Linfoma di Hodgkin
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INTRODUZIONE
Sebbene il linfoma di Hodgkin (LH) rappresenti circa l’1% di tutte le neoplasie, le sue peculiari caratteristiche istologiche e biologiche, la presentazione clinica e i brillanti successi raggiunti dai trattamenti chemioterapici negli ultimi decenni, ne fanno un’entità unica all’interno dei disordini linfoproliferativi maligni.
Il linfoma di Hodgkin venne descritto per la prima volta nei suoi caratteri clinici e patologici da Sir Thomas Hodgkin nel 1832 (Figura I) mentre la cellula multinucleata di Reed-Sternberg (RS), ossia l’elemento tumorale caratteristico del linfoma, venne identificata solo all’inizio del ‘900 (Figura II).
La caratterizzazione biologica di tale cellula ha percorso tutto il secolo scorso e solo recentemente il linfoma di Hodgkin ha potuto essere ricondotto nell’ambito dei linfomi di derivazione linfocitaria B.
Figura I: Prima descrizione del linfoma di Hodgkin (sinistra); Sir Thomas Hodgkin (destra).
Figura II: Prima descrizione della cellula di Reed-Sternberg.
EPIDEMIOLOGIA E FATTORI DI RISCHIO
L’incidenza del LH è di circa 2-3 casi/100.000 abitanti/anno in Europa e negli Stati Uniti, con una caratteristica distribuzione bimodale che mostra un primo picco d’incidenza tra i 20-30 anni e un secondo picco attorno ai 60 anni. A livello italiano (dati AIRTUM 2005-2009) l’incidenza si assesta attorno a 4 casi/100.000 abitanti/anno per i maschi e 3,3 per le femmine (circa 1300 nuove diagnosi all’anno) con un incremento annuo stimato del 3,5% per i maschi e del 3,8% per le femmine (Figura III) (AIRTUM).
Figura III: Incidenza del linfoma di Hodgkin in Italia per fasce di età (dati AIRTUM).
Il LH è più frequente nella razza bianca e sembra prediligere piccoli nuclei familiari con elevato standard socio-economico nell’infanzia. Mentre nei paesi in via di sviluppo la malattia predilige l’infanzia, nei paesi più sviluppati la fascia d’età più colpita è rappresentata dall’adolescenza e dai giovani adulti. Questo dato è stato messo in relazione all’incontro con il virus di Epstein-Barr (EBV) che può giocare un ruolo nella patogenesi del linfoma, come descritto in seguito. Si ipotizza che fattori di rischio per l’insorgenza del linfoma di Hodgkin siano rappresentati da eventi infettivi, con predilezione per l’infezione da EBV, e da fattori genetici predisponenti, come dimostrato da un tasso aumentato di aggregazione familiare e geografica. Meno rilievo, diversamente dai linfomi non Hodgkin, assumono i fattori di rischio occupazionali o ambientali.
Stati di immunodeficit, come l’infezione da HIV, possono predisporre all’insorgenza di questa tipologia di linfoma (Dolcetti R et al, 2001).
DEFINIZIONE E CLASSIFICAZIONE
Nella classificazione WHO del 2008 (3) il LH è compreso nel capitolo delle neoplasie linfoidi a cellule B e viene suddiviso in due gruppi:
- linfoma di Hodgkin a predominanza linfocitaria nodulare (NLPLH) che rappresenta circa il 5% di tutti i LH
- linfoma di Hodgkin classico (cLH) che comprende 4 sottotipi morfologici:
- LH sclero-nodulare 75-80%
- LH a cellularità mista 20-25%
- LH ricco in linfociti 5%
- LH a deplezione linfocitaria <1%
Il recente aggiornamento della classificazione WHO del 2016 ha mantenuto la medesima suddivisione senza modificazioni sostanziali (2016 update WHO Classification of Tumors of Haematopoietic and Lymphoid Tissues).
Il LH si caratterizza per la presenza delle cellule neoplastiche (cellula di Reed-Sternberg e cellula di Hodgkin per la variante classica, cellula LP – Lymphocyte Predominant – per la variante a predominanza linfocitaria) all’interno di un ampio microambiente polimorfo reattivo (composto da eosinofili, linfociti, plasmacellule, fibroblasti e fibre collagene), di cui le cellule neoplastiche rappresentano spesso solo una minima parte (circa 1%) (Swerdlow SH et al, 2008).
Lo straordinario miglioramento dei risultati terapeutici ottenuti con gli attuali trattamenti chemioterapici ha fatto perdere quasi completamente il significato prognostico della sottoclassificazione istologica del LH classico.
ASPETTI MORFO-ISTOLOGICI
Linfoma di Hodgkin a predominanza linfocitaria nodulare (NLPHL)
L’elemento neoplastico caratteristico (cellula LP), un tempo denominata cellula L&H (lymphocytic and/or histiocytic cell), è caratterizzata da grandi dimensioni con un nucleo prominente e abbondante citoplasma. Il nucleo è frequentemente multilobato, da cui la definizione di “cellula pop-corn”, con multipli e piccoli nucleoli.
Normalmente la struttura linfonodale è sovvertita da un infiltrato nodulare e/o diffuso (raramente solo diffuso) composto in prevalenza da piccoli linfociti e istiociti che compongono il microambiente reattivo, in cui sono presenti sparse e rare cellule LP (Figura IV). La struttura nodulare è sostenuta da un’ampia rete di cellule follicolari dendritiche mentre le cellule LP sono circondate a rosetta da linfociti T helper follicolari. A differenza del LH classico meno frequente è la presenza di altri elementi cellulari (neutrofili, eosinofili, plasmacellule) e rara è la fibrosi.
Figura IV: Linfoma di Hodgkin a predominanza linfocitaria nodulare (immagini fornite per gentile concessione da M. Chilosi); EE (Ematossilina Eosina): infiltrato neoplastico nodulare; CD20: marcata positività per il CD20 da parte delle cellule LP e dei linfociti B del microambiente tumorale; BCL6: positività delle cellule LP per BCL6; CD30: negatività delle cellule LP per CD30
Linfoma di Hodgkin classico (cHL)
La cellula di RS è un elemento di grandi dimensioni, normalmente binucleata o con nucleo bilobato e citoplasma abbondante. I nuclei sono rotondeggianti e presentano tipicamente un singolo nucleolo prominente ed eosinofilo (Figura V).
Figura V: Linfoma di Hodgkin classico (immagini fornite per gentile concessione da M. Chilosi); EE (Ematossilina Eosina); CD15: positività delle cellule RS per il CD15; Fascina: positività delle cellule RS per la fascina; CD3: linfociti T presenti nel microambiente tumorale e attorno alle cellule di RS
Esistono alcune varianti della cellula RS come la forma mononucleata, detta cellula di Hodgkin, la “cellula mummificata” con caratteristiche di condensazione citoplasmatica e nucleo picnotico, tipica del sottotipo a cellularità mista, e la variante lacunare tipica del linfoma di Hodgkin sclero-nodulare.
Le cellule RS sono normalmente disperse in un ricchissimo infiltrato reattivo polimorfo, composto in misura variabile da varie tipologie cellulari, di cui rappresentano solo una minima parte (da 0,1% a 10%).
Linfoma di Hodgkin classico variante sclero-nodulare
La caratteristica peculiare di questa variante è la presenza di un infiltrato disposto in aggregati nodulari, talvolta confluenti, circondati da ampi fasci di fibre collagene. Al microscopio le cellule RS, talora in aggregati, appaiono inserite in una nicchia o lacuna per un meccanismo di retrazione citoplasmatica dovuto al processo di fissazione e vengono perciò definite “cellule lacunari”. Quando gli aggregati di cellule RS sono prominenti si parla di “variante sinciziale” (Figura VI). Recentemente è stata descritta una peggior prognosi nei pazienti con tale variante (Sethi T et al, 2017).
Figura VI: Linfoma di Hodgkin classico, variante sinciziale (immagini fornite per gentile concessione da M. Chilosi). Si caratterizza per la presenza prominente di aggregati di cellule di RS. EE (Ematossilina Eosina)
Linfoma di Hodgkin a cellularità mista
Predominante è il ricco infiltrato reattivo di tipo misto composto da numerosi tipi cellulari (neutrofili, eosinofili, istiociti, linfociti, plasmacellule) presenti in misura variabile. Normalmente assenti sono le bande fibrotiche. Le cellule RS possono presentare dei fenomeni di apoptosi con picnosi del nucleo e citoplasma coartato (“cellula mummificata”). Tale sottotipo di LH insorge più frequentemente nei bambini e negli anziani.
Linfoma di Hodgkin ricco in linfociti
In questa forma l’infiltrato si dispone in noduli e solo molto raramente in maniera diffusa. I noduli sono principalmente composti da piccoli linfociti maturi con un aspetto che richiama il LH a predominanza linfocitaria nodulare, sebbene in questo caso siano presenti le classiche cellule di RS. Rara è la presenza di bande fibrotiche. Questo sottotipo morfologico entra in diagnosi differenziale con il LH a predominanza linfocitaria nodulare, dal quale si distingue per il profilo immunofenotipico. Coinvolge più frequentemente i linfonodi cervicali e l’anello del Waldayer e più raramente si presenta con masse mediastiniche o bulky.
