienti in questo studio risultano liberi da recidiva a oltre 10 anni dal trattamento, dimostrando il potenziale curativo dell’immunochemioterapia in una proporzione di pazienti con linfoma follicolare (Bruna R et al, 2019).

 

 

 

Figura V: A) Schema dello studio GITMO/IIL. B) Curve Kaplan-Meier di sopravvivenza globale (OS): confronto tra i due bracci di trattamento. C) Curve Kaplan-Meier di sopravvivenza libera da progressione (PFS): confronto tra i due bracci di trattamento. D) Curve Kaplan-Meier di PFS: confronto tra i pazienti che ottengono la remissione molecolare (PCR-), indipendentemente dal braccio di trattamento e di quelli che non la ottengono (PCR+).

 

 

Linfoma follicolare: terapia di mantenimento. Numerosi studi hanno indagato il ruolo del mantenimento con rituximab , e più recentemente con obinutuzumab, sia nei pazienti trattati in prima linea che in recidiva. In particolare, lo studio PRIMA ha evidenziato un beneficio di PFS a 3 anni (75% vs 58%) per i pazienti randomizzati a mantenimento con rituximab rispetto a placebo (Salles G et al, 2011) e un recente aggiornamento dello studio con un follow-up mediano di 9 anni ha confermato il beneficio della terapia di mantenimento sulla PFS (mediana 10,5 vs 4,1 anni) (Bachy E et al, 2019). Pur in presenza di alcune controversie, tra cui la possibile insorgenza di effetti collaterali a lungo termine, il ruolo del mantenimento nel linfoma follicolare appare oggi consolidato e uno studio di metanalisi ha concluso che il mantenimento con rituximab ĆØ in grado di migliorare non solo la PFS ma anche la sopravvivenza dei pazienti con linfoma follicolare (Vidal L et al, 2009). Tuttavia, un’analisi post-hoc dei pazienti arruolati allo studio GALLIUM ha evidenziato un’alta proporzione di eventi avversi fatali nei pazienti trattati con chemioterapia contenente bendamustina: questi decessi avvenivano nella fase di mantenimento, erano simili nei due bracci dello studio (rituximab e obinutuzumab) e riguardavano soprattutto pazienti anziani (Hiddemann W et al, 2018). Sia efficacia che sicurezza del mantenimento dopo trattamento con bendamustina richiedono quindi ulteriori conferme, anche alla luce del sempre maggior impiego di questo farmaco in prima linea nella pratica clinica.

 

Linfoma follicolare: trattamento della recidiva.Ā  Nei pazienti recidivati/refrattari ĆØ in genere indicata una nuova verifica istologica, sopratttutto in presenza di un SUV elevato alla TAC/PET, per escludere una trasformazione istologica , in particolare nei casi con livelli aumentati di LDH, masse linfonodali in rapido accrescimento, sviluppo di sintomi sistemici. I pazienti in cui non si documenti trasformazione in un NHL aggressivo possono nuovamente beneficiare di una strategia di “watch and wait”, in particolare se anziani, con comorbiditĆ  e nel caso in cui non siano presenti criteri che rendano necessario un trattamento, analogamente a quanto avviene nei pazienti non pre-trattati. I pazienti con linfomi follicolari ricaduti/refrattari con necessitĆ  di trattamento, e tutti i casi in cui si documenti trasformazione istologica, possono essere trattati con rituximab associato a regimi di polichemioterapia basati in genere sull’impiego di farmaci non impiegati nella terapia di prima linea (ad es. fludarabina o bendamustina) o con RIT Ā (Witzig TE et al, 2002; Forstpointner R et al, 2004; Rummel MJ, 2005; Illidge TM et al, 2016). L’impiego di nuovi anticorpi monoclonali anti-CD20 e di farmaci target ha recentemente ampliato le possibilitĆ  di trattamento per i pazienti con linfoma follicolare in recidiva.
Ofatumumab ha dimostrato scarsa efficacia come agente singolo in pazienti altamente pretrattati e refrattari a rituximab (Czuczman M, 2012a) mentre la combinazione di ofatumumab e CHOP in 58 pazienti con linfoma follicolare non pretrattati ha determinato un tasso di risposta globale del 100% e di RC del 38% (Czuczman M, 2012b). Obinutuzumab (dose 1600 mg 1° ciclo, 800 mg cicli 2-8) si ĆØ dimostrato efficace quale agente singolo nell’indurre una risposta nel 55% dei pazienti con linfoma follicolare pretrattati e resistenti a rituximab, con un profilo di tossicitĆ  favorevole (Salles GA, 2013)e la combinazione G-CHOP o G-FC ha determinato una risposta obiettiva nel 93-96% dei pazienti con linfoma follicolare ricaduto/refrattario: lo schema G-CHOP si ĆØ dimostrato meno tossico (Radford J, 2013).La terapia di mantenimento con obinutuzumab ogni 3 mesi per 2 anni nei pazienti dello stesso studio che avevano ottenuto una risposta dopo la terapia di induzione ha consentito di migliorare la percentuale di RC dal 39% al 52% nel braccio G-CHOP e dal 59% all’82% nel braccio G-FC (Davies A, 2013). In uno studio randomizzato di confronto tra bendamustina e bendamustina + obinutuzumab seguito da mantenimento con obinutuzumab in pazienti ricaduti/refrattari a rituximab, il trattamento con obinutuzumab ha dimezzato il rischio di progressione (Sehn, 2016)Ā e un follow-up dello studio ha documentato un beneficio anche sulla sopravvivenza globale (Cheson BD et al, 2018) (Figura VI). In base a questi risultati obinutuzumab (in associazione a bendamustina e seguito da obinutuzumab in mantenimento) ĆØ stato approvato per il trattamento dei pazienti con linfoma follicolare che non rispondono o che hanno avuto progressione di malattia durante o fino a 6 mesi dopo il trattamento con rituximab o un regime contenente rituximab.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura VI

 

 

La lenalidomide ha mostrato un interessante profilo di efficacia sia come agente singolo in pazienti con linfoma follicolare ricaduto, sia in associazione con la chemioterapia o l’immunoterapia. In uno studio di fase 2 su 80 pazienti con linfoma follicolare non pretrattato con alto tumor burden, la combinazione lenalidomide 25 mg al giorno per 14 giorni più R-CHOP-21 ha consentito di ottenere la RC nel 74% dei pazienti trattati (Tilly H et al, 2018). La combinazione di lenalidomide e rituximab ha consentito di ottenere una risposta nel 76% dei pazienti, una RC nel 39%, e una PFS di 2 anni, risultati significativamente superiori a quelli ottenuti con la lenalidomide in monoterapia (Leonard JP, 2015). Ciò ha fornito il razionale per uno studio di fase 3 di confronto tra lenalidomide e rituximab contro rituximab e placebo (studio AUGMENT) in 358 pazienti con linfomi indolenti ricaduti/refrattari (82% con linfoma follicolare): lo studio ha mostrato che la combinazione determina un beneficio significativo in termini di PFS (mediana 39,4 vs 14,1 mesi) e OS a 2 anni (95% vs 86%) (Leonard JP et al, 2019).

Dati interessanti sono venuti dagli studi condotti per valutare l’azione dei nuovi inibitori orali delle tirosin chinasi implicate nellaĀ via di segnalazione del BCR . Il trattamento con idelasilib in pazienti ricaduti/refrattari dopo terapia con rituximab+alchilanti (linfoma follicolare, n=72; linfoma linfocitico, n=28; linfoma marginale, n=15; linfoma linfoplasmocitico, n=10) ha determinato risposte nel 57% dei pazienti (6% RC) con una durata mediana della risposta di 12,5 mesi (Gopal AK, 2014).Ā La combinazione di idelasilib, rituximab e bendamustina ĆØ stata particolarmente efficace senza tossicitĆ  inattese (De Vos S et al, 2016), tuttavia successivi studi di combinazione tra idelalisib e chemioterapia sono stati interrotti per eccesso di eventi avversi, in particolar modo infezioni severe e atipiche. Idelasilib ĆØ approvato in monoterapia per i pazienti con linfoma follicolare ricaduto dopo almeno due precedenti linee di trattamento. Altri due inibitori di PI3K (copanlisib e duvelisib) hanno dimostrato simile efficacia e simile profilo di tossicitĆ  nei pazienti con linfoma follicolare ricaduto (Dreyling M et al, 2017; Flinn IW et al, 2019).
L’inibitore di BCL2 venetoclax (ABT-199), impiegato in NHL ricaduti di varia origine, ha indotto un tasso di risposta globale nel 38% dei pazienti con linfoma follicolare con una durata mediana della risposta di 11 mesi (Davids MS et al, 2017).
In conclusione, la maggior disponibilitĆ  di anticorpi monoclonali e farmaci target ha ampliato le possibilitĆ  di trattamento dei pazienti con linfoma follicolare in ricaduta. Anche se l’etĆ  media di questi pazienti preclude in molti casi il ricorso a procedure trapiantologiche, pazienti giovani con malattia chemiosensibile al trattamento di seconda linea possono essere considerati per un consolidamento con terapia sequenziale ad alte dosi seguita da trapianto autologo di cellule staminali, in associazione con rituximab.Ā Il trapianto allogenico di cellule staminaliĀ , basato su regimi di condizionamento mieloablativi o a intensitĆ  ridotta, va considerato in pazienti selezionati, in particolare quelli ricaduti dopo una prima remissione durata meno di 12 mesi (Evens AM et al, 2013; Lunning MA et al, 2016; Sureda A et al, 2018; Smith SM et al, 2018). Il trattamento con cellule CAR-T (descritte più in dettaglio nella sezione dei linfomi aggressivi) può essere considerato in pazienti plurirecidivati e, in particolare, in quelli con linfoma follicolare in trasformazione istologica (Hirayama AV et al, 2019).

Linfoma linfocitico. I rari casi di linfoma linfocitico in stadio I possono essere trattati con la sola radioterapia loco-regionale. Molto più di frequente, tuttavia, la malattia si presenta con interessamento nodale diffuso, o recidiva in forma diffusa dopo trattamento locale di forme localizzate: in questi casi il trattamento si basa sulla chemioterapia +/- immunoterapia in maniera sostanzialmente identica al trattamento della leucemia linfatica cronica.

Linfoma della zona marginale. a) Linfoma MALT gastrico: la scoperta che la maggior parte dei linfomi primitivi extranodali MALT dello stomaco ĆØ associata ad infezione da HP ha modificato radicalmente l’atteggiamento terapeutico in questo tipo di linfoma. Attualmente in tutti i pazienti con malattia localizzata il trattamento di prima linea ĆØ rappresentato dalla terapia eradicante per l’HP basata sulla triplice associazione di inibitore di pompa protonica, claritromicina e amoxicillina o metronidazolo per 10-14 giorni: tale schema consente di ottenere la regressione del linfoma in circa i 2/3 dei casi (Zullo A, 2010). L’efficacia dell’eradicazione va confermata mediante breath test o ricerca antigenica fecale di HP dopo almeno 6 settimane dal completamento della terapia. In caso di resistenza dell’HP ĆØ indicato un tentativo con terapia eradicante di seconda linea basata sulla combinazione a tre o quattro farmaci comprendenti inibitore di pompa protonica, sali di bismuto e antibiotici, ad es. metronidazolo e tetraciclina (Bertoni F et al, 2011). Tale approccio deve essere associato a un adeguato follow-up del paziente, comprendente controlli endoscopici ogni 3-6 mesi per 2-3 anni. Sono state segnalate ricadute di linfoma accompagnate o meno a reinfezione da HP, e casi di evoluzione in alto grado istologico. La probabilitĆ  di ottenere una remissione del linfoma dopo eradicazione ĆØ significativamente minore quando la malattia ĆØ localmente avanzata, oppure in presenza della traslocazione t(11;18). In questi casi può essere utile una terapia a base di alchilanti (tra cui il più impiegato ĆØ il clorambucile). L’impiego di rituximab ĆØ stato studiato in un ampio studio randomizzato (IELSG-19) che ha mostrato la superioritĆ  di rituximab e clorambucile rispetto agli stessi agenti impiegati singolarmente (EFS a 5 anni pari al 51%, 50% e 68% rispettivamente per clorambucile da solo, per rituximab da solo e per la terapia combinata), ed ĆØ considerabile come lo standard odierno di trattamento (Zucca E et al, 2017).
b) Linfomi MALT non gastrici. Data la varietĆ  degli organi coinvolti, il trattamento deve necessariamente essere adattato al singolo caso oltre che alla situazione generale del paziente. In considerazione della scarsa tendenza alla diffusione al di fuori dei tessuti MALT, in buona parte dei casi si può optare per un trattamento locale basato sulla chirurgia o radioterapia, con risultati non inferiori alla terapia sistemica (Zucca E et al, 2003). Anche nei linfomi MALT non gastrici refrattari al trattamento locale ĆØ stata testata l’immunoterapia con rituximab (Zucca E et al, 2017).
c) Linfoma della zona marginale splenica. La maggior parte dei pazienti presenta un andamento clinico assai indolente e non richiede alcun trattamento. I criteri principali di trattamento sono rappresentati dalla splenomegalia massiva, con ipersplenismo, o dalla citopenia legata all’infiltrazione midollare. L’impiego del rituximab ĆØ più efficace rispetto alla chemioterapia (in genere clorambucil o ciclofosfamide) nel determinare regressione della splenomegalia e normalizzazione della leucometria (Tsimberidou AM et al, 2006; Kalpadakis C et al, 2018) (Figura VII). La splenectomia va considerata nei pazienti con citopenia legata a sequestro splenico, sintomi sistemici, sintomi da ingombro addominale. Un lavoro condotto su un’ampia casistica retrospettiva di pazienti con linfomi indolenti e infezione da HCV ha dimostrato che la terapia antivirale come prima linea di trattamento determina RC nel 44% dei pazienti ed ĆØ associata in tutti i pazienti (in prima o seconda linea) con miglioramento della sopravvivenza, suggerendo l’opportunitĆ  del trattamento eradicante dell’infezione da HCV front-line nei pazienti che non necessitano di un’immediata terapia citoriduttiva (Arcaini L, 2014).

 

 

 

Figura VII: Curve di sopravvivenza globale (OS) in 43 pazienti con NHL marginale splenico trattati con sola chemioterapia, solo Rituximab, o Rituximab e chemioterapia.