Linfoma di Hodgkin a deplezione linfocitaria
Caratteristica tipica di questa rara forma è l’assenza pressochè completa degli elementi reattivi che compongono il tipico microambiente tumorale. Le cellule di RS possono essere circondate e isolate da un denso e diffuso reticolo fibroso (sottotipo fibroso) oppure possono esser presenti in gran numero e con aspetti atipici e pleomorfici (sottotipo sarcomatoso). Tale sottotipo di LH, attualmente molto raro, insorge più frequentemente nei pazienti HIV positivi.
IMMUNOFENOTIPO
Il LH classico e quello a predominanza linfocitaria nodulare presentano caratteristiche immunofenotipiche differenti (Tabella I), utili in chiave diagnostica soprattutto nella distinzione da altre forme linfomatose ed espressione del differente percorso patogenetico alla base di queste due entità.
Tabella I: Caratteristiche fenotipiche della cellula LP (tipica del NLPHL) e della cellula RS (cHD).
Le cellule LP sono usualmente CD45+ ed esprimono un’ampia serie di marcatori di linea B (CD19, CD20, CD22, CD79a). A differenza del LH classico sono negativi i marcatori CD15 e CD30 (Figura IV), mentre sono costitutivamente espressi i fattori di trascrizione OCT-2, BOB1, PU.1, AID e PAX-5, che rappresentano dei fattori trascrizionali fondamentali nella linfopoiesi B.
Le cellule dell’infiltrato reattivo sono per la maggior parte linfociti B maturi con la presenza di istiociti CD68+ e una rete di cellule follicolari dendritiche identificabili per la positività del CD21. Le cellule LP sono usualmente circondate a rosetta da linfociti T helper follicolari, positivi per CD4, CD57, MUM-1 e PD1.
La cellula di RS presenta invece un fenotipo peculiare caratterizzato dalla negatività di CD45 e intensa espressione di CD30 e CD15 (in circa il 70%) (Figure V e VI). Assenti o positivi in una percentuale minoritaria sono i marcatori di linea B e le catene delle immunoglobuline. Il CD20 è espresso, a bassa intensità, nel 30% dei casi. Non sono usualmente espressi PU.1, OCT-2 e il suo coattivatore BOB1, mentre debole, ma costante, è la positività per PAX-5. Spesso sono presenti marcatori d’infezione EBV come LMP1 ed EBER (30-40% dei casi).
ASPETTI BIOLOGICI E PATOGENETICI
La caratterizzazione biologica della cellula neoplastica alla base del linfoma di Hodgkin ha rappresentato per decenni un campo di vasta ricerca e solo negli anni ’90, grazie all’utilizzo di tecniche di biologia molecolare su singola cellula, si è riusciti in parte a far luce sui meccanismi patogenetici alla base di questo linfoma (Kuppers R, 2009; Jona A et al, 2013).
Origine della cellula LP
L’espressione di numerosi marcatori di linea B e l’architettura istologica che simula la struttura follicolare orientano per un’origine di queste cellule da elementi del centro germinativo. L’analisi in biologia molecolare dei geni delle regioni variabili delle immunoglobuline ha dimostrato che le cellule LP presentano mutazioni somatiche funzionali, segno di derivazione da una cellula B in cui è avvenuto l’incontro antigenico (Figura VII) (Braeuninger A et al, 1997; Kuppers R et al, 1994; Marafioti T et al, 1997). Studi di gene expression profiling (GEP) collocano la cellula LP nel processo differenziativo tra il centro germinativo e il pool delle cellule B di memoria (Brune V et al, 2008).
Origine della cellula di Reed-Sternberg e di Hodgkin
Più complessa è stata l’interpretazione dell’origine di questa cellula sia a causa della sua rarità nel contesto tumorale, sia per il suo peculiare pattern immunofenotipico che la differenzia da tutti gli altri elementi emopoietici.
Studi di biologia molecolare hanno però dimostrato come in quasi tutti i casi di LH classico siano presenti delle mutazioni somatiche a carico dei geni delle regioni variabili delle immunoglobuline e come in un quarto di essi tali mutazioni siano di tipo non funzionale (crippling mutations) (Kuppers R et al, 1994; Kanzler et al, 1996; Brauninger A et al, 2003). È stato quindi ipotizzato che l’elemento d’origine sia una cellula B del centro germinativo in fase pre-apoptotica diventata poi indipendente dai meccanismi di morte cellulare (Figura VII). Esiste però una piccola frazione di casi di LH classico che non presentano riarrangiamento dei geni delle immunoglobuline bensì del T-cell receptor (TCR), con associata espressione di marcatori di linea T. In questi particolari casi è stata ipotizzata una derivazione linfocitaria T (Müschen M et al, 2000). In realtà non è possibile escludere che possa trattarsi di presentazioni LH-like di linfomi anaplastici.
Figura VII: Ipotesi patogentica del NLPHL e del LH classico (Jona A et al, 2013).
Per quanto riguarda la peculiare morfologia della cellula multinucleata di RS, è stata recentemente avanzata l’ipotesi che essa derivi da fenomeni di re-fusione di cellule mononucleate di Hodgkin originate dalla stessa cellula progenitrice (Rengstl B et al, 2013).
Nel LH classico la perdita d’espressione dei tipici marcatori di linea B è stata imputata a deregolazione dei fattori trascrizionali normalmente attivi nella linfopoiesi B (più frequentemente attraverso silenziamento epigenetico e più raramente attraverso alterazioni genetiche) come OCT-2, il suo coattivatore BOB1, PU.1, EBF1, TCF3, PAX-5 e contemporaneamente all’attivazione aberrante di un ampio gruppo di fattori trascrizionali come Notch-1, STAT3, STAT5A/B, STAT6, GATA2 e PcG (Kuppers R, 2009; Jona A et al, 2013).
Tale riprogrammazione è legata sia alla presenza di lesioni genetiche sia all’attivazione preferenziale di alcune vie di segnale su base autocrina e paracrina (Kuppers R, 2009).
Raffinati studi di analisi citogenetica e molecolare hanno infatti dimostrato la presenza di alterazioni a carico di numerosi geni coinvolti sia nel processo di apoptosi (TP53, FAS, caspasi 8 e 10, FADD, BAD, ATM), sia in geni codificanti per elementi delle vie di segnale di JAK-STAT (JAK2, SOCS1) e NF-KB (REL, NFKBIA, NFKBIE, TNFAIP3, BCL3). Altre vie di segnale attivate descritte nel LH sono PI3K-AKT, ERK e AP1 (Kuppers R, 2009; Jona A et al, 2013).
Tutti questi dati suggeriscono come nel processo patogenetico del linfoma di Hodgkin siano presenti sia meccanismi che bloccano i fenomeni di apoptosi, sia meccanismi che portano a un’attivazione costitutiva dei processi di proliferazione.
Alla base di questo processo patogenetico si intrecciano numerose alterazioni genetiche con meccanismi di proliferazione autocrina e paracrina.
Ruolo dell’infezione da EBV e ruolo del microambiente
L’EBV è stato identificato in circa il 35-40% dei casi di LH classico nei paesi occidentali (Thomas R et al, 2004) e fino al 90% dei casi di LH pediatrici nei paesi in via di sviluppo (Kutok JL et al, 2006), soprattutto nelle forme a cellularità mista e a deplezione linfocitaria. Ciò sottolinea quindi lo stretto legame tra l’infezione e la possibile insorgenza di questo linfoma. È stato dimostrato infatti come proteine virali quali LMP1 e LMP2A possano fungere da oncogeni attivando vie di segnale normalmente legate al B-cell receptor (BCR) e allo stesso tempo possano proteggere e recuperare cellule B destinate a fenomeni di apoptosi (Kuppers R, 2009).
Il fatto che le cellule neoplastiche rappresentino solo una minima percentuale nel contesto tumorale sottolinea l’importanza del microambiente nello sviluppo e nella progressione del LH (Figura VIII). Le cellule di RS instaurano un complesso cross-talk con gli elementi non neoplastici sia attraverso interazioni cellula-cellula sia attraverso la produzione di mediatori solubili come citochine e chemochine. Tali interazioni portano sia all’amplificazione dei meccanismi di proliferazione e automantenimento della cellula neoplastica sia a fenomeni di mascheramento immunologico attraverso la modulazione della risposta immune, andando ad agire sui linfociti B (soprattutto nel NPLHL) e T (helper, citotossici e regolatori) presenti nel microambiente.
Figura VIII: Interazioni tra cellula RS e microambiente tumorale (Jona A et al, 2013).
STORIA NATURALE E PRESENTAZIONE CLINICA
Il LH si presenta più frequentemente con linfoadenomegalie superficiali associate o meno a sintomatologia sistemica.
La diagnosi, a cui si giunge normalmente attraverso biopsia linfonodale o, meno frequentemente, con biopsia di strutture extranodali interessate dal linfoma, può essere talora ritardata dall’assenza o aspecificità dei sintomi d’esordio. Tale non rara evenienza è stata anche oggetto di rappresentazione cinematografica (Nanni Moretti – Caro Diario – Medici – https://www.youtube.com/watch?v=JDSJpcqFMcM).
Controindicata e talora fuorviante ai fini diagnostici è la citologia da agoaspirato.
Le sedi linfonodali maggiormente interessate sono quelle laterocervicali e sovraclaveari (70-80%), meno frequentemente quelle ascellari (10%) e inguinali (10-20%) (Figura IX). I linfonodi sono normalmente di consistenza dura-parenchimatosa, non dolenti e inizialmente mobili rispetto ai piani profondi. In seguito tendono alla confluenza e all’adesione in profondità.
Figura IX: Interessamento linfonodale nel linfoma di Hodgkin.
L’interessamento mediastinico è molto frequente (45% dei pazienti con stadio I/II sovradiaframmatico) e spesso può presentarsi come voluminosa massa (bulky), ben evidenziabile con radiografia del torace. In tale evenienza possono essere associati sintomi da ingombro mediastinico come tosse secca e stizzosa, dispnea, disfagia, ostruzione bronchiale fino a quadri clinici rilevanti come la sindrome della vena cava superiore, la comparsa di versamento pleuro-pericardico e fenomeni di atelettasia polmonare.
Vi può esser anche interessamento d’organo con frequenza variabile: milza 10-15%, fegato 10%, polmone 6%, scheletro 5%, altre sedi 10%. Tali frequenze dovranno peraltro essere aggiornate alla luce dell’estensivo impiego delle più recenti tecniche di imaging (in particolare PET con FluoroDesossiGlucosio –18FDG-PET-) che frequentemente possono determinare un up-staging di malattia in circa il 20% dei casi identificando lesioni silenti spesso extranodali non identificate con le usuali metodiche radiologiche.
Il linfoma si sviluppa usualmente per contiguità linfatica coinvolgendo progressivamente le varie stazioni linfonodali e successivamente per contiguità assiale interessando il mediastino e le regioni sottodiaframmatiche. Il coinvolgimento d’organo può avvenire per contiguità o per diffusione ematogena (fegato e midollo osseo).
I sintomi caratteristici (definiti “sistemici”) del LH, presenti in circa il 25-30% dei pazienti, sono:
- febbre: usualmente serotina, può essere continua, remittente o ciclica (febbre di Pel-Ebstain)
- sudorazioni notturne: usualmente particolarmente abbondanti e non necessariamente correlate alla temperatura corporea
- perdita di peso: si considera significativa una perdita di peso di almeno il 10% nei 6 mesi precedenti all’esordio, in assenza di altre cause evidenti.
Altri sintomi possono essere:
- il prurito: sine-materia, diffuso e talora particolarmente intenso. Spesso i pazienti presentano lesioni diffuse da grattamento
- rara è la comparsa di dolore in sede di linfoadenomegalie dopo l’assunzione di alcolici.
Nella classificazione di Ann Arbor i primi tre sintomi definiscono lo stadio B, la loro assenza definisce invece lo stadio A.
In generale si ipotizza che tali sintomi siano legati alla liberazione da parte del tumore di sostanze attive a livello ipotalamico e di molecole vasoattive (istamina, prostaglandine…).
STADIAZIONE
Il processo di stadiazione è fondamentale per inquadrare correttamente la diffusione del linfoma e ha delle profonde implicazioni sia in chiave prognostica sia per la strategia terapeutica da adottare
Il sistema di stadiazione per il LH è stato proposto per la prima volta nel 1971 alla Conferenza di Ann Arbor ed è stato poi parzialmente modificato nel Meeting di Costwolds nel 1988 (Tabella II) (Lister TA et al, 1989). Tale sistema si basa sulla valutazione dell’interessamento linfonodale sovra- e sottodiaframmatico e sulla possibile estensione ad altri organi extranodali, valorizzando in questo modo la storia naturale e il comportamento biologico del LH. Importanza è stata inoltre data alla presenza o assenza dei sintomi sistemici B precedentemente descritti. Questo sistema di stadiazione è attualmente adottato anche per i linfomi non Hodgkin nodali.
Del tutto recentemente è stato proposto un aggiornamento delle raccomandazioni per la valutazione e stadiazione iniziale sia per il LH che per i linfomi non Hodgkin (Classificazione di Lugano), che incorpora le nuove tecniche di imaging ed in particolare la FDG-PET, ridefinendo e uniformando i criteri di stadiazione e risposta al trattamento da poter così applicare nella pratica clinica, nei trial clinici e nello studio dei nuovi farmaci (Tabelle III e IV) (Cheason BD et al, 2014).
Tabella II. Stadiazione del linfoma di Hodgkin.
Tabella III. Lugano Classification.
Tabella IV. Criteri di risposta della Lugano Classification.
Nel percorso di stadiazione vanno integrati elementi clinico-anamnestici e dati di tipo laboratoristico-strumentale:
- accurata anamnesi per valorizzare la presenza di sintomi sistemici ed eventuali comorbidità
- esame obiettivo completo per identificare le linfoadenomegalie, l’epatosplenomegalia ed eventuali sintomi/segni correlati alla presenza del linfoma e all’interessamento di organi extranodali
- esami di laboratorio routinari: comprendenti in particolare emocromo completo con formula, VES, PCR, fosfatasi alcalina, ionemia, esami di funzionalità renale ed epatica, LDH, sierologia per HBV, HCV, HIV e test di gravidanza per le donne in età fertile.
Le indagini bioumorali possono evidenziare un aumento degli indici di flogosi, una lieve/moderata anemia su base infiammatoria (rara da infiltrazione midollare) e una moderata neutrofilia ed eosinofilia; può esser presente anche linfopenia.
- indagini radiologiche:
– Rx torace ed ecografia (addome e/o ecografia mirata su strutture d’interesse)
– TC collo-torace-addome-pelvi
– 18FDG-PET - indagini cardiologiche: ECG ed ecocardiogramma per valutare la funzionalità cardiaca
- se vi sono problematiche polmonari note è utile una valutazione spirometrica
- biopsia osteomidollare (BOM): mentre un tempo tale indagine aveva particolare valore nei casi di malattia avanzata e nei casi sintomatici, l’avvento negli ultimi anni della 18FDG-PET, che possiede nel LH elevatissime percentuali di sensibilità e specificità anche nell’identificare l’interessamento midollare, ha di fatto eliminato la necessità di ricorrere alla biopsia midollare nella stadiazione del LH, come recentemente indicato anche nelle raccomandazioni della Classificazione di Lugano (Cheson BD et al, 2014).
Ruolo della PET nella definizione dello stadio
Il linfoma di Hodgkin presenta un’elevata avidità per il FDG (97-100% dei casi) e per tale motivo la 18FDG-PET si è rapidamente affiancata negli ultimi anni alle classiche metodiche radiologiche di stadiazione (Connors JM, 2011; Hutchings M, 2012). In particolare essa ha dimostrato una maggior sensibilità nell’identificare le lesioni extranodali, come ad esempio quelle ossee, con una bassa percentuale di falsi positivi (Connors JM, 2011). Tale risultati hanno portato recentemente all’abolizione della biopsia osteomidollare nei casi di LH se eseguita una FDG-PET all’esordio di malattia (Cheson BD et al, 2014). Grande attenzione inoltre è posta nei recenti studi al suo possibile ruolo prognostico nella valutazione durante e al termine del trattamento come descritto in seguito (Hutchings M, 2012; Biggi A et al, 2013; Gallamini A et al, 2014).
Da sottolineare inoltre come la classificazione di Lugano del 2014 ed il suo recente aggiornamento (Cheson BD et al, 2016) dedichino particolare attenzione all’impiego della 18FDG-PET e alla sua interpretazione nell’ambito del trattamento dei linfomi di Hodgkin e non Hodgkin, segno della maturità dei dati scientifici ottenuti con tale metodica.
Per tale motivo questa metodica rappresenta attualmente un’indagine fondamentale nel corretto percorso stadiativo del linfoma di Hodgkin.
FATTORI PROGNOSTICI
Nel corso degli anni numerosi sono stati i fattori prognostici proposti per stratificare i pazienti affetti da LH, sia di tipo clinico che di tipo laboratoristico e istopatologico, e il loro mutamento o superamento ha coinciso con l’aumentata efficacia e l’affinamento dei regimi chemioterapici (Zander T et al, 2002).
Tali fattori prognostici si correlano a vari aspetti della malattia linfomatosa e in tal modo possono esser classificati (Zander T et al, 2002):
- fattori prognostici correlati al carico tumorale:
- presenza di bulky mediastinico
- coinvolgimento splenico
- latticodeidrogenasi (LDH) elevata
- stima delle aree tumorali al microscopio
- livelli di CD30 solubile: elevati livelli (> 100 UI/ml) sono stati identificati come un fattore prognostico sfavorevole indipendente (Zanotti R et al, 2002)
- fattori prognostici correlati alla diffusione tumorale:
- interessamento midollare
- coinvolgimento pleurico
- interessamento extranodale
- fattori prognostici di tipo istopatologico:
- valutazione del Ki-67
- espressione di p53, Bcl-2, caspasi 3
- espressione di proteine virali come LMP-1
- istotipo a “deplezione linfocitaria” a cui è stata correlata una prognosi sfavorevole
- un elevato numero di macrofagi tumorali è stato identificato come un fattore prognostico negativo (Steidl C et al, 2010)
- anche la presenza di un elevato numero di linfociti T regolatori peggiora la prognosi (Alvaro T et al, 2005)
- fattori prognostici di tipo laboratoristico:
- VES, ferritina, B2-microglobulina, albumina, livelli di emoglobina, linfopenia, leucocitosi
- citochine e molecole solubili: VCAM-1, ICAM-1, IL-10, sCD25 (recettore di IL-2)
- fattori prognostici correlati al paziente:
- età e comorbidità
- presenza di sintomi sistemici.