 

 

d) Linfoma della zona marginale nodale. I linfomi marginali a presentazione esclusivamente nodale sono rari: ĆØ necessaria un’accurata stadiazione per escludere la presenza di splenomegalia o localizzazioni extranodali. L’andamento clinico di queste forme ĆØ in genere meno favorevole rispetto ai linfomi splenici. Il trattamento si basa su principi simili a quelli illustrati per il linfoma follicolare.
e) Linfoma della zona marginale primitivo della cute. Interessa in genere giovani adulti e si presenta sotto forma di lesioni uni- o più frequentemente multi-focali localizzate soprattutto al tronco e alle braccia. Il trattamento si basa su resezione chirurgica e/o radioterapia. Le recidive cutanee sono frequenti ma la diffusione a siti extracutanei o la progressione a varianti più aggressive è molto rara, e la prognosi è favorevole.
Linee guida sulle strategie diagnostiche e terapeutiche dei linfomi della zona marginale sono state pubblicate dall’ESMO (Dreyling M et al, 2013). Per ulteriori approfondimenti si rimanda a una recente review sull’argomento (Bron D et al, 2019).

Linfoma linfoplasmocitico. Il linfoma linfoplasmocitico/macroglobulinemia di Waldestrom (MW) ĆØ caratterizzato dall’infiltrazione midollare da parte di cellule linfoplasmocitiche che nella maggior parte dei casi producono una proteina monoclonale di classe IgM. La diffusione nodale e il coinvolgimento epatosplenico sono presenti in circa un quarto dei pazienti. Presenta andamento clinico indolente e buona risposta al trattamento, anche se con il passare del tempo la malattia diventa refrattaria alla chemioterapia e può evolvere in forma aggressiva. Il cardine della terapia si basa sull’associazione di rituximab e chemioterapia, analogamente agli altri linfomi indolenti, o sull’impiego di bortezomib (Dimopoulos MA & Kastritis E, 2019; Castillo JJ, 2019). La scoperta della mutazione di MYD88 quale evento patogenetico nella maggior parte dei casi di MW ha consentito di studiare l’impiego di nuovi farmaci che agiscono sulla via di segnalazione del BCR : sia ibrutinib che idelasilib sono risultati molto efficaci nei pazienti con MW. Ibrutinib, somministrato come monoterapia alla dose di 420 mg (inferiore a quella standard) in 63 pazienti con MW avanzato e resistente a precedenti terapie, ha determinato risposte maggiori del 73% e una PFS a 2 anni del 70%: in particolare, ĆØ risultato efficace nel 100% dei pazienti MYD88-mutati (Treon SP, 2015). L’esperienza con idelasilib nel MW ricaduto ĆØ inferiore ma i risultati sembrano essere analogamente favorevoli (risposta globale 80%, PFS mediana di 22 mesi) (Gopal AK, 2014).

Leucemia a cellule capellute. La leucemia a cellule capellute (hairy cell leukemia, HCL) ĆØ una neoplasia indolente, con maggior incidenza nel genere maschile, caratterizzata da infiltrazione midollare di cellule con profilo morfologico e immunofenotipico caratteristico, spesso accompagnata da fibrosi (Maitre E et al, 2019). Si presenta con pancitopenia (in particolare monocitopenia) e frequente epatosplenomegalia. Ha un decorso cronico e indolente, le indicazioni principali ad iniziare un trattamento sono rappresentate dall’insufficienza midollare, dai sintomi sistemici e dalla presenza di frequenti infezioni. La risposta agli analoghi purinici (cladribina e pentostatina) ĆØ molto buona, con tassi di RC superiori all’80% e remissioni che durano anche molti anni. Il ritrattamento con analoghi purinici con eventuale associazione a rituximab ĆØ efficace nei pazienti che ricadono, anche se la durata della risposta diminuisce nel tempo (Grever MR, 2010). Pazienti con marcata splenomegalia, leucemizzazione (>5×109/l cellule con fenotipo hairy nel sangue periferico) e livelli elevati di beta2-microglobulina hanno minore probabilitĆ  di risposta agli analoghi purinici: in caso di durata di risposta alla prima linea inferiore a 2 anni può essere considerata una seconda linea basata su bendamustina e rituximab anzichĆ© la ripetizione di un regime con analogo purinico (Maitre E et al, 2019). La scoperta della mutazione V600E di BRAF nella quasi totalitĆ  dei pazienti con HCL ha consentito di testare nei pazienti ricaduti/refrattari l’inibitore di BRAF vemurafenib, giĆ  disponibile per il trattamento del melanoma metastatico che ĆØ associato alla medesima lesione genetica. Tale trattamento ĆØ risultato efficace in oltre il 90% dei pazienti altamente pretrattati con più linee di chemioterapia, inducendo risposta complete e durature in circa 1/3 dei pazienti (Tiacci E et al, 2015). Il trattamento prolungato con vemurafenib ĆØ tuttavia associato a un rischio di significativa tossicitĆ  cumulativa (cutanea e pancreatica in particolare), per cui non ci sono al momento le premesse per un suo impiego continuativo nei pazienti responsivi, come accade invece per la maggior parte degli altri inibitori tirosin-chinasici.

 

LINFOMI AGGRESSIVI A CELLULE B

 

Definizione

 

La definizione di linfoma aggressivo non ĆØ prevista nelle classificazioni istopatologiche, ma riflette un concetto clinico associato con diversi tipi istologici, accomunati da un rapido decorso clinico e da una breve sopravvivenza nei casi non adeguatamente trattati o non responsivi al trattamento.

 

Epidemiologia e fattori di rischio

 

Negli ultimi vent’anni si ĆØ assistito a un costante incremento nell’incidenza dei linfomi, senza significative differenze tra i sessi e i gruppi di etĆ . Rispetto ai linfomi indolenti, l’aumento di incidenza delle forme aggressive ĆØ stato maggiore, in parte legato all’aumento dei pazienti con stati di immunodeficienza. BenchĆØ l’eziologia dei NHL aggressivi, come di quelli indolenti, rimanga in gran parte sconosciuta, ĆØ noto che gli stati di immunodeficienza congenita o acquisita rappresentano un significativo fattore di rischio. I pazienti con infezione attiva da HIV hanno un rischio di sviluppare un NHL aggressivo cento volte superiore a quello dei soggetti sani; alcune localizzazioni, come il sistema nervoso centrale (SNC), sono particolarmente frequenti nei soggetti con immunodeficit. Anche i pazienti sottoposti a terapia immunosoppressiva anti-rigetto a seguito di trapianto di organi solidi o di midollo sono a rischio di sviluppare NHL aggressivi. L’associazione tra infezioni virali e linfomagenesi ĆØ ben documentata anche nei linfomi aggressivi: l’infezione da EBV gioca un ruolo determinante nello sviluppo di linfomi ad alta cinetica, ad es. il linfoma di Burkitt, come dimostra la presenza di sequenze genomiche virali integrate nel DNA delle cellule neoplastiche; l’herpes virus (HHV-8) ĆØ implicato nella patogenesi del sarcoma di Kaposi e di due rare malattie linfoproliferative, la malattia di Castleman multicentrica e il cosiddetto ā€œprimary effusion lymphomaā€ (PEL), entrambe di più frequente riscontro in pazienti anziani o immunocompromessi (Kaplan LD, 2013).

 

Diagnosi differenziale

 

La forma più frequente di NHL aggressivo è il linfoma B diffuso a grandi cellule (DLBCL), che rappresenta circa il 30% di tutti i linfomi (Teras LR, 2016) (Tabella VIII). Sotto la denominazione DLBCL sono comprese forme eterogenee per morfologia, fenotipo, anomalie genetiche, prognosi e caratteristiche cliniche (ad es. T cell/histiocyte rich DLBCL, linfoma B primitivo del mediastino, linfoma B primitivo del SNC) (Tabella IX). Dal punto di vista immunoistochimico i DLBCL (Figura VIII) esprimono costantemente gli antigeni B-associati e in circa il 50% dei casi mostrano iperespressione della proteina anti-apoptotica BCL2: questa anomalia ha un significato prognostico negativo a causa della maggiore incidenza di recidive nonchè della minore risposta alla terapia.

 

 

 

Tabella VIII: Classificazione e frequenze relative dei linfomi non Hodgkin B aggressivi negli adulti

 

 

 

 

 

 

 

 

Tabella IX: Caratteristiche morfologiche, immunofenotipiche, citogenetiche e molecolari utili nelle diagnosi differenziali dei linfomi non Hodgkin B aggressivi

 

 

 

Figura VIII: A) Linfoma B diffuso a grandi cellule evoluto da linfoma follicolare. L’utilizzo di marcatori per le cellule follicolari dentritiche (ad es. CD23) consente di evidenziare l’architettura follicolare residua. E&E, 200x. B) Localizzazione osteomidollare di linfoma B diffuso a grandi cellule. Gli elementi neoplastici infiltrano il tessuto normale e possono essere messi in evidenza con un marcatore B (ad es. CD20) E&E, 400x. C) Aspirato midollare: i linfociti neoplastici hanno grandi dimensioni, cromatina dispersa e vacuoli citoplasmtici. Giemsa, 400x. D) Linfoma B diffuso a grandi cellule con le caratteristiche delle forme tipo centro germinativo (positivitĆ  per CD10, Bcl-6 e LMO2). 240x. Modificato da: Said J. Adv Anat Pathol 2009; 16: 216-235.

 

 

Il linfoma a cellule del mantello (MCL) origina da linfociti B naive CD5+ o, come si ritiene in seguito a studi più recenti, da linfociti B che hanno in effetti incontrato l’antigene, ma non nel contesto del centro germinativo, e non hanno quindi sviluppato ipermutazioni somatiche (Kienle D et al, 2003).Ā  La caratteristica genetica fondamentale del MCL ĆØ la traslocazione t(11;14), che causa iperespressione e iperattivazione della ciclina D1, importante regolatore del ciclo cellulare, dimostrabile facilmente in immunoistochimica. La maggior parte dei casi di MCL esprime il fattore di trascrizione SOX11: i rari casi SOX11-negativi hanno un andamento più indolente, più frequente leucemizzazione, minor coinvolgimento nodale e la probabilitĆ  di progressione ĆØ inferiore (Royo C, 2012). La variante blastoide del MCL entra in diagnosi differenziale con le leucemie acute e con gli altri tipi di NHL aggressivi

Il linfoma di Burkitt ĆØ caratterizzato da presentazione clinica assai aggressiva, da un pattern istologico tipico (a “starry sky”) con proliferazione della totalitĆ  degli elementi neoplastici (Ki-67 pari al 100%), dall’espressione di marcatori B (CD19, CD20, CD22, CD79a) associati all’espressione di IgM di membrana e dalla frequente presenza di traslocazioni cromosomiche a carico del cromosoma 8q che coinvolgono l’oncogene MYC.

Il linfoma linfoblastico ĆØ una neoplasia derivata dai precursori linfoidi B (10% circa) o T (90% circa), che interessa prevalentemente i soggetti di sesso maschile nella seconda e terza decade di vita. Per definizione, il linfoma linfoblastico, le cui caratteristiche immunofenotipiche sono identiche a quelle della leucemia linfoblastica di derivazione T o B, se ne differenzia per l’interessamento esclusivamente nodale, spesso sotto forma di massa mediastinica; nei casi in cui sia presente anche interessamento midollare si conviene definire la malattia “linfoma linfoblastico” quando la quota di blasti midollari ĆØ <25%, e “leucemia linfoblastica” in tutti gli altri casi.

Ā 

Genetica molecolare

 

In questi ultimi anni sono stati individuati numerosi meccanismi patogenetici che hanno contribuito a far luce sull’eterogeneitĆ  di presentazione dei linfomi B aggressivi e, cosa più importante, hanno identificato lesioni molecolari potenziali target per nuovi agenti terapeutici.
I linfomi con profilo genico del centro germinativo (GCB, si veda più avanti) esprimono marcatori caratteristici (CD10, LMO2, BCL6) e in circa il 20% di essi ĆØ stata evidenziata una mutazione somatica del gene EZH2 che favorisce la proliferazione neoplastica (Beguelin W, 2013). In oltre il 50% dei linfomi GCB, ma solo nel 14% dei casi non-GCB, ĆØ stata evidenziata ridotta espressione di PTEN, la cui assente o ridotta funzione determina attivazione costitutiva di AKT/mTOR (Pfeifer M, 2013). I linfomi con profilo genico attivato (ABC) derivano da cellule B in fase avanzata di maturazione, con caratteristiche geniche tipiche dei plasmoblasti, tra cui in particolare l’attivazione di NF-kB (Davis RE, 2010): sono state identificate numerose mutazioni responsabili di tale iperattivazione (incluse mutazioni di CARD11, SYK, BTK, PI3K e MYD88). Tutti questi meccanismi giustificano la preferenziale azione dei nuovi farmaci nei linfomi B diffusi a grandi cellule a seconda del profilo di espressione genica. Recentemente ĆØ stata scoperta una lesione molecolare di particolare interesse, l’inattivazione delle acetiltransferasi CREBBP ed EP300 (Pasqualucci L et al, 2011).
Tale mutazione sarebbe associata allo sviluppo dei DLBCL ed, inoltre, a una frazione di linfomi follicolari: in seguito a questa alterazione si determina attivazione di BCL6 e inibizione di TP53, meccanismi che concorrono alla linfomagenesi. Le lesioni molecolari delle acetiltransferasi potrebbero rappresentare un bersaglio per la terapia epigenetica. Mutazioni di TP53 sono riscontrabili in circa il 20% dei pazienti con DLBCL, sia GCB che ABC, sono associate con una più giovane età alla diagnosi, livelli di LDH più elevati, presentazione bulky e rischio IPI alto. La presenza di mutazioni di TP53 è un forte indicatore prognostico di peggiore sopravvivenza nel DLBCL (Young KH et al, 2007; Xu-Monette ZY et al, 2012).
Mediante studi di gene profiling sono state individuate varie anomalie molecolari caratteristiche del MCL (BeĆ  S, 2013). La più frequente alterazione (42-55% dei casi) ĆØ la mutazione di ATM, proteina sentinella del danno al DNA, tipicamente associata con delezioni di 11q e altre anomalie cromosomiche che conferiscono prognosi sfavorevole. Mutazioni di CCND1, determinanti iperespressione della ciclina D1, sono associati con indice di proliferazione più elevato, ridotta sopravvivenza e resistenza a ibrutinib (Wiestner A et al, 2007; Mohanty A et al, 2016). Mutazioni attivanti NOTCH1/2 si riscontrano in circa il 10% dei casi e sono associate ad andamento particolarmente aggressivo (Kridel R et al, 2012). La via metabolica coinvolgente PI3K/AKT risulta deregolata in molti casi: l’attivazione di AKT sostiene la proliferazione cellulare e può rappresentare un bersaglio terapeutico per gli inibitori di mTOR, regolatore di AKT (Hofmann WK et al, 2001; Dal Col J et al, 2008). Inoltre, nel MCL ĆØ stata documentata l’iperespressione di p21 e SPARC: la lenalidomide reprime direttamente l’espressione di questi oncogeni e ciò potrebbe spiegarne l’efficacia documentata anche in pazienti con malattia avanzata e refrattaria (Zhang L et al, 2010; Habermann T et al, 2009).