Molti di questi parametri sono stati superati con l’introduzione dei nuovi regimi terapeutici mentre altri debbono ancora trovare una loro precisa collocazione e riproducibilità. Eppure rimane forte la necessità di trovare dei fattori prognostici robusti in grado di identificare con precisione la popolazione di pazienti a più alto rischio di fallimento con i trattamenti standard.
Un’accurata valutazione prognostica è fondamentale per identificare la strategia terapeutica più appropriata sulla base del rischio clinico.
Attualmente i principali determinanti prognostici sono rappresentati da:
- stadio clinico
- presenza di sintomi B
- presenza di malattia bulky.
Attraverso il sistema stadiativo di Ann Arbor è possibile suddividere i pazienti in:
- stadi iniziali: stadi I-II A o B senza malattia bulky
- stadi avanzati: stadi III-IV A o B; I-II B con malattia bulky
Un’ulteriore sottoclassificazione degli stadi iniziali in stadi iniziali favorevoli e sfavorevoli è stata definita tenendo in considerazione una serie di fattori di rischio proposti da vari gruppi cooperatori, tra cui quello tedesco (GHSG) ed europeo (EORTC) (Tabella V).
Tabella V: Fattori di rischio secondo EORTC e GHSG.
Per gli stadi avanzati è stato validato dal gruppo cooperatore tedesco l’International Prognostic Score (IPS) (Hasenclever D et al, 1998) che si basa sulla valutazione di 7 parametri sfavorevoli: sesso maschile, età ≥45 anni, albumina ≤ 4 g/dL, emoglobina ≤ 10,5 g/dL, linfociti < 600/mmc, leucociti ≥15.000/mmc, stadio clinico IV. La sopravvivenza libera da progressione (PFS) a 5 anni è del 74% per pazienti con 0-2 fattori di rischio e cala al 55% per quelli con 3 o più fattori (Hasenclever D et al, 1998).
L’integrazione di parametri prognostici di tipo clinico e biologico è stata oggetto di proposte di vari score prognostici nel corso degli anni (Alvaro T et al, 2005; Strauss DJ et al,1990). Tale approccio (peraltro di diffusa applicazione nella pratica clinica) potrebbe essere in grado di identificare con maggiore precisione pazienti a cattiva prognosi per i quali da subito pensare a strategie terapeutiche particolarmente aggressive.
In anni più recenti la valutazione precoce della risposta con metodica 18FDG-PET in corso di trattamento è stata indicata da vari studi come fattore prognostico più significativo rispetto a quelli in uso (Gallamini A et al, 2014; Hutchings M et al, 2006; Zinzani PL et al, 2006). Pazienti in stadio avanzato con PET negativa dopo 2 cicli ABVD hanno mostrato una PFS >90% mentre pazienti con PET positiva mostravano una PFS inferiore al 10%. Per tale motivo sono attualmente in corso studi clinici prospettici con strategie terapeutiche diversificate sulla base della risposta alla PET ad interim come descritto in seguito.
TRATTAMENTO
La storia del trattamento del LH ha visto il progressivo raggiungimento di elevate percentuali di guarigione (circa il 75-90% dei pazienti) grazie all’introduzione di efficaci regimi polichemioterapici integrati a tecniche radioterapiche sempre più raffinate e mirate (Figura X) (Canellos GP et al, 2014).
Figura X. Curve di sopravvivenza nel linfoma di Hodgkin in base al regime terapeutico.
Tappa fondamentale nello sviluppo chemioterapico è stata l’introduzione nel 1975 dello schema ABVD (adriamicina, bleomicina, vinblastina, dacarbazina), proposto da Bonadonna e collaboratori, che ha progressivamente soppianto, grazie al miglior profilo di tossicità, i precedenti regimi (MOPP, COPP) (Bonadonna G et al, 1975).
Dal punto di vista radioterapico invece è da sottolineare il passaggio da trattamenti radioterapici a campi estesi a metodiche più limitate e mirate (Zittoun R et al, 1985).
I dati di sopravvivenza a lungo termine hanno però messo in evidenza la possibile insorgenza a distanza di anni di patologie e problematiche legate ai precedenti trattamenti per il linfoma (Hodgson DC et al, 2007; Hancock SL et al, 1993; Eichenauer DA et al, 2014a). Esiste inoltre una percentuale non trascurabile di pazienti (10-30%) resistenti al trattamento di prima linea o con recidiva precoce.
Proprio attorno a queste due grandi tematiche si stanno concentrando gli studi dei vari gruppi cooperatori, sia allo scopo di limitare l’incidenza di effetti collaterali a lungo termine senza comunque ridurre l’efficacia terapeutica, considerato soprattutto che la popolazione più frequentemente colpita è quella giovanile, sia per identificare precocemente i pazienti con caratteristiche prognostiche più sfavorevoli o con caratteri di resistenza ai consueti trattamenti polichemioterapici.
In tale contesto negli anni ‘90 sono stati proposti alcuni nuovi schemi di terapia come il BEACOPP standard e intensificato (utilizzato soprattutto nei paesi dell’area tedesca) e lo Stanford V (Tabella VI), basati sull’intensificazione di dose (BEACOPP intensificato) e sull’aggiunta di etoposide, allo scopo di migliorare i risultati terapeutici soprattutto nelle forme avanzate o con caratteristiche prognostiche sfavorevoli (Diehl V et al, 1997; Engert A et al, 2009; Bartlett NL et al, 1995).
Tabella VI: Schemi polichemioterapici utilizzati nel trattamento del linfoma di Hodgkin.
Gli ultimi anni hanno invece visto l’avvento di nuovi approcci terapeutici basati sull’utilizzo di anticorpi monoclonali coniugati (brentuximab-vedotin) o su farmaci modulanti la risposta immunitaria come nivolumab e pembrolizumab con risultati di assoluto interesse. Se da un lato queste nuove strategie hanno dimostrato come l’approfondimento delle conoscenze biologiche del LH possa portare ad approcci terapeutici radicalmente nuovi, dall’altro ha aperto un nuovo ampio fronte di studi clinici volto a valutare l’applicazione di questi farmaci sia nei pazienti recidivati o refrattari, sia nel trattamento di prima linea.
TERAPIA DEGLI STADI INIZIALI
Numerosi studi randomizzati hanno dimostrato come l’associazione tra chemioterapia e radioterapia dia i risultati migliori in questa categoria di pazienti (OS, overall survival >95%) (Armitage JO, 2010). Soppiantata è stata invece la sola radioterapia per la minor efficacia in termini di controllo della malattia. Approcci diversificati sono stati proposti per gli stadi iniziali con caratteristiche prognostiche favorevoli e sfavorevoli.
Stadi iniziali favorevoli
Attualmente l’approccio terapeutico più condiviso per questi pazienti si basa su un breve trattamento chemioterapico con 2 cicli ABVD seguito da radioterapia involved-field (IF-RT). Elevate sono le percentuali di PFS e sopravvivenza globale (OS), rispettivamente 97% e 98% (Eich HT et al, 2008).
Allo scopo di ridurre effetti collaterali a lungo termine è stata inoltre studiata la possibilità di limitare l’intensità del trattamento radioterapico (nello studio tedesco HD10 ridotto da 30 Gy a 20 Gy) senza riduzione di efficacia terapeutica (Eich HT et al, 2008). Lo studio HD13 del gruppo cooperatore tedesco ha inoltre valutato la possibilità, negli stadi precoci favorevoli, di ridurre la chemioterapia omettendo la bleomicina o la dacarbazina, ottenendo però una significativa riduzione in termini di PFS rispetto al trattamento convenzionale (Behringer K et al, 2015).
Nell’ottica di poter ridurre i rischi di tossicità a lungo termine correlati alla radioterapia, lo studio EORTC/LYSA/FIL H10 ha esplorato la possibilità di omettere la radioterapia nei pazienti con LH in stadio I/II (favorevoli e sfavorevoli) con PET precoce negativa dopo 2 cicli di terapia (PET2). Tuttavia si è registrato un maggior tasso di relapse nei pazienti PET2 negativi che non venivano sottoposti a radioterapia, in particolare negli stadi iniziali favorevoli (Raemaekers JM et al, 2014).
Più recentemente lo studio RAPID del gruppo cooperatore inglese ha invece indagato la possibilità di omettere la radioterapia nei pazienti con LH in stadio iniziale IA o IIA non-bulky e PET negativa (Dueville score I e II) al termine di tre cicli ABVD. In tali pazienti il braccio senza RT ha mostrato una riduzione di circa il 7% della PFS a 3 anni rispetto al braccio con RT (90,7% vs 97%), senza modifiche però nell’OS (Radford J et al, 2015).
Per quanto riguarda l’ambito della radioterapia, elemento finora portante nell’approccio degli stadi iniziali, sono in corso studi incentrati sull’utilizzo di metodiche radioterapiche sempre più selettive come la involved-nodal radiotherapy (IN-RT) o la involved-site radiotherapy (IS-RT) (Andre MP et al, 2012; Radford J et al, 2012; Trail HD 16; Hoskin PJ et al, 2013).
Stadi iniziali sfavorevoli
Lo standard of care è rappresentato dal trattamento chemioterapico con 4 cicli ABVD seguito da radioterapia IF a 30 Gy (Fermé C et al, 2007).