Ā 
Presentazione clinica

 

Il quadro clinico di presentazione dei linfomi aggressivi dipende dalla cinetica di crescita tumorale e dalle sedi interessate. Diversamente da quelli indolenti, i NHL aggressivi sono comunemente caratterizzati da rapida insorgenza, spesso associata a sintomatologia sistemica (febbre, sudorazione notturna, calo ponderale) ed eventuali sintomi secondari a compressione/ostruzione di strutture nervose o vascolari. Le più frequenti sindromi di esordio correlate con la presenza di adenopatie profonde sono la sindrome mediastinica (dispnea, edema a mantellina, turgore giugulare) e la sindrome da compressione della vena cava inferiore (edemi bilaterali agli arti inferiori e allo scroto) e delle vie escretrici renali (dilatazione pieloureterale con atrofia del parenchima e insufficienza renale).
I MCL si presentano nella quasi totalitĆ  dei casi in stadio avanzato e sono molto comuni la leucemizzazione e l’interessamento intestinale (poliposi linfomatoide). Il linfoma di Burkitt si presenta caratteristicamente con interessamento mandibolare nella sua forma endemica africana e con la presenza di masse a rapida crescita inglobanti o infiltranti i visceri addominali e pelvici nella forma sporadica. Nelle femmine in etĆ  post-puberale ĆØ abbastanza frequente un’infiltrazione delle mammelle. Comuni sono anche il coinvolgimento del SNC e l’interessamento midollare con leucemizzazione periferica (cosiddetto linfoma/leucemia a precurosi linfoidi B tipo L3). Anche i casi di linfoma linfoblastico possono frequentemente presentarsi, all’esordio o durante il decorso della malattia, con localizzazioni al SNC.

 

Stadiazione e monitoraggio

 

Il sistema di stadiazione tradizionale, noto come classificazione di Ann Arbor e originalmente impiegato nella valutazione del linfoma di Hodgkin, ĆØ diffusamente impiegato anche nei linfomi non Hodgkin in quanto fornisce informazioni sull’estensione di malattia e l’interessamento di particolari sedi, e mantiene un significativo valore prognostico (Tabella X). La stadiazione si basa sulle medesime tecniche giĆ  illustrate per i linfomi B indolenti. E’ essenziale indagare e rilevare i sintomi e segni clinici indicativi di particolari localizzazioni, ad esempio l’interessamento testicolare o del SNC. Una rachicentesi con esame citologico e chimico-fisico del liquor ĆØ indicata alla diagnosi in tutti i linfomi aggressivi con interessamento midollare, testicolare o dell’anello del Waldeyer e nei pazienti HIV+, anche in assenza di sintomatologia neurologica. In tutti i pazienti ĆØ richiesta la determinazione dello stato sierologico per HBV , HCV e HIV, sia per il possibile ruolo patogenetico svolto da essi che per le implicazioni terapeutiche.

 

 

 

Tabella X: Classificazione in stadi dei linfomi non Hodgkin sec. Ann Arbor (Costwolds meeting, 1989)

 

 

L’impiego della PET per la diagnosi e la ristadiazione dei NHL aggressivi si ĆØ sempre più diffuso negli ultimi anni in considerazione della forte captazione del FDG da parte degli elementi neoplastici. PressochĆ© tutti i casi di DLBCL, di linfoma a cellule del mantello e di linfoma di Burkitt presentano alla diagnosi almeno una localizzazione PET-positiva.Ā La persistenza di un segnale positivo alla PET dopo trattamento ĆØ altamente predittivo di presenza di tessuto neoplastico residuo o di recidiva e le recenti linee guida per la stadiazione hanno incluso la PET-negativitĆ  tra i criteri per definire la RC (Cheson BD et al, 2014). Tuttavia, a differenza del linfoma di Hodgkin, non ĆØ ancora del tutto definito nei NHL aggressivi il ruolo predittivo della PET nella valutazione precoce della risposta al trattamento, e di conseguenza le decisioni terapeutiche dovrebbero basarsi sulla valutazione comparativa dei risultati dell’esame PET integrati con elementi clinici e altre indagini strumentali, compreso il prelievo bioptico delle sedi sospette per persistenza/recidiva di malattia.

 

Fattori prognostici

 

Il principale score prognostico storicamente impiegato nei NHL aggressivi ĆØ l’International Prognostic Index (IPI), che considera come variabili indipendenti di rischio 5 fattori: etĆ  >60 anni, PS ≄2 (ECOG-WHO), stadio III o IV sec. Ann Arbor, coinvolgimento di ≄2 sedi extranodali, aumento della LDH sierica (Shipp MA et al, 1993) (Tabella XI). La presenza di 0-1 fattori di rischio determina una prognosi favorevole, con sopravvivenza stimata a 5 anni pari al 73%, mentre all’estremo opposto la presenza di 4-5 fattori di rischio conferisce una prognosi infausta con una sopravvivenza a 5 anni pari al 26%. Dal momento che l’etĆ  costituisce una variabile prognostica rilevante che condiziona la possibilitĆ  di trattare i pazienti con regimi più intensivi, ĆØ stata sviluppata una variante ā€œIPI age-adjustedā€ per i pazienti di etĆ  pari o inferiore a 60 anni. Esiste attualmente un diffuso consenso relativamente al fatto che i pazienti inclusi nelle categorie a rischio ā€œalto-intermedioā€ o ā€œaltoā€, con una probabilitĆ  di guarigione inferiore al 50% con i trattamenti convenzionali, dovrebbero essere candidabili a trattamenti più aggressivi o sperimentali. I medesimi parametri dell’IPI associati alla presenza di malattia in sede renale o surrenale hanno consentito di costruire un modello prognostico a 6 variabili (CNS-IPI) per predire il rischio di recidiva a livello del sistema nervoso centrale (Schmitz N et al, 2016): i pazienti con ≄4 fattori di rischio hanno una probabilitĆ  di recidiva cerebrale del 12% e vanno considerati candidati a ricevere una terapia di profilassi delle localizzazioni SNC in aggiunta alla terapia standard di prima linea, anche se non c’è consenso sulla strategia di prevenzione più efficace (profilassi intratecale o impiego di methotrexate ad alte dosi per via sistemica) (Qualls D & Abramson JS, 2019).

 

 


Tabella XI: International Prognostic Index

 

 

L’applicazione del tradizionale IPI al MCL non ha fornito risultati concordanti: per questo motivo ĆØ stato sviluppato uno score prognostico specifico (MIPI, Mantle-Cell-Lymphoma International Prognostic Index) basato su 4 variabili: etĆ , ECOG, LDH e leucociti totali. Grazie a questo nuovo strumento i pazienti possono essere suddivisi in tre gruppi con prognosi ben distinta: basso rischio con OS mediana non raggiunta, rischio intermedio con OS mediana di 51 mesi e alto rischio con OS mediana di 29 mesi (Hoster E et al, 2008).
Per quanto riguarda i fattori prognostici biologici, uno dei più noti ĆØ il marcatore di proliferazione Ki-67, che identifica la proporzione di cellule neoplastiche che sono entrate nel ciclo replicativo. Alti livelli di espressione di Ki-67 correlano con una prognosi sfavorevole sia nel DLBCL che nel MCL (Miller T et al, 1994; RƤty R et al, 2002; Hoster E et al, 2016). Più recentemente la tecnologia di analisi del DNA con microarray ha consentito di identificare sottogruppi con diverso significato prognostico. Il più noto degli studi di microarry nei NHL ha identificato due sottogruppi di DLBCL, il primo caratterizzato da espressione di geni caratteristici delle cellule del centro germinativo (GCB), con significato prognostico favorevole; il secondo caratterizzato da espressione genica tipica dell’attivazione dei linfociti B nel sangue periferico (ABC), a prognosi sfavorevole (Alizadeh AA et al, 2000) (Figura IX). Le tecniche di microarray non sono tuttavia applicabili nella pratica diagnostica quotidiana: per questa ragione ĆØ stato sviluppato un algoritmo che permette di correlare con sensibilitĆ  e specificitĆ  elevata l’espressione di un pannello di marcatori (CD10, MUM1, BCL6, GCET1, FOXP1) con il profilo di espressione genica, consentendo quindi una valutazione prognostica dei DLBCL basata su semplici parametri immunoistochimici (Choi WW et al, 2009). Nuove metodiche basate sulla quantificazione dei trascritti RNA estratti da materiale istologico hanno dimostrato maggiore concordanza con il profilo genomico, sono riproducibili e, per quanto non ancora a disposizione di tutti i laboratori, sembrano un’alternativa promettente agli algoritmi basati sull’immunoistochimica (Scott DW et al, 2014). Altri marcatori di significato prognostico sfavorevole sono risultati la deregolazione di p53, la ridotta espressione di p21, l’iperespressione di BCL2 e la presenza di traslocazioni coinvolgenti l’oncogene MYC (Savage KJ, 2009; Horn H, 2015). In particolare, la contemporanea presenza di una traslocazione coinvolgente MYC e il riarrangiamento di BCL2 e/o BCL6 identifica un nuovo sottotipo di linfoma con presentazione clinica aggressiva e sfavorevole risposta al trattamento convenzionate, definito linfoma ā€œdouble-hitā€ o ā€œtriple-hitā€ Ā (Aukema SM, 2011). Le traslocazioni di MYC, BCL2 e BCL6 devono essere rilevate con metodiche di citogenetica molecolare (FISH), dal momento che l’iperespressione delle medesime proteine, documentabile tramite immunoistochimica, non sempre corrisponde ai rispettivi riarrangiamenti cromosomici. Ci sono dati discordanti sulla prognosi dei pazienti con DLBCL ā€œdouble/triple expressorsā€ mentre i pazienti ā€œdouble/triple hitā€ hanno prognosi sfavorevole e vengono classificati dalla WHO 2016 sotto la nuova categoria ā€œlinfomi B ad alto grado con riarrangiamento MYC e BCL2 e/o BCL6ā€ (Swerdlow SH et al, 2016). E’ ancora oggetto di discussione se tutti i pazienti con DLBCL debbano essere testati per i riarrangiamenti cromosomici sopra descritti, o se l’analisi possa essere limitate ai soli linfomi che hanno maggiori probabilitĆ  di risultare positivi, ossia quelli con fenotipo GCB, alta cinetica proliferativa (Ki-67>80%) o iperespressione immunoistochimica di MYC (>40%) e BCL2 (>50%) (Green TM et al, 2012).

 

 



Figura IX: Il profilo di espressione genetica nei linfomi B diffusi a grandi cellule influenza la prognosi. La sopravvivenza libera da progressione a 3 anni dopo immunochemioterapia R-CHOP ĆØ significativamente migliore nei pazienti con profilo tipo ā€œcentro germinativoā€ (GCB, 74%) rispetto ai pazienti con profilo ā€œattivatoā€ (ABC, 40%).

 

 

Trattamento

 

Linfoma a cellule del mantello. Il MCL presenta caratteristiche istologiche intermedie tra i linfomi indolenti e quelli aggressivi, ma l’andamento clinico ĆØ più simile a quello dei NHL ad alto grado di malignitĆ , sebbene sia stato per molto tempo considerato, a differenza dei NHL aggressivi, una malattia non eradicabile. Per queste ragioni il trattamento dei pazienti con MCL ĆØ stato assai eterogeneo e manca ad oggi una strategia standard di terapia (Dreyling M et al, 2016c).
I casi di MCL in stadio iniziale, localizzato, sono aneddotici e il trattamento si ĆØ basato in genere sull’impiego di RT combinata o meno a vari schemi di polichemioterapia.
Nelle forme avanzate il trattamento ĆØ rappresentato dall’associazione polichemioterapica: il MCL ĆØ inzialmente chemiosensibile, ma successivamente ricade o progredisce nella maggior parte dei casi, in genere acquisendo una progressiva resistenza ai trattamenti. La scelta del trattamento iniziale dipende da etĆ , patologie concomitanti, performance status e obiettivo del trattamento: nei pazienti giovani e fit lo standard ĆØ ancora rappresentato dall’induzione della remissione completa mediante immunochemioterapia seguita da intensificazione con autotrapianto (Figura X).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura X

 

 

Lo schema HyperCVAD ha dato risultati favorevoli ma ĆØ risultato gravato da significativa tossicitĆ  ematologica, soprattutto nei pazienti più anziani (Romaguera JE et al, 2005). Circa un terzo dei pazienti più giovani (≤65 anni) trattati con R-HyperCVAD, ottiene una stabile FFS ad un follow-up mediano di quasi 15 anni (Chihara D et al, 2016). La citarabina ad alte dosi rappresenta il backbone del trattamento di induzione del linfoma mantellare, evidenza tratta inizialmente da studi di fase 2 e successivamente da un grande studio randomizzato (ā€œMCL Youngerā€) che ha dimostrato in 497 pazienti di etĆ  <66 anni la superioritĆ  del trattamento con 3 cicli R-CHOP alternati a 3 R-DHAP rispetto a 6 cicli R-CHOP in termini di RC (36% vs 25%), PFS (84 vs 49 mesi) e OS (mediana non raggiunta vs 82 mesi) (Hermine O et al, 2016).

GiĆ  alcuni anni fa uno studio italiano multicentrico aveva valutato l’impiego in prima linea della HDS seguita da doppia aferesi e reinfusione di cellule staminali periferiche, associata al rituximab allo scopo di ottenere un “purging” in vivo: rispetto ai pazienti trattati con terapia convenzionale, l’approccio trapiantologico determinava tassi di OS ed EFS significativamente migliori, e l’ottenimento di remissioni molecolari stabili era associato al concetto di eradicazione della malattia (Gianni AM et al, 2003) (Figura XI). L’ottenimento della remissione molecolare si ĆØ confermato fattore prognostico di primaria importanza anche nel MCL Younger Trial: una remissione molecolare persistente per >12 mesi dopo il trapianto autologo ĆØ associata a una PFS a 2 anni superiore al 90%, indipendentemente dal rischio baseline secondo MIPI e dal tipo di chemioterapia utilizzato in induzione (Pott C, 2010).

 

 

 

Figura XI: A) Schema dello studio R-HDS. B) La sopravvivenza libera da eventi (EFS) nei 28 pazienti trattati con lo schema R-HDS (79%) ĆØ significativamente superiore a quella di una coorte di 35 controlli storici trattati con chemioterapia convenzionale (18%). C) La sopravvivenza globale (OS) a 54 mesi nei pazienti trattati con R-HDS ĆØ superiore a quella dei controlli (89% vs 42%, p=027).

 

 

Nei pazienti anziani l’associazione rituximab-bendamustina-citarabina (R-BAC) si ĆØ dimostrata efficace sia in pazienti in prima linea che ricaduti. In pazienti non pretrattati di etĆ  compresa tra 60 e 80 anni, non eleggibili alla terapia ad alte dosi ma profilo FIT alla scala di valutazione geriatrica, il trattamento R-BAC500 (dosi ridotte di citarabina) ha consentito di ottenere la RC nel 91% dei casi e la risposta molecolare completa nel 55% di essi, con una PFS a 2 anni dell’81% (Visco C et al, 2017). La risposta al medesimo trattamento nei pazienti con malattia ricaduta/refrattaria non candidabili a terapie intensive ĆØ stata pari all’84% con un tasso di RC del 67% e una PFS a 1 anno del 62% (Visco C, 2013). In un ampio studio randomizzato (487 pazienti di nuova diagnosi non eleggibili a trapianto autologo) lo schema VR-CAP (dosi e modalitĆ  di somministrazione analoghe a R-CHOP sostituendo vincristina con bortezomib) ha consentito un miglioramento del 59% della PFS rispetto a R-CHOP (24,7 vs 14,4 mesi, rispettivamente), e un significativo prolungamento della durata media della RC (42,1 vs 18 mesi, rispettivamente) anche se a prezzo di una maggiore tossicitĆ  ematologica (Robak T, 2015). Uno studio del gruppo SWOG ha documentato che una terapia di induzione basata sull’associazione di bortezomib e R-CHOP seguito da mantenimento con bortezomib (1 ciclo di 4 somministrazioni ogni 3 mesi per 2 anni) determina una pecentuale di RC del 57% e una PFS a 2 anni del 62% (Till BG et al, 2016).

Nonostante risposte cliniche di media-lunga durata, la maggior parte dei pazienti con MCL recidiva anche dopo terapia intensificata. Pertanto sono necessari nuovi approcci, in particolare con la terapia di mantenimento dopo il trapianto autologo o dopo chemioterapia e l’impiego di nuovi agenti biologici. Molti di questi nuovi farmaci hanno dimostrato evidenze di efficacia interessanti da soli, in combinazione ad altri farmaci tradizionali, nel setting del mantenimento o del consolidamento e alcuni di essi (bortezomib, temsirolimus, lenalidomide e ibrutinib) hanno ottenuto l’autorizzazione regolatoria per l’immissione in commercio (Tabella XII).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tabella XII: Efficacia dei nuovi farmaci approvati per il trattamento del linfoma a cellule del mantello R/R

 

 

Il mantenimento con rituximab ha determinato superiore PFS rispetto al braccio di controllo sia in pazienti anziani ineleggibili al trapianto autologo (durata della risposta 77 mesi con rituximab vs 24 mesi con interferone – Kluin-Nelemans HC et al, 2012), sia in pazienti giovani dopo trapianto autologo (PFS a 4 anni 83% con rituximab vs 64% senza terapia di mantenimento – Le Gouill S et al, 2017)
Il bortezomib, associato a vari regimi di chemioterapia, ha consentito di ottenere tassi di risposta nell’ordine del 30-50% (Ruan J et al, 2011).
Il temsirolimus (inibitore di mTOR) ĆØ risultato attivo nel 20-40% dei pazienti con MCL ricaduto/refrattario anche se la durata di risposta ĆØ stata di pochi mesi (Hess G et al, 2009).
La lenalidomide, somministrata in modo continuativo alla dose di 25 mg al giorno per 21 giorni al mese in pazienti (etĆ  mediana 67 anni) con linfomi mantellari ricaduti/refrattari dopo varie linee di terapia, includenti anche bortezomib, ha determinato una risposta nel 28% dei pazienti, con un 8% di RC e una durata media della risposta pari a 16,8 mesi (Goy A, 2013).Ā Come trattamento iniziale l’associazione di lenalidomide 20 mg al giorno per 21 giorni al mese per 12 cicli e rituximab a dose standard per 9 dosi complessive ha determinato una risposta globale nel 92% dei casi valutabili con un tasso di RC del 64%, facendo intravedere l’interessante possibilitĆ  di un regime di trattamento front-line senza l’impiego della chemioterapia (Ruan J, 2015). L’inibitore di BTKĀ  ibrutinib appare tra i farmaci più efficaci nel linfoma mantellare: ĆØ stato impiegato come agente singolo in uno studio di fase 2 alla dose di 560 mg al giorno in 111 pazienti con MCL ricaduto/refrattario dopo una mediana di 3 linee di terapia, ottenendo un tasso di risposta globale del 68%, di RC del 21% e una PFS mediana di 13,9 mesi (Wang ML, 2013). L’associazione di ibrutinib, bendamustina e rituximab in pazienti ricaduti/refrattari ha determinato una risposta globale del 94% e un tasso di RC del 76% (Maddocks K et al, 2015). Uno studio randomizzato di confronto tra ibrutinib e temsirolimus in pazienti ricaduti/refrattari dopo almeno una linea di terapia contentente rituximab ha evidenziato netta superioritĆ  di ibrutinib in termini di efficacia (72% vs 40%, rispettivamente), PFS (mediana 14 vs 6 mesi, rispettivamente) e migliore tollerabilitĆ  (Dreyling M et al, 2016b). Alla luce di questi dati, ibrutinib ha ottenuto l’autorizzazione all’immissione in commercio per i pazienti con linfoma mantellare recidivato o refrattario e sono in corso studi per valutare il ruolo in terapia di prima linea sia nei pazienti non candidabili a trapianto (random R-bendamustina vs R-bendamustina-ibrutinib) che nei pazienti giovani (studio TRIANGLE: chemioterapia e mantenimento con ibrutinib, trapianto autologo front-line e trapianto autologo seguito da mantenimento con ibrutinib).
Acalabrutinib ĆØ un inibitore potente e selettivo di BTK sviluppato inizialmente nel setting della leucemia linfatica cronica recidivante. In uno studio di fase 2 su pazienti con linfoma mantellare ricaduto/refrattario il trattamento con acalabrutinib 100 mg al giorno si ĆØ dimostrato efficace (risposta globale 81%, risposta completa 40%) e caratterizzato da un profilo di sicurezza favorevole (Wang ML et al, 2018). Il follow-up del medesimo studio ha mostrato che le risposta sono durature (mediana 26 mesi) e la sopravvivenza stimata a 2 anni (72%) tra le più alte ottenute con agenti singoli in questo setting di pazienti (Wang ML et al, 2019a). Acalabrutinib ha ottenuto l’autorizzazione all’immissione in commercio negli Stati Uniti ed ĆØ registrato come farmaco orfano in Europa .
In uno studio di fase I su pazienti con linfomi B ricaduti di varia istologia l’inibitore di BCL-2 venetoclax ha mostrato particolare efficacia nel subset dei pazienti con linfoma mantellare, inducendo risposta globale nel 75% dei pazienti con dosaggi inferiori (800 mg al giorno) rispetto a quelli richiesti per ottenere risposta nel linfoma follicolare (1200 mg al giorno) e con una durata mediana della risposta di 14 mesi (Davids MS, 2017). La combinazione di ibrutinib 560 mg al giorno e venetoclax a dosi crescenti fino a 400 mg al giorno in un piccolo gruppo di pazienti con linfoma mantellare ricaduto/refrattario ad alto rischio ha consentito di ottenere risposte rapide (42% di RC dopo 16 settimane di tratatmento) e profonde (38% di risposte molecolari MRD complete), aprendo la strada al concetto di durata non indefinita del trattamento anche nel setting del linfoma mantellare recidivante (Tam C Set al, 2018). Infine, risultati promettenti stanno arrivando dall’impiego dei linfociti T esprimenti l’antigene chimerico anti-CD19 (CAR-T ): lo studio ZUMA-2 ha valutato l’efficacia di KTE-X19 in pazienti con linfoma mantellare ricaduti/refrattari dopo multiple linee di terapia includenti inibitori di BTK, documentando risposte nel 93% dei pazienti e risposte complete nel 67% dei casi, circa la metĆ  delle quali di durata superiore a 2 anni (Wang ML et al, 2019b).


Linfoma B diffuso a grandi cellule: terapia di prima linea.Ā Il trattamento dei pazienti con DLBCL in stadio localizzato (I-II con IPI basso) si basa sul tradizionale schema CHOP associato a rituximab. Il ruolo della RT di consolidamento dopo una breve immunochemioterapia (3-4 cicli R-CHOP) ĆØ oggetto di discussione (Horning SJ et al, 2004; Fisher RI et al, 2004) e uno studio randomizzato francese non ha mostrato differenze di EFS e OS tra pazienti con DLBCL in stadio limitato non bulky trattati o meno con RT dopo 4 o 6 cicli R-CHOP-14 (Lamy T et al, 2018). Nel caso di presentazione bulky (>10 cm) il trattamento di scelta ĆØ rappresentato da 6-8 cicli R-CHOP associati a RT di consolidamento (30 Gy “involved-field”). La rivalutazione in corso di terapia (ad esempio dopo 4 cicli R-CHOP) può essere utile per guidare le scelte terapeutiche successive: l’ottenimento della negativitĆ  alla PET ĆØ predittivo di guarigione, tuttavia, stante la limitata esperienza nell’impiego della cosiddetta interim-PET nei DLBCL, una revisione istologica di conferma delle sedi PET-positive ĆØ sempre raccomandata prima di decidere di intensificare il trattamento.
La chemioterapia R-CHOP ĆØ l’attuale standard di trattamento anche per i pazienti in stadio avanzato (III-IV), come dimostrato da studi randomizzati sia nei pazienti anziani (Coiffier B et al, 2002; Coiffier B et al, 2010) che giovani (Pfreundschuh M et al, 2006) (Figura XII), tuttavia circa il 40% dei pazienti in stadio avanzato non risponde o ricade dopo tale trattamento. Per migliorare l’outcome del trattamento di prima linea sono state impiegate tre strategie: a) intensificazione delle dosi o della frequenza di somministrazione della chemioterapia; b) sostituzione del rituximab con anticorpi anti-CD20 di nuova generazione; c) aggiunta di nuovi farmaci al classico R-CHOP.
Lo schema ā€œdose-denseā€ R-CHOP-14 (frequenza di somministrazione ogni 2 settimane) non si ĆØ dimostrato superiore al classico R-CHOP-21 tanto nei pazienti anziani (Cunningham D et al, 2013) quanto nei giovani (Delarue R et al, 2013). Alcuni studi hanno mostrato beneficio dall’intensificazione del trattamento (R-ACVBP) nei pazienti più giovani (Recher C, 2011), ma tale conclusione non ha trovato conferma in altri lavori. Ad esempio, lo schema intensificato DA-EPOCH-R (dose adjusted etoposide, prednisone, vincrstina, ciclofosfamide, doxorubicina e rituximab) non ha determinato benefici di PFS e OS rispetto a R-CHOP ed ĆØ risultato gravato da maggiore tossicitĆ  ematologica e infettiva (Bartlett NL et al, 2019).

 

 


Figura XII: A) Studio LNH-98.85 del gruppo GELA. La sopravvivenza globale e quella libera da eventi sono significativamente superiori nei pazienti >60 anni con linfoma B diffuso a grandi cellule che ricevono R-CHOP rispetto a quelli che ricevono CHOP.  B) Studio LNH-98.5 del gruppo GELA. Il beneficio del trattamento R-CHOP sul prolungamento della EFS è presente sia nei pazienti a basso rischio che in quelli ad alto rischio, anche se risulta più evidente nel primo gruppo. C) Studio MInT. Dopo un tempo di osservazione mediana di 23 mesi, la sopravvivenza globale nei pazienti giovani (<60 anni) con linfoma B diffuso a grandi cellule a buona prognosi è superiore nel gruppo che riceve R-CHOP rispetto a quello che riceve CHOP.

 

 

Il ruolo della HDS/ASCT come consolidamento della prima linea dei DLBCL con caratteristiche prognostiche sfavorevoli, suggerito da alcuni lavori condotti in epoca pre-rituximab che evidenziavano un beneficio del consolidamento trapiantologico in termini di RC e di EFS (Gianni AM et al, 1997; Greb A et al, 2004) non ĆØ stato confermato da studi randomizzati più moderni (Schmitz N, 2012; Stiff P, 2013). In particolare, lo studio della Fondazione Italiana Linfomi ha confrontato il trattamento ā€œdose-denseā€ R-CHOP-14 (8 cicli) o R-MegaCHOP-14 (6 cicli) con un trattamento abbreviato degli stessi schemi (4 cicli) seguito da chemioterapia ad alte dosi (R-MAD) e trapianto autologo condizionato con BEAM: a fronte di una migliore failure-free survival a 2 anni nel gruppo dei pazienti trapiantati (71% vs 62%), non si ĆØ registrata alcuna differenza nella sopravvivenza globale tra i due gruppi (Chiappella A et al, 2017).
Un ampio studio randomizzato su 1418 pazienti (GOYA) non ha mostrato benefici dall’associazione obinutuzumab-CHOP (G-CHOP) rispetto allo standard R-CHOP: la PFS a 3 anni ĆØ stata del 70% e del 67% nei due bracci, con una maggior frequenza di eventi avversi di grado severo nei pazienti trattati con GA101 (Vitolo U et al, 2017).