Studi condotti dal gruppo tedesco (studi HD11 e HD14) hanno esplorato la possibilità di introdurre regimi più intensivi come il BEACOPP standard e BEACOPP intensificato sempre in associazione alla radioterapia (Eich HT et al, 2010; von Tresckow B et al, 2013). Il trattamento con 4 cicli BEACOPP standard e RT non ha mostrato vantaggi rispetto al trattamento convenzionale (Eich HT et al, 2010) mentre la strategia con 2 cicli ABVD seguiti da 2 cicli BEACOPP intensificato e radioterapia ha mostrato risultati migliori in termini di PFS (freedom from treatment failure, FFTF) con però una maggior incidenza di tossicità acute e senza modificazioni dell’OS (von Tresckow B et al, 2013). Non sono ancora disponibili i dati della tossicità a lungo termine di questo regime.
L’utilità della PET precoce dopo 2 cicli ABVD negli stadi iniziali sfavorevoli è stata studiata nell’ambito del protocollo H10 dei gruppi EORTC/LYSA/FIL. In particolare, nei pazienti PET2 positivi l’intensificazione di trattamento con 2 cicli BEACOPPesc+INRT ha mostrato un significativo miglioramento in termini di PFS a 5 anni rispetto al trattamento convenzionale con 4 cicli ABVD+NRT (PFS 90,6% vs 77,4%, p= 0,002).
Nel trattamento di prima linea degli stadi precoci sono in corso studi per valutare l’efficacia del brentuximab-vedotin in monoterapia o in combinazione con chemioterapici al fine di poter omettere/ridurre la radioterapia o modificare la chemioterapia convenzionale (Kumar A et al, 2016; Kumar A et al, 2017).
TERAPIA DEGLI STADI AVANZATI
Lo schema ABVD e il BEACOPP intensificato rappresentano gli schemi terapeutici più diffusi nelle forme avanzate di linfoma di Hodgkin (Towsend W e Linch D, 2012).
Vari studi hanno dimostrato come il trattamento con 6-8 cicli ABVD in associazione o meno a radioterapia porti a delle percentuali di sopravvivenza libera da fallimento (FFS)/PFS del 73-78% con sopravvivenza globale del 82-90% (Federico M et al, 2009). Il ciclo ABVD si è dimostrato meno tossico e altrettanto efficace rispetto ad altri regimi polichemioterapici come MOPP, MOPP-ABV, ChlVPP/PABLOE e Stanford V (Canellos GP et al, 1992; Duggan DB et al, 2003; Jhonson PW et al, 2005; Hoskin PJ et al, 2009).
Lo schema BEACOPP intensificato è stato invece proposto e validato dal gruppo cooperatore tedesco (studio HD9). Il BEACOPP intensificato (6 cicli), confrontato con COPP/ABVD e BEACOPP standard ha mostrato migliori percentuali di risposta sia in termini di FFS/PFS (89%) che di OS (86% a 10 anni) pur essendo gravato da una maggior tossicità in termini di complicanze infettive, necessità di supporto trasfusionale, infertilità e sviluppo di sindromi mielodisplastiche e leucemia acute mieloidi secondarie (Eichenauer DA et al, 2014a; Engert A et al, 2009). Lo studio tedesco HD12 ha perciò valutato la possibilità di ridurre la tossicità confrontando lo schema con 8 cicli di BEACOPP con uno schema basato su 4 cicli BEACOPP intensificato seguiti da 4 cicli BEACOPP standard senza però migliorare il profilo di tossicità ma anzi riducendo l’efficacia del trattamento (Borchmann P et al, 2011).
Infine lo studio tedesco HD15 ha confrontato 6 cicli BEACOPP intensificato vs 8 cicli BEACOPP intensificato vs 8 cicli BEACOPP14 con successiva radioterapia su residuo tumorale sulla base della PET. Lo schema con 6 cicli BEACOPP intensificati si è dimostrato migliore in termini di profilo di tossicità mantenendo la stessa efficacia in termini di PFS e OS dello schema con 8 cicli BEACOPP intensificati (Engert A et al, 2012).
Due studi italiani (studio dell’Intergruppo Italiano Linfomi -IIL- e studio HD2000) e altri due studi internazionali (studio EORTC 20012 e studio H34 del LYSA) hanno confrontato questi 2 regimi chemioterapici confermando la superiorità del BEACOPP rispetto all’ABVD in termini di risposta al trattamento senza però un reale vantaggio in termini di sopravvivenza globale (Carde P et al, 2016; Mounier N et al, 2014).
Questo è dovuto al recupero dei pazienti in cui è fallito il trattamento con ABVD con una terapia di seconda linea ad alte dosi con supporto del trapianto autologo di cellule staminali. A livello internazionale rimane tuttora aperto il dibattito sul migliore approccio terapeutico da adottare.
Al fine di armonizzare i notevoli risultati offerti dai trattamenti più intensivi con il rapporto rischio/beneficio soprattutto a lungo termine, nuovi dati potrebbero giungere da diversi studi in corso in cui il percorso chemioterapico è modulato sulla base della riposta precoce alla PET ad interim (PET2), riservando i trattamenti più intensivi ai pazienti con scarsa o non adeguata riposta alla valutazione precoce (Gallamini, 2012; Trial HD 18). L’utilizzo della radioterapia negli stadi avanzati rimane ancora materia di discussione, alla luce di dati contrastanti degli studi disponibili (Hoskin PJ et al, 2013)
In tale prospettiva di assoluto rilievo sono i dati presentati al Congresso del 2017 della Società Europea di Ematologia (EHA) da Andrea Gallamini riguardanti i risultati a lungo termine dello studio italiano HD0607, basato su una strategia di intensificazione con schema 4 cicli BEACOPP standard + 4 cicli BEACOPP intensificato (+/-rituximab) nei pazienti con PET positiva dopo 2 cicli ABVD (https://learningcenter.ehaweb.org/eha/2017/22nd/181700/andrea.gallamini.early.chemotherapy.intensification.with.escalated.beacopp.in.html). La radioterapia al termine del trattamento veniva decisa sulla base dell’esito della PET finale. Questo approccio ha portato ad un netto miglioramento delle curve di PFS e OS dei pazienti (Figura XI) rispetto ai dati storici dello stesso Gallamini del 2007 (Gallamini A et al, 2017), dove era emerso in maniera netta la scarsa prognosi dei pazienti PET2 positivi trattati con un regime convenzionale basato su 6 cicli ABVD. Inoltre questo studio ha evidenziato come la radioterapia possa esser omessa nei pazienti con bulky iniziale ma PET finale negativa e come l’aggiunta del rituximab non si traduca in un miglioramento dell’efficacia terapeutica.
Figura XI: PFS e OS sulla base della PET2 -/+
Basato su un’analoga strategia di intensificazione dello schema ABVD nei pazienti PET2 positivi è lo studio inglese RATHL, i cui dati dopo un follow-up mediano di 41 mesi sono stati pubblicati nel 2016 (Johnson P et al, 2016).
In questo studio, dopo due cicli ABVD, i pazienti con PET2 negativa venivano randomizzati a concludere il programma terapeutico con 4 cicli ABVD o con 4 cicli AVD, con l’omissione quindi della bleomicina. I pazienti con PET2 positiva venivano invece randomizzati a ricevere una terapia basata su cicli BEACOPP intensificato o BEACOPP-14.
Lo studio ha evidenziato come nel gruppo di pazienti PET2 negativa l’omissione della bleomicina dal terzo ciclo non abbia comportato una riduzione significativa in termini di efficacia migliorando invece il profilo di tossicità polmonare, tipicamente correlata alla bleomicina. Nel gruppo di pazienti con PET2 positiva l’intensificazione di trattamento ha portato a dati di PFS a 3 anni del 67,5% (come confronto 69% nello studio HD0607).
Entrambi questi studi (studio HD0607 e RATHLE) evidenziano come, se da un lato una strategia di intensificazione nei pazienti PET2 positiva possa nettamente migliorare i risultati rispetto ai dati storici, non venga comunque annullato completamente il fattore prognostico negativo dato dalla PET2 nei pazienti trattati con ABVD, confermando quindi la necessità di ulteriori studi dedicati ai pazienti con elevato rischio di recidiva o primariamente refrattari al trattamento chemioterapico.
Anche da parte del gruppo cooperatore tedesco è stato valutato un approccio PET2-guidato nei pazienti con LH avanzato trattati con schema BEACOPP intensificato (studio HD18) (Borchmann P et al, 2018). I pazienti con PET2 positiva venivano randomizzati a ricevere ulteriori 4 cicli BEACOPP intensificato +/- rituximab, mentre i pazienti PET negativi venivano randomizzati a ricevere ulteriori 4 cicli (braccio standard) o 2 cicli (braccio sperimentale) di BEACOPP intensificato.
Nei pazienti con PET2 positiva l’aggiunta del rituximab non ha modificato l’outcome dei pazienti, mentre nei pazienti PET2 negativi la riduzione del numero di cicli si è tradotta in una minor tossicità legata al trattamento senza una perdita sostanziale di efficacia in termini di PFS e OS.
Da sottolineare nuovamente comunque come rimanga tuttora aperta la problematica del trattamento dei pazienti con PET2 precoce positiva.
Nell’ambito degli stadi avanzati sono attualmente in corso studi volti a valutare l’introduzione dei nuovi farmaci ed in particolari del brentuximab-vedotin nella terapia di prima linea.