I nuovi farmaci per i quali ĆØ stata valutata l’efficacia in aggiunta alla terapia frontline R-CHOP includono bortezomib, ibrutinib e lenalidomide. Lo schema bortezomib-R-CHOP non ha determinato benefici di PFS rispetto a R-CHOP in uno studio condotto su 918 pazienti caratterizzati dal punto di vista molecolare mediante gene profiling (Davies A et al, 2019) nĆ© in uno studio su 206 pazienti con linfoma non-GCB (Leonard JP et al, 2017). L’associazione di ibrutinib alla terapia R-CHOP ha fornito risultati preliminari incoraggianti nel sottogruppo di pazienti non-GCB (Younes A et al, 2014), ma uno studio randomizzato di confronto tra R-CHOP con ibrutinib o con placebo in pazienti con DLBCL di tipo ABC di nuova diagnosi non ha raggiunto l’endpoint primario di superiore EFS nel braccio sperimentale, anche a causa del maggior numero di eventi avversi e della compromessa possibilitĆ  di completare i 6 cicli R-CHOP nel sottogruppo dei pazienti con etĆ  >60 anni (Younes A et al, 2019). Due studi di fase 2 condotti dalla FIL e dalla Mayo Clinic hanno mostrato interessanti risultati di efficacia dall’aggiunta di lenalidomide allo schema R-CHOP-21, in particolare nei pazienti con profilo non-GCB (Vitolo U et al, 2014; Nowakowski GS et al, 2015), tuttavia lo studio randomizzato internazionale ROBUST, condotto su 570 pazienti con DLBCL a profilo ABC, non ha raggiunto l’endpoint primario di una superiore PFS nel braccio sperimentale, pur evidenziando benefici nell’analisi per sottogruppi dei pazienti con malattia più avanzata e ad alto rischio IPI (Vitolo U et al, 2019). Un secondo studio randomizzato condotto in contemporanea negli Stati Uniti ha invece mostrato che lo schema R2-CHOP (con la lenalidomide impiegata alla dose 25 mg al giorno per 10 giorni) determina una riduzione del rischio di progressione e morte del 33% rispetto al braccio standard (Nowakowski G Set al, 2019).
In conclusione, i dati ad oggi disponibili suggeriscono che tutti i pazienti con DLBCL avanzato alla diagnosi debbano essere trattati con la chemioterapia R-CHOP ma l’outcome nei pazienti a profilo non-GCB rimane più sfavorevole e richiede nuove strategie di trattamento; inoltre, pazienti con caratteristiche prognostiche particolarmente sfavorevoli quali iĀ  linfomi ā€œdouble-hitā€ Ā dovrebbero essere considerati per opzioni intensificate front-line all’interno di studi clinici (Riedell PA & Smith SM, 2018).

Linfoma B diffuso a grandi cellule: terapia di mantenimento. La terapia di mantenimento con rituximab non ĆØ utile nel setting del linfoma B diffuso a grandi cellule, a differenza di quanto accade nel linfoma follicolare e nel linfoma mantellare (Gisselbrecht C et al, 2012). Studi randomizzati mirati a valutare il ruolo del mantenimento con l’inibitore della protein chinasi C enzastaurin o l’inibitore di mTOR everolimus nei pazienti in RC dopo immunochemioterapia non hanno evidenzato benefici nel braccio sperimentale rispetto a placebo (Crump M et al, 2016; Witzig TE et al, 2018). Il mantenimento con lenalidomide (25 mg al giorno per 21 giorni su 28 per 2 anni complessivi) ha invece determinato una PFS significativamente migliore rispetto a placebo in uno studio condotto su una popolazione di 650 pazienti anziani con DLBCL in risposta completa o parziale dopo 6-8 cicli R-CHOP, ma ad un follow-up di 4 anni la sopravvivenza globale dei due gruppi era identica e la tossicitĆ  ematologica (in particolare neutropenia) ĆØ stata significativamente maggiore nei pazienti trattati con lenalidomide (56% vs 22%), mentre il tasso di seconde neoplasie ĆØ stato simile (10% vs 13%). Ā Si tratta del primo studio che ha dimostrato il beneficio di un agente terapeutico come mantenimento nel setting del DLBCL (Thieblemont C et al, 2017b).

Linfoma B diffuso a grandi cellule: trattamento della recidiva.Ā La HDS/ASCT rappresenta il trattamento standard dei pazienti ricaduti o refrattari alla terapia di prima linea (Philip T, 1995). Sono stati proposti numerosi regimi di chemioterapia di seconda linea, nessuno dei quali ĆØ risultato significativamente superiore ad altri; in linea generale, i pazienti che ottengono una seconda RC prima della HDS/ASCT hanno una sopravvivenza superiore (65% vs 30%) rispetto ai pazienti chemorefrattari (Moskowitz CH et al, 1999).Lo studio randomizzato CORAL ha confrontato gli schemi R-ICE e R-DHAP come terapia di reinduzione in pazienti con DLBCL ricaduto/refrattario, evidenziando tassi simili di risposta e di esecuzione del trapianto autologo (attorno al 50%) e una sopravvivenza globale a 4 anni pari al 48% (Gisselbrecht C et al, 2010). Una sottoanalisi biologica ha evidenziato che i pazienti con pattern GCB traggono vantaggio dal trattamento con R-DHAP (Thieblemont C et al, 2011). I pazienti ricaduti o non responsivi dopo la HDS/ASCT possono, in casi selezionati, essere avviati al trapianto allogenico di cellule staminali . Il beneficio in termini di controllo della malattia a lungo termine ĆØ inficiato dall’elevata mortalitĆ  trapiantologica in questo gruppo di pazienti, in genere pesantemente trattati: nei lavori più recenti, in gran parte riferiti a pazienti trapiantati con regimi di condizionamento a intensitĆ  ridotta, la sopravvivenza globale ĆØ del 30-40% e la mortalitĆ  correlata a trapianto rimane un problema significativo, con tassi attorno al 25-40% (Epperla N & Hamadani M, 2017). Una durata di risposta inferiore a 12 mesi dopo trapianto autologo e chemiorefrattarietĆ  al momento del trapianto allogenico sono parametri altamente sfavorevoli che individuano pazienti con scarsa probabilitĆ  di trarre beneficio dal trapianto allogenico (Fenske TS et al, 2016). Pazienti ricaduti/refrattari anziani o non candidabili alla terapia HDS vengono in genere trattati in maniera conservativa (RT, rituximab, schemi di polichemioterapia tradizionale): uno studio su pazienti ricaduti e non candidabili a trapianto ha dimostrato che la combinazione di rituximab, gemcitabina e oxaliplatino determina un incoraggiante tasso di RC pari al 44% dei pazienti (Mounier N, 2013). L’impiego di pixantrone in pazienti giĆ  sottoposti ad almeno due linee precedenti di terapia ha determinato una risposta globale del 37% e un tasso di RC del 20%, migliorando la PFS rispetto ai pazienti trattati con agenti di confronto (Pettengell R et al, 2012): questi dati hanno portato all’approvazione di pixantrone come monoterapia per il trattamento dei pazienti affetti da DLBCL ricaduti più volte o refrattari.
I risultati di nuovi trattamenti target o nuovi anticorpi monoclonali in pazienti con DLBCL ricaduti o refrattari sono incoraggianti anche se spesso transitori, specie nei pazienti con caratteristiche prognostiche sfavorevoli (double-hit o triple-hit). La lenalidomide, somministrata come agente singolo in pazienti fortemente pretrattati, ha consentito di ottenere una risposta globale nel 35% dei casi con un tasso di RC del 13% (Witzig TE, 2011). I pazienti ricaduti/refrattari con caratteristiche genetiche sfavorevoli (non-GCB) presentano risposta nettamente migliore alla lenalidomide rispetto al gruppo GCB (risposte globali 53% vs 9%, RC 23% vs 4%) (Hernandez-Ilizaliturri FJ, 2011). Un trial di fase 2 con l’inibitore di BTK ibrutinib su 79 pazienti con DLBCL altamente pretrattati ha mostrato risposte globali del 37% nei linfomi ABC e del 5% nei linfomi GCB (Wilson WH et al, 2015). La combinazione di ibrutinib, lenalidomide e rituximab ha dato risultati preliminari incoraggianti, in particolare nei pazienti non-GCB (Goy A et al, 2019). Altri studi hanno testato l’efficacia degli inibitori di mTOR (temsirolimus ed everolimus) e gli inibitori delle HDAC (vorinostat e panobinostat). Nell’insieme queste esperienze suggeriscono che la target therapy, a differenza della chemioterapia convenzionale, funzioni in maniera differenziale a seconda del profilo genico dei DLBCL e che tali collerazioni biologiche potranno diventare di importanza sempre maggiore nella decisione del trattamento da intraprendere nel singolo paziente.
L’anticorpo anti-CD30 brentuximab-vedotin ĆØ stato impiegato in uno studio di fase II su 49 pazienti con DLBCL ricaduto/refrattario (circa il 15-20% dei DLBCL ĆØ CD30+), ottenendo una risposta nel 44% dei casi, incluso un 17% di RC. Risposte obiettive sono state ottenute anche in pazienti con altri linfomi B aggressivi, inclusi i linfomi ā€œgray zoneā€, il linfoma primitivo del mediastino e le malattie linfoproliferative post-trapianto (Jacobsen ED, 2015). L’anticorpo anti-CD79b polatuzumab vedotin in associazione a bendamustina e obinutuzumab ĆØ risultato efficace in una piccola coorte di pazienti pluritrattati, e l’associazione con bendamustina e rituximab ha determinato risposte complete nel 40% dei pazienti ricaduti/refrattari non eleggibili a trapianto, con una PFS mediana di 9,5 mesi (Sehn LH et al, 2019): sulla base di questi dati polatuzumab vedotin ha ottenuto la designazione di farmaco orfano da EMA per il trattamento dei DLBCL ricaduti/refrattari. L’anticorpo bispecifico blinatumomab stimola i linfociti T citotossici (CD3+) del paziente e ne reindirizza l’attivitĆ  litica nei confronti delle cellule B (CD19+): l’esperienza clinica con questo nuovo farmaco si riferisce in gran parte a studi in pazienti (adulti e pediatrici) con leucemia acuta linfoblastica, tuttavia uno dei primi studi pilota con blinatumomab aveva arruolato pazienti con DLBCL ricaduti/refrattari, dimostrando tassi di risposta globale superiori al 50% ma con significativi limiti di tollerabilitĆ  (tossicitĆ  al SNC) legati alla dose elevata di farmaco necessaria per ottenere tali risposte. Un lavoro di fase I/II ha mostrato che un approccio di aumento graduale della dose consente di limitare gli effetti collaterali rispetto a una terapia a dose fissa: in una coorte di pazienti con linfoma B diffuso a grandi cellule refrattaria al trapianto autologo e con una mediana di 3 linee precedenti di trattamento, la risposta globale a blinatumomab ĆØ stata del 43%, con una durata mediana di risposta di 11,6 mesi e nessun evento neurologico di grado 4 o fatale (Viardot A et al, 2016). Più recentemente, l’impiego dell’anticorpo bispecifico anti-CD3/anti-CD20 mosunetuzumab ha fornito risultati incoraggianti in pazienti con linfomi ricaduti/refrattari dopo multiple linee di trattamento incluse terapie anti-CD19 e trapianto autologo: nel gruppo dei pazienti con DLBCL la risposta globale ĆØ stata del 37,8% e la risposta completa del 20% (Schuster S Jet al, 2019a).
La terapia basata sui linfociti T con recettore antigenico chimerico (CAR-T) Ā ĆØ stata inizialmente sviluppata nel setting della leucemia acuta linfoblastica, ma i risultati di trial successivi hanno portato alla registrazione di questa nuova tecnologia anche nei linfomi ricaduti/refrattari. Attualmente due anti-CD19 CAR-T sono approvate negli USA e in Europa (tisagenlecleucel e axicabtagene ciloleucel) e per un terzo prodotto, Ā caratterizzato dalla combinazione 1:1 di CAR-T CD4 e CD8 (lisocabtagene maraleucel), ĆØ in corso la valutazione da parte dell’FDA. L’indicazione dei due farmaci registrati ĆØ simile (pazienti con DLBCL ricaduto o refrattario a due o più linee di terapia sistemica): in aggiunta, tisagenlecleucel ĆØ indicato nel trattamento della leucemia linfoblastica acuta B fino a 25 anni di etĆ  e axicabtagene ciloleucel nel trattamento del linfoma primitivo del mediastino a grandi cellule B refrattario o recidivante dopo due o più linee di terapia sistemica. La Tabella XIII riporta le proprietĆ , i tassi di risposta (risposta globale 52-83%, risposta completa 40-58%) e alcuni dati di sicurezza relativi agli studi registrativi di questi farmaci (Neelapu SS et al, 2017; Schuster S Jet al, 2019b; Abramson J Set al, 2019). Sono in corso attualmente oltre 200 studi, accademici e commerciali, con CAR-T nei linfomi: il futuro posizionamento di questa strategia dovrĆ  tenere conto di questi dati di efficacia, della complessitĆ  tecnologica legata alla produzione e manipolazione di queste cellule, dell’elevata incidenza di reazioni infusionali da liberazione di citochine e di complicanze neurologiche e, non ultimo, dei costi molto elevati.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tabella XIII: Cellule CAR-T nella terapia dei linfomi

 

 

Linfoma B a grandi cellule primitivo del mediastino.Ā A causa della scarsa frequenza di questa forma, non sono disponibili studi controllati per stabilire quale sia il miglior trattamento. E’ stato dimostrato che gli schemi di terapia a intervalli intensificati (cosiddetti schemi di terza generazione, MACOP-B e VACOP-B) determinano migliori risultati in termini di OS e EFS rispetto alla chemioterapia CHOP (Todeschini G et al, 2004)Ā (Figura XIII). Il ruolo della radioterapia di consolidamento sul mediastino e la terapia HDS in pazienti con malattia avanzata e presentazione particolarmente sfavorevole sono ancora oggetto di controversie (Dunleavy K, 2015). L’impiego dello schema DA-EPOCH-R (senza radioterapia) ĆØ risultato particolarmente efficace (RC nel 96% dei pazienti con follow-up da 10 mesi a 14 anni) e sicuro, non essendo stati finora riportati casi di tossicitĆ  cardiaca o polmonare a lungo termine (Dunleavy K, 2013a). A differenza della maggioranza dei DLBCL, i linfomi primitivi del mediastino sono caratterizzati da iperespressione di PD-1 (Twa DD et al, 2014), il che ha fornito un razionale per l’impiego degli inibitori del checkpoint immune nei pazienti ricaduti/refrattari. Come agente singolo, l’inibitore di PD-1 pembrolizumab ha determinato una risposta parziale o completa nel 41% dei pazienti trattati, con una PFS mediana di 10,4 mesi (Zinzani PL et al, 2017). L’associazione di nivolumab e brentuximab vedotin ha determinato una risposta metabolica completa nel 43% dei pazienti con linfoma primitivo del mediastino ricaduto dopo trapianto autologo o dopo più di due linee di trattamento, con una durata mediana della risposta non raggiunta a 11 mesi di follow-up e con evidenza di alcuni pazienti lungosopravviventi senza ulteriore trattamento (Zinzani PL et al, 2019).

 

 

 

Figura XIII: Confronto della sopravvivenza globale in pazienti con linfoma B a grandi cellule primitivo del mediastino trattati con uno schema intensificato (MACOP-B/VACOP-B) o con il tradizionale schema CHOP.

 

 

Linfoma primitivo del sistema nervoso centrale. La chemioterapia convenzionale dei NHL ĆØ inefficace in queste forme in quanto la maggior parte dei farmaci non ĆØ in grado di attraversare con sufficienti concentrazioni la barriera emato-encefalica. Gli schemi terapeutici maggiormente utilizzati nei pazienti immunocompetenti si basano sulla somministrazione di alte dosi di methotrexate (≄2 g/m2) e citarabina, farmaci in grado di assicurare concentrazioni terapeutiche nel SNC. La radioterapia di consolidamento ĆØ tuttora inclusa nella maggior parte dei protocolli di trattamento, anche se le sequele neurologiche determinate dall’associazione di chemio- e radio-terapia possono essere rilevanti e invalidanti. I risultati dello studio randomizzato IELSG-32 indicano che l’aggiunta di rituximab e thiotepa alla chemioterapia con alte dosi di methotrexate (regime MATRIx) migliora i tassi di risposta, la PFS e la OS (69% a 2 anni vs 42% con il trattamento basato su methotrexate e citarabina da soli) (Ferreri A Jet al, 2016) e analoghi risultati sono stati ottenuti applicando lo stesso schema in una esperienza real life su una popolazione di 156 pazienti più anziani rispetto a quelli dello studio clinico (Schorb E et al, 2020): la tossicitĆ  nei pazienti con performance status molto scadente ĆØ stata tuttavia elevata e ha compromesso la risposta a questo trattamento. Opzioni più conservative per pazienti unfit sono il trattamento con temozolomide orale e la radioterapia encefalica a dosi intermedie (Fox CP et el, 2019).

Altri linfomi extranodali primitivi. Il trattamento dei linfomi che insorgono in altre sedi extranodali (testicolo, mammella, osso) si basa sulla terapia chirurgica (nel caso del linfoma testicolare), sulla somministrazione di chemioimmunoterapia (R-CHOP 6-8 cicli), seguita da radioterapia (25-30 Gy sul testicolo controlaterale o sulle sedi iniziali di malattia) e sulla profilassi delle localizzazioni al SNC con chemioterapia intratecale nei pazienti ad alto rischio, ad es. nelle donne con linfoma mammario a presentazione bilaterale (Vitolo U et al, 2016).

Linfomi correlati ad AIDS. I linfomi più frequentemente associati all’AIDS sono il linfoma di Burkitt (in genere pazienti con livelli di immunosoppressione moderata/non severa), il linfoma primitivo del SNC (soprattutto in pazienti con conte di linfociti CD4 molto basse) e il DLBCL. L’incidenza di questi linfomi nell’era della terapia anti-retrovirale ad alta efficacia (HAART) ĆØ in diminuzione. Nei pazienti in buone condizioni cliniche il trattamento rispecchia quello impiegato nei soggetti HIV-. Nei pazienti con conta linfocitaria severamente ridotta (CD4+ <50/mmc) l’impiego di rituximab ĆØ stato associato ad un aumentato rischio di neutropenia severa e infezione e ne era stato pertanto messo in discussione il ruolo (Kaplan LD et al, 2005) tuttavia una metanalisi condotta su quasi 1500 pazienti ha dimostrato che il rituximab determina in tutti i pazienti tassi più elevati di RC e migliore PFS tuttavia una metanalisi condotta su quasi 1500 pazienti ha dimostrato che il rituximab determina in tutti i pazienti tassi più elevati di RC e migliore PFS (Barta SK, 2013), per cui oggi il suo impiego ĆØ universale. Data la frequente presenza di tropismo per il SNC ĆØ inoltre utile la rachicentesi profilattica in corrispondenza di ogni ciclo di chemioterapia per tutti i pazienti HIV+.

Linfoma linfoblastico.Ā Il trattamento dei linfomi linfoblastici con protocolli chemioterapici propri dei linfomi non Hodgkin (CHOP, mBACOD) determina tassi di remissione e guarigione insoddisfacenti, inferiori al 50% (Morel P et al, 1992). L’impiego di terapie intensificate, come quelle utilizzate nella leucemia linfoblastica acuta, consente invece di ottenere la RC nell’80-100% dei casi, sia nei bambini che negli adulti (Hoelzer D et al, 2002). La prognosi dei pazienti adulti ĆØ peraltro inferiore a quella pediatrica, a causa della maggior frequenza di recidiva sia in sede mediastinica che al SNC, nonostante la radioterapia.
Nei pazienti pediatrici il ruolo della radioterapia profilattica ĆØ stata messa in discussione dal momento che il gruppo tedesco BFM ha dimostrato che l’impiego di una chemioterapia intensificata ĆØ altrettanto efficace dell’irradiazione encefalica nel prevenire le recidive leucemiche al SNC e consente di evitare gli effetti a lungo termine della radioterapia (Reiter A et al, 2000). Non ĆØ dimostrato tuttavia che regimi chemioterapici cosƬ intensivi possano essere tollerati anche da pazienti adulti.
Il ruolo del trapianto autologo di cellule staminali in prima RC ĆØ stato esaminato in una coorte prospettica di 65 pazienti adulti: pur determinando un trend verso una minor frequenza di recidive, il trapianto autologo non sembra migliorare la sopravvivenza globale rispetto al trattamento chemioterapico convenzionale seguito da un mantenimento prolungato (Sweetenham JW et al, 2001).

Linfoma di Burkitt. A causa dell’elevata cinetica e della frequente presenza di localizzazioni extranodali (testicolare, SNC…) il linfoma di Burkitt non trae beneficio dagli schemi di chemioterapia convenzionali nĆØ dagli schemi comunemente impiegati nella leucemia linfoblastica. L’utilizzo di protocolli di chemioterapia intensificata associato alla profilassi delle localizzazioni al SNC, tuttavia, determina in questo tipo di linfoma alte percentuali di guarigione. Una breve chemioterapia intensiva, basata sull’alternanza del ciclo CODOX-M (ciclofosfamide, vincristina, doxorubicina, methotrexate ad alte dosi) e del ciclo IVAC (ifosfamide, etoposide, alte dosi di citarabina) determina nei pazienti con malattia avanzata una OS a 2 anni del 69,9% (Mead GM et al, 2002), percentuale di pazienti che può virtualmente essere considerata guarita dal momento che le recidive di linfoma di Burkitt oltre i 12 mesi dall’ottenimento della prima RC sono sporadiche. L’applicazione nei soggetti adulti di schemi derivati dall’esperienza pediatrica (Pediatric Oncology Group, POG 8617), basati sull’alternanza di ciclofosfamide iperfrazionata (attiva in fase S), vincristina, doxorubicina, methotrexate e citarabina ad alte dosi (entrambi questi ultimi in grado di passare la barriera emato-encefalica) ha evidenziato che anche nei soggetti adulti possono essere ottenute elevate percentuali di RC (93%) ed EFS (72% con un follow-up mediano di 8 anni) non differenti da quelle che si ottengono nei pazienti pediatrici (Todeschini G et al, 1997; Todeschini G et al, 2012). Nei soggetti anziani o che per comorbiditĆ  non possano praticare terapie intensificate le prospettive sono assai scadenti: tuttavia, un lavoro prospettico condotto su 30 pazienti (11 dei quali affetti da HIV), ha evidenziato che anche regimi chemioterapici meno intensivi (dose ajusted-EPOCH-R) sono in grado di determinare tassi elevati di RC, con una sopravvivenza del 90-100% ad un follow-up mediano di 73-86 mesi (Dunleavy K, 2013b).Ā Il consolidamento con HDS/ASCT e la terapia di mantenimento non hanno sostanziale valore nel contesto del linfoma di Burkitt. L’immunoterapia R-HyperCVAD, nell’esperienza dell’MD Anderson Cancer Center, ĆØ risultata più efficace rispetto ai controlli storici trattati con il solo HyperCVAD in termini di OS, EFS e DFS a 3 anni, rispettivamente dell’89%, 80% e 88% (Thomas DA et al, 2006) (Figura XIV). Uno studio randomizzato multicentrico francese su 260 pazienti ha mostrato superiore EFS a 3 anni (75% vs 62%) dei pazienti trattati con rituximab e chemioterapia rispetto a quelli trattati con il solo programma di chemioterapia (Ribrag V et al, 2016).

 

 

 

Figura XIV: Il trattamento con chemioimmunoterapia R-HyperCVAD nei pazienti con linfoma di Burkitt o leucemia linfoblastica acuta L3 consente di ottenere ottimi risultati in termini di sopravvivenza globale (89%), libera da eventi (80%) e libera da malattia (88%).

 

 

L’estrema chemiosensibilitĆ  del linfoma di Burkitt, come di altri NHL aggressivi con massa bulky, può determinare, in coincidenza con l’inizio del trattamento, l’insorgenza di una sindrome da lisi tumorale, conseguenza della citolisi massiva che rilascia in circolo grandi quantitĆ  di fosfati, a cui consegue la chelazione del calcio e la precipitazione a livello renale. Ne conseguono iperfosfatemia, ipocalcemia, insufficienza renale talvolta grave ma generalmente transitoria, iperpotassiemia, ipervolemia, iperuricemia e acidosi. La prevenzione della sindrome da lisi tumorale si basa sull’iperidratazione con diuresi forzata, sull’alcalinizzazione delle urine e sulla somministrazione di farmaci uricosurici.
I pazienti con malattia refrattaria o ricaduta hanno una prognosi assai sfavorevole e dovrebbero essere inseriti in contesti sperimentali e protocolli clinici.

Linfomi associati a infezione da HHV-8. La malattia di Castleman multicentrica ĆØ spesso associata alla presenza del virus HHV-8, in particolare nei pazienti con concomitante infezione da HIV. La malattia, caratterizzata da linfoadenopatia generalizzata, epatosplenomegalia, sintomi sistemici e gradi variabili di citopenia, può andare incontro a spontanee esacerbazioni e remissioni, ma in alcuni casi presenta un decorso clinico severo e rapidamente progressivo, legato al rilascio di grandi quantitĆ  di mediatori citochinici, e in particolare IL6, da parte del microambiente linfonodale (Yoshizaki K et al, 2018). La chemioterapia ĆØ risultata di limitata efficacia in tali casi, cosƬ come diversi agenti antivirali (ganciclovir, cidofovir, etc…). Risultati migliori sono stati ottenuti impiegando rituximab come agente singolo, grazie alla sua attivitĆ  linfodepletiva nei confronti delle cellule B infettate da HHV-8: 4 infusioni settimanali di Rituximab a dose standard hanno determinato la RC di 20 su 21 pazienti e di 22 su 24 pazienti trattati rispettivamente in due studi prospettici in pazienti HIV+, con una DFS del 71-79% a 2 anni (Bower M, 2007; Gerard L, 2007; Gerard L et al, 2012). Considerato il ruolo cruciale dell’iperproduzione di IL-6 nella patogenesi della malattia di Castleman, ĆØ stato sviluppato un anticorpo monoclonale anti-IL-6 (siltuximab), somministrato per via endovenosa ogni 3-6 settimane in maniera continuativa: risultati di recenti studi di fase 1-2 ne hanno dimostrato l’efficacia nel controllo a lungo termine della malattia (Kurzrock R, 2013; van Rhee F, 2014). Analogamente, l’anticorpo anti-recettore IL-6 tocilizumab ĆØ risultato rapidamente efficace nel migliorare il quadro di clinico di pazienti, in particolare con interessamento polmonare interstiziale, e la somministrazione prolungata ha determinato risposta duratura nel tempo (Nishimoto N et al, 2007). Tale trattamento ĆØ di particolare interesse anche per i pazienti con malattia di Castleman multicentrica idiopatica (cioĆØ non associata a HHV-8) che hanno un decorso in genere più aggressivo (Fajgenbaum DC et al, 2017; van Rhee F et al, 2018).

Il Primary Effusion Lymphoma (PEL) ĆØ un raro linfoma B aggressivo, associato all’infezione da HIV, ad altri stati di immunodeficienza e all’etĆ  avanzata. Il ruolo patogenetico di HHV-8 ĆØ stato dimostrato virtualmente in tutti i casi documentati di PEL. Le casistiche relative a questo linfoma sono molto limitate: nella maggior parte dei pazienti sono stati impiegati schemi di terapia CHOP-like con risposte di brevissima durata, e sopravvivenza mediana di circa 6 mesi (Chen YB, 2007).

 

LINFOMI A CELLULE T/NK

 

Definizione

 

I linfomi a cellule T rappresentano un gruppo assai eterogeneo di disordini linfoproliferativi, alcuni caratterizzati da andamento indolente (leucemia a grandi linfociti granulari, LGL) o con coinvolgimento prevalentemente cutaneo (micosi fungoide), altri invece ad andamento aggressivo e interessamento sistemico (leucemia aggressiva a cellule NK, linfomi T periferici NAS).