Al Meeting ASH 2017 sono stati presentati in sessione plenaria i dati dello studio randomizzato di fase 3 Echelon-1 (1334 pazienti), che prevede nei pazienti con LH in stadio avanzato all’esordio la randomizzazione tra il trattamento con 6 cicli ABVD e il braccio sperimentale con brentuximab-vedotin in associazione ad AVD. I pazienti con PET2 positiva potevano uscire dallo studio ed esser trattati in maniera alternativa.
La PFS a 2 anni nel braccio sperimentale è stata del 82,1% vs 77,2% della terapia convenzionale con una riduzione del 23% del rischio di progressione, morte o necessità di un ulteriore trattamento chemioterapico. Da segnalare un maggior numero di eventi infettivi e di neurotossicità nel braccio sperimentale senza però un incremento del numero di discontinuazione del trattamento (Connors JM et al, 2018).
Su Lancet Oncol 2017 (Eichenauer DA et al, 2017) sono stati invece pubblicati i risultati di uno studio di fase 2 del gruppo tedesco in cui 104 pazienti con LH avanzato sono stati randomizzati a ricevere un trattamento con 6 cicli secondo schema BrECAPP (brentuximab-vedotin, etoposide, ciclofosfamide, doxorubicina, procarbazina, prednisone) o 6 cicli secondo schema BrECADD (brentuximab-vedotin, etoposide, ciclofosfamide, doxorubicina, dacarbazina, desametasone).
Dopo un follow-up mediano di 17 mesi, i tassi di remissione completa al termine della terapia sono stati del 86% per il braccio BrECAPP e del 88% per il braccio BrECADD. Le principali problematiche di tossicità sono state di natura ematologica e di neurotossicità, quest’ultima nel 2% dei casi di grado severo.
L’utilizzo della radioterapia negli stadi avanzati rimane ancora materia di discussione, alla luce di dati contrastanti degli studi disponibili (Follows GA et al, 2014). Attualmente è consigliata la radioterapia nelle sedi di precedenti masse bulky o in presenza di residuo di malattia >1,5 cm. Anche in questo campo l’utilizzo della PET nella valutazione post-terapia potrebbe aiutare a identificare i casi in cui poter omettere il trattamento radioterapico, come già emerso dagli studi più recenti precedentemente descritti.
TRATTAMENTO NEI PAZIENTI ANZIANI
Sebbene il linfoma di Hodgkin colpisca in prevalenza la fascia giovanile, circa il 15-35% dei pazienti affetti hanno un’età superiore ai 60 anni, con una scarsa rappresentazione di tale categoria all’interno dei vari trial clinici (Jagadeesh D et al, 2013).
Il LH dell’anziano sembra presentare differenti caratteristiche biologiche e cliniche rispetto a quello ad insorgenza giovanile, con maggior rappresentazione dell’istotipo a cellularità mista, maggior frequenza di stadi avanzati con sintomi sistemi B e presentazione sottodiaframmatica (Jagadeesh D et al, 2013).
I risultati terapeutici sono inoltre nettamente inferiori a quelli ottenuti nei pazienti giovani e ciò può esser legato a vari fattori, come la mancata tolleranza ai consueti regimi chemioterapici a dosaggi standard (sia in termini di aumentata tossicità e mortalità), presenza concomitante di plurime comorbidità e in generale per una condizione di fragilità complessiva che impone un approccio terapeutico dedicato in questa particolare categoria di pazienti (Figura XII).
Figura XII: Curve di FFS (a sinistra) e OS (a destra) nella popolazione giovane (<60 anni) e anziana (≥60 anni) trattata per linfoma di Hodgkin (Jagadeesh D et al, 2013).
I dati emersi dai vari studi clinici hanno evidenziato come non solo lo schema BEACOPP standard/intensificato ma anche lo schema ABVD, standard of care nei pazienti giovani, non siano facilmente applicabili in pazienti di età superiore ai 65-70 anni, per tassi di tossicità correlata al trattamento troppo elevati (Evens AM et al, 2013; Ballova V et al, 2005).
Si è quindi tentato di applicare regimi terapeutici alternativi caratterizzati dalla riduzione di dose o eliminazione di farmaci particolarmente tossici nella popolazione anziana come la bleomicina.
I principali schemi di terapia proposti nei pazienti anziani sono:
- VEPEMB (vinblastina, ciclofosfamide, procarbazina, prednisone, etoposide, mitoxantrone, bleomicina) (Levis A et al, 2004b)
- BACOPP: schema BEACOPP standard privato dell’etoposide (Halbsgut TV et al, 2010)
- PVAG (prednisone, vinblastina, doxorubicina, gemcitabina) (Boll B et al, 2011)
- CVP/CEB(chlorambucil-vinblastina-procarbazina-prednisone/ciclofosfamide-etoposide-bleomicina) (Levis A et al, 1996)
- CHOP-21 (Kostad A et al, 2007)
Da segnalare come un recente studio della Fondazione Italiana Linfomi (FIL) (Zallio F et al, 2016) abbia evidenziato come grazie ad una attenta selezione dei pazienti attraverso scale di fitness geriatrica, i pazienti non frail possano esser trattati con il regime ABVD senza un incremento sostanziale della tossicità.
Nuove interessanti prospettive in questo contesto terapeutico, che dovranno esser validate nell’ambito di trial clinici prospettici, sono date dall’introduzione di farmaci di nuova generazione come il brentuximab-vedotin.
Un recente studio con brentuximab-vedotin in prima linea di terapia in 27 pazienti anziani (età mediana: 78 anni) ha mostrato degli elevati tassi di risposta (ORR: 92%, con 73% di CR), con PFS mediana di 10,5 mesi (Forero-Torres A et al, 2015).
Attualmente in corso di studio è l’associazione del brentuximab-vedotin con farmaci chemioterapici classici (dacarbazina, bendamustina, schema AVD) al fine di migliorare l’outcome terapeutico in questo difficile gruppo di pazienti.
Un ulteriore miglioramento del trattamento in questa categoria di pazienti potrà infine venire dall’applicazione nella pratica clinica di scale di valutazione geriatrica al fine di poter stratificare al meglio i soggetti e modulare quindi il trattamento sulla base della fragilità misurata. In ambito italiano la FIL, dopo gli studi di assoluto rilievo nel trattamento del linfomi non Hodgkin dell’anziano, si sta impegnando per poter applicare lo stesso approccio metodologico e terapeutico anche nel paziente anziano con linfoma di Hodgkin.
RISTADIAZIONE e FOLLOW-UP
Le indagini di ristadiazione sono indispensabili per la valutazione finale della risposta al trattamento. È necessario quindi ripetere tutte le indagini cliniche, laboratoristiche e strumentali risultate positive o alterate alla diagnosi.
Dal punto di vista radiologico la TC collo-torace-addome-pelvi rappresenta il cardine delle indagini strumentali. In anni recenti a questa metodica si è affiancata la 18FDG-PET, molto utile soprattutto per discriminare, in presenza di masse residue come può frequentemente avvenire in sede di pregresso bulky di malattia, tra la persistenza del linfoma o la natura fibrotica del residuo. Per limitare al minimo la possibilità di falsi positivi alla PET essa deve essere eseguita almeno tre settimane dopo l’ultima seduta di chemioterapia o dopo 8-12 settimane dalla fine del trattamento radioterapico.
In caso di sospetta persistenza del linfoma o di una sua recidiva è importante eseguire un riscontro bioptico per confermare il sospetto diagnostico e circostanziare adeguatamente l’istologia. È infatti possibile la trasformazione in linfomi non Hodgkin aggressivi o il riscontro di quadri istologici misti.
Durante il follow-up sono consigliate visite di controllo ogni 3-4 mesi per i primi due anni, ogni 6 mesi fino al quinto anno e successivamente controlli annuali.
È inoltre emerso come l’esecuzione routinaria di indagini radiologiche durante il periodo di follow-up non anticipi l’identificazione di una possibile recidiva della malattia rispetto ai normali controlli clinici e obiettivi.
La 18FDG-PET è attualmente sconsigliata in corso follow-up per l’elevata incidenza di falsi positivi e va riservata ai casi di sospetta ripresa della malattia.
TRATTAMENTO DEI PAZIENTI RICADUTI E REFRATTARI
Nei soggetti giovani (età < 65 anni) la chemioterapia ad alte dosi supportata da trapianto autologo di cellule staminali (HDC/ASCT) è la strategia terapeutica maggiormente adottata nei pazienti con malattia recidivata o refrattaria al trattamento chemioterapico di prima linea, che rappresentano una percentuale attorno al 20% (Gobbi PG et al, 2013; Vassilakopoulos T e Angelopoulou MK, 2013). Per refrattarietà si intende la mancata risposta alla terapia di prima linea mentre per recidiva si intende la ricomparsa del linfoma, evento che avviene nella maggior parte dei casi precocemente (entro 1 anno dalla diagnosi). Circa il 50-60% dei pazienti è recuperato con tale percorso sebbene i risultati siano molto influenzati da numerose variabili e in particolare dalla chemiosensibilità del tumore e dalla capacità di ottenere una remissione completa con la terapia pre-trapianto.
I soggetti anziani sono esclusi da questi trattamenti intensi e anche il 15-30% dei pazienti avviati ad un percorso ad alte dosi non raggiunge il trapianto per tossicità del trattamento, fallimento della raccolta delle cellule staminali o persistenza-progressione della malattia (Gobbi PG et al, 2013).
Attualmente non esistono studi randomizzati di confronto tra i vari regimi chemioterapici di seconda linea, anche se gli schemi IGEV, DHAP, ICE hanno mostrato attività nei confronti del linfoma con inoltre buona capacità di mobilizzazione delle cellule staminali (Kuruvilla J et al, 2011). I pazienti con recidiva di malattia entro un anno dal trapianto autologo presentano una mediana di sopravvivenza molto limitata, di circa un anno.
Più recentemente uno studio italiano di fase II su 59 pazienti recidivati/refrattari ha evidenziato come una schema di polichemioterapia basato sull’associazione tra bendamustina, gemcitabina e vinorelbina è particolarmente efficace nell’ottenere una risposta completa (nel 73% dei casi) in questo difficile gruppo di pazienti (Santoro A et al, 2016).
Un percorso terapeutico comprendente chemioterapia ad alte dosi seguita da trapianto allogenico può rappresentare un’opzione per i pazienti con malattia refrattaria o con recidiva precoce dopo trapianto autologo. I progressi fatti negli ultimi anni in ambito trapiantologico, attraverso l’introduzione di regimi non mieloablativi ad intensità ridotta e la miglior gestione delle complicanze trapiantologiche, ha permesso di ridurre significativamente la mortalità legata al trapianto (TRM) rendendo il trapianto allogenico da donatore familiare o da registro un’opzione realistica per pazienti con malattia non controllabile con le strategie convenzionali (Sureda A et al, 2008). La dimostrazione inoltre di un effetto GVL sia del trapianto, sia dei linfociti del donatore (DLI) che possono essere infusi successivamente al trapianto in caso di recidiva, rendono attrattiva questa possibilità in un setting di pazienti altamente selezionati (Anderlini P et al, 2004).
Più recentemente, dati molto interessanti sia in termini di risposta che di tollerabilità del trattamento sono emersi dall’utilizzo del trapianto aploidentico in pazienti con malattia refrattaria o recidivata dopo varie linee di terapia, aprendo quindi nuovi scenari nell’applicazione delle strategie trapiantologiche alla terapia del linfoma di Hodgkin (Figura XIII) (Burroughs LM et al, 2008).
Figura XIII. Percentuali di relapse, NRM, OS e PFS in base alla tipologia di donatore in paziente con linfoma di Hodgkin ricaduto/refrattario (Burroughs LM et al, 2008).
Nonostante i miglioramenti delle tecniche trapiantologiche, la strategia terapeutica con chemioterapia ad alte dosi e successivo trapianto di cellule staminali autologo o allogenico presenta ancora numerosi punti di criticità:
- esclusione di pazienti anziani o non fit da tali percorsi terapeutici
- problema della chemiosensibilità ai trattamenti e della persistenza di malattia pre-trapianto che rappresentano due fondamentali fattori prognostici sfavorevoli
- tossicità e mortalità legate alle procedure trapiantologiche.
L’introduzione di farmaci di nuova generazione, descritti in seguito, potrebbe portare a un superamento di tali problematiche ampliando le possibilità terapeutiche, sia in monoterapia che in associazione ai consueti regimi chemioterapici, in questi pazienti con prognosi particolarmente sfavorevole.
NUOVI FARMACI
Negli ultimi anni vari nuovi farmaci sono stati valutati nel trattamento del linfoma di Hodgkin e in particolare in pazienti già sottoposti a varie linee di terapia e con malattia persistente o ricaduta (Batlevi CL e Younes A, 2013; Khan N e Moskowitz AJ, 2017). In questo ambito grande attenzione è stata rivolta ai risultati preliminari ottenuti con l’utilizzo di anticorpi monoclonali diretti contro antigeni espressi dalla cellula tumorale (Eichenauer DA e Engert A, 2014b) e più recentemente agli inibitori dei checkpoint immunitari dell’asse PD-1/PD-1L (vedi approfondimento).
Anti-CD30 (vedi approfondimento)
Dopo vari tentativi con numerose tipologie di anticorpi anti-CD30 (coniugati o meno con immunotossine) con risultati terapeutici modesti, di particolare rilievo sono state invece le evidenze cliniche ottenute con un nuovo anticorpo anti-CD30 coniugato con un veleno del fuso mitotico (SGN-35 o brentuximab vedotin) (Garnock-Jones KP, 2013).
Il brentuximab vedotin è composto da un anticorpo umanizzato IgG1 anti-CD30, coniugato a quattro molecole di un agente antitubulina, la monometil auristatina E (MMAE). Da un punto di vista farmacodinamico, l’anticorpo si lega al CD30, viene internalizzato e nel processo di degradazione lisosomiale libera la MMAE che agisce sul fuso mitotico con induzione dei meccanismi di apoptosi (Figura XIV).
Figura XIV. Meccanismo d’azione del brentuximab-vedotin (Garnock-Jones KP, 2013).
Uno studio di fase 2 condotto su 102 pazienti con linfoma di Hodgkin recidivi o refrattati dopo trattamento con ASCT ha mostrato un tasso di risposta globale del 75% con una percentuale di remissioni complete del 35%. Il farmaco è stato somministrato al dosaggio di 1,8 mg/Kg ogni 3 settimane fino ad un massimo di 16 cicli. La PFS mediana dopo circa 18,5 mesi di follow-up è stata di circa 5,6 mesi, che però aumenta notevolmente (20,5 mesi) se si considerano i pazienti in remissione completa (Younes A et al, 2012). Tali dati sono stati confermati anche in altri studi di fase 2 (Rothe A et al, 2012; Gibb A et al, 2013). Nel 2016 sono stati pubblicati i dati aggiornati del follow-up di questo studio a 5 anni i quali hanno evidenziato come i pazienti che avessero ottenuto una CR di malattia abbiano una PFS del 52% con una OS del 64% (Chen R et al, 2016). Inoltre il 9% dei pazienti mantenevano la remissione di malattia in assenza di ulteriori linee di terapia dopo aver terminato il brentuximab-vedotin (Chen R et al, 2016).
Dal punto di vista della tollerabilità, le principali problematiche sono state la comparsa di neuropatia periferica sensitiva, astenia e neutropenia, generalmente di grado moderato e non causa di sospensione del trattamento.
Il farmaco è attualmente registrato in Italia a carico del SSN ai sensi della legge 648/96 con le seguenti limitazioni prescrittive:
- trattamento di pazienti adulti affetti da linfoma di Hodgkin CD30+ recidivato o refrattario:trattamento di pazienti adulti affetti da linfoma anaplastico a grandi cellule sistemico recidivante o refrattario.
- in seguito a trapianto autologo di cellule staminali
- o in seguito ad almeno due precedenti regimi terapeutici quando l’ASCT o la polichemioterapia non è un’opzione terapeutica
- trattamento di pazienti adulti affetti da linfoma anaplastico a grandi cellule sistemico recidivante o refrattario.
I risultati di assoluto rilievo ottenuto con questo farmaco in questo particolare e difficile tipologia di pazienti hanno portato all’apertura di numerosi studi volti a valutarne l’efficacia in monoterapia o in combinazione con polichemioterapia sia in fase pre-trapiantologica sia come terapia di mantenimento post-trapianto (Khan N e Moskowitz AJ, 2017).
In fase pre-trapiantologica brentuximab-vedotin è stato valutato:
- come singolo farmaco:
- studio di fase II del MSKCC (Moskowitz AJ et al, 2015a): BV somministrato al dosaggio di 1,2 mg/Kg settimanale per 3 settimane ogni 28 giorni. I pazienti con PET negativa dopo 2 o 3 cicli di terapia venivano avviati direttamento ad autotrapianto mentre i pazienti con PET ancora positiva venivano sottoposto a terapia con ICE pre trapianto. Su 65 pazienti partecipanti allo studio, il 18% otteneva la PET negatività con solo BV mentre 46 pazienti ricevevano anche chemioterapia secondo schema ICE. Di tali pazienti il 70% otteneva la PET negatività pre-trapianto.
- In un secondo studio condotto da Chen e colleghi (Chen R et al, 2015), il BV è stato somministrato a dose standard di 1,8 mg/Kg ogni 3 settimane per 4 cicli. Su 37 pazienti arruolati, il tasso di risposta complessivo è stato del 68% con 13 casi di remissione completa. I pazienti con risposta parziale venivano sottoposti poi a successiva polichemioterapia (decisa dallo sperimentatore) prima di procedere al trapianto autologo. Complessivamente, il 73% dei pazienti riusciva a ottenere la remissione completa pre-autologo.
- In combinazione a polichemioterapia:
BV è stato testato in associazione a vari regimi chemioterapici convenzionali (vedi figura) e sebbene i risultati siano ancora preliminari essi mostrano dei ragguardevoli tassi di risposti anche se con tossicità ematologica maggiore. I dati che si otterranno dal follow-up permetteranno di comprendere la miglior strategia di combinazione da applicare in fase pre-trapiantologica.
Tabella VII: Tabella riassuntiva degli studi con Brentuximab-vedotin in fase pre trapianto autologo (Khan N e Moskowitz AJ, 2017).
L’elevato rischio di ricaduta nei pazienti che siano stati sottoposti a strategia autotrapiantologica ha portato a valutare la possibilità di utilizzare BV come terapia di mantenimento post-trapianto al fine di ridurre tale rischio.