 

Epidemiologia e fattori di rischi

 

I linfomi T rappresentano circa il 10% di tutti i NHL. Gli istotipi più frequenti sono il linfoma T periferico NAS e il linfoma T angioimmunoblastico (Armitage J et al, 2008)(Tabella XIV). Alcuni linfomi T presentano incidenza aumentata in alcune aree geografiche o in rapporto a specifici fattori di rischio. Il linfoma/leucemia a cellule T ĆØ assai frequente in Giappone, in relazione all’alta prevalenza di infezione da HTLV-I. In generale, i linfomi T sono più frequenti nella razza asiatica che nelle altre razze. Il linfoma T intestinale “enteropathy-like” ĆØ associato alla malattia celiaca ed ĆØ quindi più frequente nelle popolazioni che presentano aplotipi HLA che predispongono alla celiachia. Come per i linfomi B, la terapia immunosoppressiva o gli immunodeficiti congeniti predispongono allo sviluppo di patologie linfoproliferative T. L’infezione da EBV ĆØ stata associata allo sviluppo del linfomi T/NK extranodali ā€œnasal typeā€.

 

 

 

Tabella XIV: Classificazione e frequenze relative dei linfomi non Hodgkin T/NK negli adulti

 

 

Genetica molecolare

 

Al pari dei linfomi B, lo spettro dei disordini linfoproliferativi derivanti dai linfociti T/NK richiama, anche se non completamente, lo sviluppo ontogenetico di tali cellule.
Le cellule T mature dell’immunitĆ  acquisita includono cellule naive, cellule effettrici (helper e citotossiche) e cellule memory. I linfomi derivanti da tali cellule si presentano soprattutto negli adulti e con prevalente interessamento nodale. La maggior parte dei linfomi T periferici NAS deriva da linfociti T helper CD4+. Sono stati individuati nuovi subset di linfociti T CD4+ con funzioni specifiche da cui deriverebbero particolari patologie linfoproliferative. I linfociti T helper follicolari presentano un profilo antigenico tipico delle cellule T ma esprimono anche i marcatori del centro germinativo BCL6 e CD10 e secernono alti livelli di CXCL13, che promuove la migrazione e la maturazione delle cellule B nel centro germinativo: tali caratteristiche si ritrovano anche nel linfoma T angioimmunoblastico, caratterizzato dalla notevole espansione di cellule B e cellule follicolari dendritiche a livello linfonodale, e da ipergammaglobulinemia policlonale (Dupuis J et al, 2006). La leucemia/linfoma a cellule T dell’adulto, associata all’infezione da virus HTLV-1, presenta caratteristiche fenotipiche simili a quelle dei linfociti T regolatori (Treg), quali positivitĆ  per CD25 e per il fattore di trascrizione FOXP3: tali analogie potrebbero essere messe in relazione con la marcata immunosoppressione che caratterizza questo tipo di linfoma (Roncador G et al, 2005).
Le cellule T mature dell’immunitĆ  innata includono una parte dei linfociti T CD4- CD8- e i linfociti NK (CD3- CD16+ CD56+). Le neoplasie che derivano da questi linfociti interessano prevalentemente l’etĆ  pediatrica e i giovani adulti e hanno una distribuzione prevalentemente extranodale, analogamente alla loro controparte fisiologica, funzionalmente impiegata nella difesa aspecifica contro antigeni esogeni. Tali neoplasie includono la leucemia aggressiva a cellule NK, i linfomi T epatosplenici e i linfomi a cellule T γΓ a interessamento cutaneo e mucoso (Jaffe ES, 2006).
Solo una piccola parte dei linfomi T ĆØ stata finora associata a specifiche anomalie cromosomiche. L’esempio più rilevante ĆØ quello del linfoma anaplastico a grandi cellule ALK+, caratterizzato dalla traslocazione t(2;5) e varianti (Amin HM, Lai R, 2007).

Recenti studi di gene expression profiling hanno identificato tre sottogruppi di linfomi T, sulla base del profilo di espressione di tre citochine (CCR4, CXCR3, CCR3) con significato prognostico (Asano N et al, 2010).

Nei linfomi T periferici NAS sono stati individuati pattern mutuamente esclusivi di espressione genica, uno caratterizzato da prevalente espressione di geni legati alla proliferazione cellulare (MYC, mTOR, GATA-3), con significato prognostico sfavorevole, e uno caratterizzato da prevalente espressione di geni legati alla citotossicità (T-bet, NF-kB), a prognosi più favorevole (Iqbal J et al, 2014). Va sottolineato comunque che gli studi di genetica molecolare nei linfomi T sono stati condotti su casistiche limitate e ad oggi non rappresentano modelli su cui basare le scelte terapeutiche.

 

Diagnosi differenziale

 

Il linfoma T periferico NAS rappresenta la forma più frequente di NHL T: all’interno di questa categoria rientrano forme istologicamente eterogenee, alcune caratterizzate da pleomorfismo cellulare in cui gli elementi neoplastici sono commisti a un ricco infiltrato infiammatorio, altre più monomorfe, che ricordano l’aspetto dei linfomi a grandi cellule B. In generale, i linfomi T periferici NAS sono neoplasie aggressive, più frequenti nell’adulto e nell’anziano, si presentano in stadio avanzato e possono avere interessamento nodale o extranodale. Il 30-50% dei casi di linfoma T periferico NAS esprime il CD30.

Il linfoma T angioimmunoblastico presenta caratteristiche cliniche e patologiche specifiche: esordisce con linfoadenopatia generalizzata, epatosplenomegalia, rash cutaneo e importanti sintomi sistemici (Mourad N et al, 2008). Sono tipici l’ipergammaglobulinemia policlonale, la presenza di eosinofilia e di anemia emolitica Coombs-positiva. Le cellule neoplastiche esprimono imarcatori T CD4 e CD57 ma anche in maniera aberrante i marcatori B CD10 e BCL6: tali caratteristiche hanno fatto supporre che la cellula di origine di questo linfoma sia il linfocita T helper follicolare (de Leval L et al, 2007). Dal punto di vista istologico le cellule neoplastiche sono circondate da un infiltrato infiammatorio con espansione particolare dei linfociti B: molto frequentemente tali linfociti risultano EBV-positivi.

Il linfoma anaplastico a grandi cellule (ALCL) ĆØ anch’esso un’entitĆ  eterogenea dal punto di vista citologico e molecolare. L’espressione del marcatore CD30 ĆØ caratteristica, come pure l’assente o debole espressione dei marcatori T: per tali ragioni la diagnosi differenziale rispetto al linfoma di Hodgkin ĆØ talora difficile (Figura XIII). Un marcatore utile in tal senso ĆØ PAX-5, fattore di trascrizione B-lineage che viene espresso in maniera variabile nel linfoma di Hodgkin e risulta sempre negativo negli ALCL. Dal punto di vista molecolare il linfoma anaplastico si caratterizza per l’iperespressione della chinasi ALK, derivante dalla traslocazione t(2;5). Esistono tuttavia casi di linfoma anaplastico ALK-, che interessano soggetti in etĆ  più avanzata e presentano una prognosi decisamente peggiore (Salaverria I et al, 2008): si ritiene che tali casi rappresentino un’entitĆ  patogeneticamente distinta, come sottolineato dall’introduzione di una categoria a parte, definita provvisoria, nella classificazione WHO 2008. Recenti studi di next generation sequencing hanno individuato due lesioni genetiche ricorrenti negli ALCL ALK- (DUSP22 e p63, una variante di p53) che contribuiscono a definirli come una vera e propria entitĆ  distinta nell’ambito dei linfomi T: queste due nuove mutazioni sembrano avere rilevante significato prognostico dal momento che in una singola casistica la sopravvivenza a 5 anni dei pazienti con mutazione di DUSP22 ĆØ stata del 90% mentre quella dei pazienti con mutazione di TP63 ĆØ stata solamente del 17% (Parilla Castellar ER, 2014).

 

 

 

Figura XIII: Caratterizzazione di un caso di linfoma anaplastico a grandi cellule CD30+. A) La morfologia delle cellule neoplastiche ĆØ caratterizzata da ampia taglia, nuclei irregolari e macronucleolati. E&E. B) Le cellule neoplastiche esprimono elevati livelli di CD30. C) La colorazione immunoistochimica per la proteina ALK mostra distribuzione nucleare e citoplasmatica corrispondente alla presenza di traslocazione t(2;5). D) Si evidenzia significativa espressione della molecola citotossica granzyne-B.

 

 

Presentazione clinica

 

Data la loro eterogeneitĆ  patologica, anche la presentazione clinica dei linfomi T ĆØ assai varia. Nella maggior parte dei casi l’interessamento ĆØ nodale, ma alcune entitĆ  si caratterizzano, oltre che sul piano citologico, anche per le tipiche sedi coinvolte. Il linfoma T epatosplenico colpisce giovani adulti di sesso maschile, presentandosi con epatosplenomegalia massiva in assenza di coinvolgimento nodale. Il linfoma intestinale T “enteropathy-type” si manifesta, quasi esclusivamente in soggetti celiaci, con localizzazioni intestinali (uniche o multifocali) che danno spesso luogo a perforazione intestinale e peritonite. Il linfoma T sottocutaneo panniculitico si presenta con multipli noduli sottocutanei di varia forma e dimensione, prevalentemente distribuiti alle estremitĆ , in assenza di coinvolgimento cutaneo. Al contrario, alcuni linfomi T sono limitati alla cute: la micosi fungoide si presenta sotto forma di placche eritematose più o meno diffuse e variabilmente associate a un quadro eritrodermico generalizzato (se presente interessamento sistemico e leucemizzazione si parla di sindrome di Sezary). Esiste una variante del linfoma anaplastico CD30+ confinata esclusivamente alla cute, in genere sotto forma di lesione singola di colore rosso violaceo, più frequenti negli anziani e nel sesso maschile. Sono stati riportati alcuni casi di ALCL associato a protesi mammaria: nella maggior parte si tratta di effusioni isolate e limitate alla capsula protesica, mentre la presenza di masse nodali periprotesiche rappresenta un fattore prognostico sfavorevole per la sopravvivenza (Miranda RN, 2014).
Infine, alcune forme aggressive di linfoma T si associano caratteristicamente a una sindrome emofagocitica, caratterizzata da sintomi sistemici, pancitopenia ed epatosplenomegalia: allo striscio midollare si dimostra la presenza di un gran numero istiociti con atteggiamento di fagocitosi nei confronti di eritrociti, piastrine e talora precursori mielo-eritroidi. La sindrome emofagocitica dipende dalla produzione di citochine e chemochine da parte della componente neoplastica, ha un decorso talora rapidamente fatale, ma va incontro a remissione se si instaura una terapia antineoplastica efficace.

 

Fattori prognostici

 

Nonostante i primi lavori retrospettivi avessero messo in luce dati contrastanti, esiste ora una solida evidenza che la prognosi dei pazienti con NHL T sia peggiore rispetto a quella dei linfomi B (Morabito F et al, 2004), pur con delle differenze sostanziali in relazione a specifici istotipi (Figura XVI).

 

 

 

Figura XVI: Curve di sopravvivenza di vari istotipi di linfomi non Hodgkin T/NK. Cut ALCL: linfoma anaplastico a grandi cellule CD30+ cutaneo. ALK-pos ALCL: linfoma anaplastico a grandi cellule CD30+ ALK-positivo. SCPTCL: linfoma sottocutaneo panniculitico. ALK-neg ALCL: linfoma anaplastico a grandi cellule CD30+ ALK-negativo. NKTCL: linfoma extranodale T/NK ā€œnasal-typeā€. AILT: linfoma angioimmunoblastico. PTCLNOS: linfoma T periferico non altrimenti specificato. ETTL: linfoma T ā€œenterropathy-typeā€. HSTCL: linfoma TγΓ epatosplenico.

 

 

Il tradizionale indice prognostico IPI, sviluppato nel setting dei linfomi aggressivi prima della distinzione immunofenotipica tra NHL B e T, mantiene il proprio valore anche quando applicato a casistiche di pazienti con NHL T (Weisenburger DD et al, 2008). Uno studio italiano multicentrico restrospettivo ha più portato a definire un modello prognostico specificamente disegnato per i linfomi T, e pertanto chiamato PIT (Prognostic Index for T cell lymphoma): questo modello riconosce l’importanza del coinvolgimento midollare come fattore prognostico indipedente, accanto a fattori tradizionali (etĆ , performance status, LDH), individuando cosƬ gruppi di pazienti con diversa probabilitĆ  di sopravvivenza a 5 anni (da 62% in presenza di un solo fattore di rischio a 18% in presenza di tre o quattro fattori di rischio) (Gallamini A et al, 2004) (Tabella XV). Più recentemente, uno studio prospettico internazionale ha definito un modello prognostico specifico per i linfomi T periferici NAS basato su 4 semplici variabili cliniche (albumina sierica, performance status, stadio e conta assoluta dei neutrofili), definendo 3 gruppi di rischio con sopravvivenza a 3 anni del 76% (nessun fattore di rischio), 43% (1-2 fattori di rischio) e 11% (3-4 fattori di rischio) (Federico M et al, 2018).

 

 



Tabella XI: Prognostic Index for Peripheral T-Cell Lymphoma (PIT score)

 

 

Nell’ambito dei linfomi T periferici NAS sono stati proposti ulteriori fattori prognostici, anche alla luce della notevole eterogeneitĆ  di questa entitĆ  patologica: l’espressione di alti livelli di antigeni EBV-associati, alti livelli di indice proliferativo (Ki-67), l’assente espressione di marcatori Th1/Th2, un’elevata percentuale di cellule neoplastiche trasformate e l’iperespressione di NF-kB sono stati individuati come variabili prognostiche negative, anche se nessuna di queste variabili ha trovato una reale applicazione nella pratica clinica. Molti studi hanno messo in evidenza che i linfomi anaplastici a grandi cellule ALK+ hanno una prognosi migliore rispetto a quelli ALK- (Gascoyne RD et al, 1999), anche se negli stadi avanzati (IPI alto rischio) la sopravvivenza dei linfomi ALK+ ĆØ scarsa come nelle altre forme di NHL T (Savage KJ et al, 2008).Ā Uno studio del gruppo GELA ha evidenziato come la migliore prognosi dei linfomi ALK+ sia da mettere essenzialmente in relazione alla più giovane etĆ  di comparsa: considerando solo pazienti di etĆ  inferiore a 40 anni, la prognosi delle forme ALK+ e ALK- ĆØ risultata simile (Sibon D, 2012).

 

Trattamento

 

Linfomi T cutanei.Ā I pazienti con linfomi T limitati alla cute (micosi fungoide, linfoma anaplastico a grandi cellule CD30+ cutaneo) hanno in genere decorso indolente e lunga sopravvivenza pur con tendenza alla recidiva (Tulpur R et al, 2012). Il trattamento ĆØ in genere locale, di tipo chirurgico in caso di lesioni singole. Nei pazienti con lesioni multiple (ad es. micosi fungoide) ĆØ stata impiegata con successo la fotochemioterapia con psoraleni (PUVA); le lesioni sono inoltre sensibili alla radioterapia tradizionale e alla radioterapia con elettroni, in particolare nei pazienti con lesioni a placche o tumorali. Nei pazienti con malattia avanzata e coinvolgimento sistemico ĆØ necessario ricorrere alla polichemioterapia o a nuovi agenti come l’inibitore delle istone deacetilasi vorinostat (Willemze R et al, 2005; Mann BS et al, 2007). In uno studio randomizzato condotto in pazienti con linfomi T cutanei CD30+ ricaduti/refrattari il trattamento con brentuximab ĆØ risultato superiore alla miglior terapia scelta dallo sperimentatore (methotrexate o bexarotene) in termini di risposta (56% vs 12%) e PFS (Prince HM et al, 2017), portando all’approvazione di brentuximab sia negli Stati Uniti che in Europa per questa indicazione. L’anticorpo anti-CCR4 mogamulizumab ha dimostrato superiore efficacia in termini di PFS rispetto a vorinostat in uno studio di fase 3 condotto su 372 pazienti con micosi fungoide o sindrome di Sezary sottoposti ad almeno una precedente linea di trattamento (Kim YH et al, 2018). Altre opzioni di terapia per i pazienti con sindrome di Sezary resistente o in progressione dopo trattamenti diretti alla cute sono l’anticorpo anti-CD52 alemtuzumab a bassa dose, chemioterapia con agenti singoli (in particolare gemcitabina e doxorubicina liposomiale) e vari schemi di polichemioterapia (Willemze R et al, 2018).

Linfoma T periferico NAS. L’impiego della tradizionale chemioterapia CHOP o di schemi analoghi nei linfomi T determina risultati nettamente inferiori rispetto ai linfomi B, con una sopravvivenza a 5 anni che non supera il 30-35%: inoltre, un ampio studio internazionale ha mostrato che, a differenza dei linfomi B, l’aggiunta di antracicline agli schemi polichemioterapici nei NHL T non comporta alcun beneficio in termini di sopravvivenza, confermando la necessitĆ  di individuare modalitĆ  di trattamento diverse dagli schemi CHOP-like (Vose J, 2008) (Figura XVII).

 

 

 

Figura XVII: Curve di sopravvivenza di pazienti con linfoma non Hodgkin T periferico NAS.Ā  L’incorporazione delle antracicline nella chemioterapia di prima linea (linea continua) o la loro assenza (line tratteggiata) non determina alcuna differenza in termini di sopravvivenza.

 

 

Strategie alternative includono: a) impiego di regimi intensificati di chemioterapia; b) aggiunta di nuovi farmaci alla chemioterapia; c) impiego della chemioterapia ad alte dosi seguita da trapianto autologo di cellule staminali.
L’impiego di regimi intensificati di chemioterapia ĆØ stato studiato prevalentemente dal gruppo americano dell’MD Anderson Cancer Center: nella loro esperienza (retrospettiva) l’utilizzo di schemi quali HyperCVAD, Hyper-CHOP, M-BACOS, ASHOP, MINE non determina risultati superiori rispetto al tradizionale CHOP nĆØ in termini di risposta (59% con i regimi intensificati vs 58% con il CHOP) nĆØ in termini di sopravvivenza a 3 anni (49% vs 43% rispettivamente) (Escalon MP et al, 2005).
L’aggiunta dell’anticorpo monoclonale anti-CD52 alemtuzumab (Campath) alla chemioterapia CHOP si ĆØ dimostrata non superiore a quella ottenuta con il solo schema CHOP, anche a motivo dell’elevata incidenza di gravi infezioni a seguito di alemtuzumab, che ne limitano l’uso in una popolazione di pazienti caratterizzata per se da una severa immunosoppressione (Gallamini A et al, 2007). Analogo risultato ĆØ stato ottenuto dall’associazione di bortezomib e CHOP: a fronte di un maggior tasso di risposta globale e RC (rispettivamente 76% e 65%), la sopravvivenza a 3 anni ĆØ stata del 47% e la PFS del 35% (Kim SJ, 2012). Lo schema CHOP con aggiunta dell’etoposide (CHOEP) ĆØ stato largamente impiegato sia nei linfomi T periferici NAS che nei linfomi anaplastici ALK-positivi e ALK-negativi ma non vi sono evidenze conclusive della sua superioritĆ  rispetto al trattamento convenzionale (Ellin F, 2014).

Negli anni più recenti 4 nuovi farmaci (pralatrexate, romidepsina, brentuximab vedotin e belinostat) sono stati approvati dall’FDA per l’impiego nei pazienti con linfomi T ricaduti o refrattari, mentre l’autoritĆ  europea ha approvato solo brentuximab vedotin come trattamento negli ALCL ricaduti/refrattari. Il pralatrexate ĆØ un derivato del methotrexate, con cui condivide il meccanismo di azione: uno studio su 115 pazienti ha consentito di definire che il pralatrexate induce una risposta in circa il 30% dei pazienti con linfoma T/NK recidivato o refrattario, indipendentemente dall’etĆ , dal sottotipo istologico e dal numero di linee precedenti di trattamento (O’Connor OA et al, 2011). Gli inibitori dell’istone deacetilasi romidepsina (depsipeptide), belinostat, panobinostat ed everolimus sono risultati variabilmente efficaci (Ellis L, 2008; Piekarz R, 2011; Coiffier B, 2012; Witzig TE, 2015; O’Connor OA et al, 2015), inducendo una risposta nel 23-44% dei pazienti trattati con una durata mediana della risposta tra 2 e 28 mesi. L’anticorpo monoclonale anti-CD30 brentuximab vedotin ha fornito al momento i risultati più promettenti. Dopo i risultati incoraggianti di uno studio di fase I (Fanale MA et al, 2014), lo studio randomizzato ECHELON-2 ha confrontato lo schema brentuximab-CHP (A-CHP) rispetto a CHOP nel trattamento di prima linea dei pazienti con linfoma T periferico CD30+ (vari sottotipi istologici): lo schema A-CHP ĆØ risultato associato a una PFS mediana significativamente superiore rispetto a CHOP (48,2 vs 20,8 mesi) e il trattamento con A-CHP ha ridotto il rischio di morte del 34%, dimostrando per la prima volta che l’aggiunta di un farmaco alla terapia standard dei linfomi T determina un vantaggio di sopravvivenza (Horwitz S et al, 2019) (Figura XVIII).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura XVIII

 

 

I risultati degli studi sull’impiego della chemioterapia sequenziale ad alte dosi front-line, seguita dal trapianto autologo di cellule staminali .Ā I risultati di questi studi sono controversi e solo una parte di essi mostra un beneficio in termini di sopravvivenza a lungo termine (Reimer P et al, 2004). D’altra parte, la maggior parte degli studi concorda sul fatto che l’ottenimento della RC con la chemioterapia di prima linea ĆØ il fattore prognostico predittivo più importante nel condizionare la sopravvivenza di questi pazienti, e la chemiorefrattarietĆ  dei linfomi T implica purtroppo che una proporzione consistente di pazienti non riesca a giungere alla fase di consolidamento (Rodriguez J et al, 2007; Kyriakou C et al, 2008). Uno studio prospettico italiano con un follow-up particolarmente lungo ha mostrato che in una popolazione eterogenea di pazienti con NHL T la terapia ad alte dosi seguita da trapianto determina una sopravvivenza a 12 anni del 34%: anche in questo caso la differenza in termini di sopravvivenza tra i pazienti che ottengono la RC prima del trapianto (48%) vs quelli che non la ottengono (22%) ĆØ particolarmente significativa (Corradini P et al, 2006). Pur in assenza di un formale confronto randomizzato tra la chemioterapia convenzionale e la terapia ad alte dosi, l’opzione dell’autotrapianto ĆØ considerabile il trattamento di scelta per pazienti con buon performance status e che ottengano una risposta alla terapia di prima linea. Uno studio italiano ha evidenziato che circa il 65% dei pazienti giovani con linfoma T periferico alla diagnosi ottiene una risposta dopo trattamento con alemtuzumab-CHOP e consolidamento con chemioterapia intensiva: la sopravvivenza globale dello studio ĆØ del 50% a 4 anni, senza differenze tra i pazienti sottoposti a trapianto autologo o allogenico, sulla base della disponibilitĆ  di un donatore (Corradini P, 2014). Un recente studio prospettico condotto su 119 pazienti con linfoma T nodale in prima remissione completa ha mostrato un beneficio di sopravvivenza non statisticamente significativo per i pazienti consolidati con trapianto autologo rispetto a quelli non sottoposti a trapianto: tale beneficio appare superiore nei pazienti con malattia in stadio avanzato, indici prognostici sfavorevoli e nel setting dei pazienti con linfoma angioimmunoblastico (Park SI et al, 2019).

Linfomi anaplastici a grandi cellule. In uno studio del gruppo francese GELA su 138 pazienti con ALCL (64 ALK+ e 74 ALK-) il trattamento con schema ACVBP seguita in alcuni casi da chemioterapia ad alte dosi e autotrapianto ha determinato risultati favorevoli, in particolare nei pazienti di etĆ  <40 anni (sopravvivenza a 8 anni superiore all’80%, senza differenze tra i pazienti ALK+ e ALK-) (Sibon D, 2012). Un’analisi retrospettiva condotta dal gruppo tedesco su pazienti con linfomi T di varia istologia ha evidenziato che l’aggiunta di etoposide al tradizionale schema CHOP conferiva un particolare beneficio nei pazienti con ALCL ALK+ (EFS a 3 anni 91% vs 57% per i pazienti trattati con CHOEP o CHOP rispettivamente), senza tuttavia beneficio sulla sopravvivenza globale (Schmitz N, 2010). Brentuximab-vedotin si ĆØ dimostrato particolarmente efficace negli ALCL, indipendentemente dalla positivitĆ  di ALK: in pazienti recidivati o refrattari l’infusione di brentuximab 1,8 mg/kg ogni 3 settimane ha determinato un tasso di risposta obiettiva del 86% e di RC del 57% con una durata mediana della risposta di 12,6 mesi (Younes A, 2010; Pro B et al, 2012). Un’ analisi con più lungo follow-up ha dimostrato che i pazienti che ottengono la RC la mantengono stabilmente nel tempo (PFS e OS mediane non raggiunte a 6 anni di follow-up), sia tra coloro che successivamente sono stati sottoposti a trapianto allogenico di consolidamento che tra i non trapiantati (Pro B et al, 2017). In un piccolo studio di 11 pazienti con ALCL ALK+ recidivati/refrattari l’impiego dell’inibitore orale di ALK crizotinib ha determinato una risposta nella totalitĆ  dei casi, con una OS a 2 anni del 73% e una PFS del 64% (Gambacorti-Passerini C, 2014).

Linfoma T epatosplenico. Si tratta di una forma a decorso aggressivo, in cui il trattamento con schemi tradizionali (CHOP) determina risultati scarsi e di breve durata. Molti pazienti sono giovani e possono tollerare schemi intensificati di chemioterapia (ad esempio ICE o IVAC), seguiti da consolidamento con trapianto autologo o allogenico: una strategia di questo tipo consente una OS a 5 anni attorno al 50% (Voss MH, 2013).

Linfomi T/NK extranodali. Il trattamento delle forme localizzate si basa su radioterapia a dosaggi molto più alti di quanto utilizzato negli altri tipi di linfoma (55-60 Gy) con risposte complete in circa il 70% dei casi. I trattamenti polichemioterapici tradizionali danno invece risultati molto deludenti nelle forme sistemiche,che sono intrinsecamente resistenti alle antracicline. Dati più incoraggianti sembrano venire da uno schema di combinazione di asparaginasi, steroide, methotrexate, ifosfamide ed etoposide (SMILE) con tassi di RC pari al 50% e sopravvivenza a 5 anni nel 45% dei pazienti diagnosticati in fase avanzata (Yamaguchi M et al, 2008; Yamaguchi M et al, 2011). Altri schemi suggeriti dalle raccomandazioni di esperti includono asparaginasi, methotrexate e desametasone (AspMetDex), gemcitabina, asparaginasi e oxaliplatino (GELOX) o schemi includenti peg-asparaginasi (Yamaguchi M et al, 2018). L’anticorpo anti-PD1 pembrolizumab ĆØ stato impiegato con successo in alcuni pazienti ricaduti dopo trattamenti contenenti asparaginasi, ma il follow-up dei casi descritti ĆØ breve (Kwong YL et al, 2017). In base a questi risultati ĆØ stato disegnato uno studio che combina il trattamento frontline con pembrolizumab alla radioterapia erogata in contemporanea alla chemioterapia SMILE.

Leucemia/linfoma a cellule T dell’adulto (ATLL). Si tratta di una neoplasia aggressiva con prognosi infausta, associata all’infezione da HTLV-I ed endemica nei Paesi orientali: mogamulizumab, anticorpo monoclonale umanizzato anti-CCR4, ha determinato un tasso di risposta globale del 50% in pazienti chemorefrattari con una sopravvivenza mediana di 13,7 mesi. Tale farmaco ĆØ stato approvato in Giappone per il trattamento della ATLL ricaduta/refrattaria ed ĆØ in studio anche nei Paesi occidentali per il trattamento dei linfomi T (Ishida T, 2012).

 

 

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A cura di:

Sezione di Ematologia del Dipartimento di Medicina, UniversitĆ  degli Studi di Verona

UniversitĆ  degli Studi di Verona, Professore Onorario di Ematologia, giĆ  Direttore della Scuola di Specializzazione in Ematologia, della UOC di Ematologia e del Dipartimento di Medicina

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