A tale scopo è stato condotto lo studio di fase III AETHERA che ha randomizzato 329 pazienti ad alto rischio (malattia extranodale o recidiva entro 1 anno dalla prima linea o pazienti primariamente refrattari) sottoposti a trapianto autologo a ricevere fino a 16 cicli di BV o placebo nel post trapianto (Moskowitz AJ et al, 2015b). La PFS mediana del gruppo con BV è stata di 42 mesi contro 24.1 del braccio placebo.
Sulla base di tali dati verrà prossimamente estesa l’indicazione del BV anche al mantenimento post-trapianto autologo.
Inibitori dei checkpoint immunitari dell’asse PD1-PD1L (vedi approfondimento
).
É noto che uno dei molteplici meccanismi posti in essere dalle cellule tumorali per facilitare e mantenere la proprio proliferazione è l’evasione e la modulazione nei confronti della risposta immune (Vinay DS et al, 2015). Numerose neoplasie condividono tali strategie seppur in contesti differenti.
Il LH instaura numerosi rapporti con le cellule del sistema immunitario presenti nel suo ricco microambiente limitandone l’azione. L’iperespressione di PD-L1/2 da parte della cellula di RS è uno dei meccanismi attraverso cui la cellula neoplastica interagisce con le cellule del sistema immune modulandone l’attività (vedi approfondimento
).
Nel corso del 2015 e 2016 sono stati pubblicati i risultati di alcuni studi con due differenti anticorpi monoclonali anti PD-1 (Nivolumab e Pembrolizumab) nel setting del LH recidivato/refrattario (Ansell SM et al, 2015; Armand P et al, 2016).
Nivolumab è un anticorpo monoclonale di classe IgG4 umanizzato che si lega a PD-1 impendendone il legame con PD-L1/2 mentre Pembrolizumab è un anticorpo monoclonale umanizzato di classe IgG4/kappa in grado anche’esso di legarsi a PD-1.
Studi con Nivolumab
Nello studio di fase I di Ansell e colleghi (Checkmate 039), pubblicato a gennaio 2015 (Ansell SM et al, 2015) sono stati trattati 23 pazienti con LH recidivato e refrattario. Tutti i soggetti erano già stati sottoposti ad almeno due linee di terapia ed in particolare il 78% era recidivato dopo trapianto autologo ed il 78% dopo terapia con BV.
La dose di farmaco identificata nella fase di dose-escalation è stata di 3 mg/Kg di peso corporeo somministrato per via endovenosa alla prima e alla quarta settimana e successivamente ogni due settimane fino a progressione o tossicità.
Lo studio ha dimostrato un tasso complessivo di risposte del 87% (17% CR, 70% PR) ed una PFS a 2 anni del 86%. Da segnalare inoltre come nei 15 pazienti già sottoposti a trapianto autologo e a terapia con BV le risposte complete sono state del 7%, quelle parziali del 80% mentre nel 13% vi è stata una stabilità della malattia.
Sulla base di questi incoraggianti risultati è stato quindi successivamente lanciato un più ampio trail di fase II multicentrico multicoorte (studio Checkmate 205) per studiare l’efficacia e la sicurezza di Nivolumab in pazienti con LH già sottoposti a trapianto autologo distinguendo i pazienti in 3 coorti:
- Coorte A: pazienti BV-naive
- Coorte B: pazienti già trattati con BV dopo fallimento del trapianto autologo
- Coorte C: pazienti già trattati con BV in qualsiasi fase di malattia.
Alla conferenza internazionali sui linfomi di Lugano del 2017 (ICML 2017 Lugano) sono stati presentati i dati aggiornati sulle tre coorti in studio.
Nella Coorte A (63 pazienti) dopo un follow-up mediano di 19 mesi, il tasso di risposta è stato del 65% con 29% dei pazienti in risposta completa. La durata mediana della risposta è stata di 20 mesi con una PFS mediana di 18,3 mesi.
A settembre 2016 erano stati pubblicati su Lancet Oncology i risultati della Coorte B che prevedeva l’utilizzo di Nivolumab in pazienti con LH recidivati o refrattari dopo trapianto autologo e trattamento con BV (Younes A et al, 2016). Sono stati reclutati 80 pazienti trattati con Nivolumab al dosaggio di 3 mg/Kg ogni 2 settimane fino a progressione o tossicità inaccettabile.
Da segnalare che si trattava di paziente pesantemente pretrattati con un numero mediano di precedenti linee di trattamento pari a 4.
Con un tempo mediano di follow-up di 8.9 mesi il 66% dei pazienti (55) ha raggiunto una risposta radiologica valutata con TC-PET (7 pazienti in CR e 46 pazienti in PR) con un tempo mediano alla risposta di circa 2 mesi e una durata mediana della risposta di circa 8 mesi. I dati aggiornati a 23 mesi presentati a Lugano hanno mostrato una risposta nel 68% dei pazienti con una risposta completa nel 13% dei casi. La durata mediana della risposta è stata di 16 mesi con una PFS mediana di 14,7 mesi. I principali effetti avversi legati al trattamento sono stati: astenia (25%), reazioni da infusione (20%) e rash cutaneo (16%). Le reazioni avverse più gravi (grado 3 e 4) registrate sono state neutropenia (5%) e aumento delle lipasi (5%). Nessuna delle 3 morti registrate nello studio é stata correlata al farmaco.
Nella Coorte C sono stati reclutati 100 pazienti. Dopo un follow-up mediano di 16 mesi, il tasso di risposta è stato del 73% con 12% dei pazienti in risposta completa. La durata mediana della risposta è stata di 15 mesi con una PFS mediana di 11,9 mesi.
Studi con Pembrolizumab
A novembre 2016 sono stati pubblicati sul Journal of Clinical Oncology i dati di uno studio di fase Ib (studio KEYNOTE-013) che prevedeva l’utilizzo del Pembrolizumab nel trattamento di pazienti con linfoma di Hodgkin recidivato o refrattario, già sottoposti ad autotrapianto o inelegibili ad esso e resistenti a trattamento con BV (Armand P et al, 2016).
Sono stati arruolati complessivamente 31 pazienti nella maggior parte dei casi sottoposti già a tre o più linee di trattamento (nel 55% a cinque o più linee).
Il farmaco è stato somministrato alla dose di 10 mg/Kg di peso corporeo ogni due settimane fino a progressione o tossicità. Dal punto di vista della tollerabilità gli eventi avversi più comuni registrati sono stati ipotiroidismo, diarrea, nausea e polmoniti (Tabella 2). Cinque pazienti (16%) hanno evidenziato eventi avversi di grado 3 come colite, ipertransaminasemia, sindrome nefrosica, gonfiore articolare e dolore lombare. Non si sono verificati eventi di grado 4 o 5. Dal punto di vista della risposta al trattamento il 16% dei pazienti ha ottenuto una CR, il 48% una PR, il 23% una SD e il 13% hanno evidenziato una progressione di malattia. Complessivamente circa il 90% dei pazienti ha evidenziato comunque una riduzione della massa tumorale. Con un periodo di follow-up mediano di 17.6 mesi la PFS a 6 mesi è stata del 69% mentre la OS del 100%. Da segnalare che circa l’80% dei pazienti ha ottenuto la miglior risposta verso la dodicesima settimana di trattamento.
A luglio 2017 sono stati pubblicati i dati (Chen R et al, 2017) dello studio KEYNOTE 087 che ha arruolato complessivamente 210 pazienti suddivisi in 3 coorti:
- Coorte 1: 69 pazienti già trattati con BV dopo fallimento del trapianto autologo
- Coorte 2: 81 pazienti già trattati con BV e inelegibili ad autotrapianto
- Coorte 3: 60 pazienti già trattati con autotrapianto ma non con BV.
Dopo un trattamento mediano di 13 cicli il tasso di risposta complessiva è stato del 69% (73,9% coorte 1, 64,2% coorte 2, 70% coorte 3) con un tasso di risposte complete del 22.4%.
Gli studi con entrambi i farmaci hanno sorprendentemente evidenziato delle elevate percentuali di risposta in un setting di pazienti già pesantemente pretrattato, anche con BV, in cui i comuni trattamenti chemioterapici hanno dimostrato scarse capacità di incidere sulla storia della malattia.
Hanno inoltre dimostrato un buon profilo di tossicità con eventi avversi mai di grado 4 o 5 e che solo in un limitato numero di casi hanno portato alla discontinuazione del trattamento.
Gli studi hanno però mostrato come la maggior parte dei pazienti ottenga una remissione parziale di malattia e come al momento non vi siano dei predittori di risposta con questa nuova tipologia di farmaci.
Sono attualmente in corso studi per valutare la sicurezza di queste nuove molecole in fase pre-trapianto allogenico sia nel contesto delle forme ricadute dopo allotrapianto (Haverkos BM et al, 2017).
Anti-CD20
Il CD20 è espresso in circa il 30% delle cellule di Reed-Sternberg a bassa intensità, inoltre il microambiente tumorale è ricco in linfociti B che partecipano ai meccanismi di protezione e sostegno della cellula tumorale. Nota è invece l’elevata espressione del CD20 nel linfoma di Hodgkin a prevalenza linfocitaria nodulare, del cui trattamento verrà discusso in seguito. Gli studi finora condotti non hanno evidenziato un chiaro vantaggio terapeutico nell’aggiunta del Rituximab ai comuni schemio polichemioterapici.
Altri farmaci
Vari farmaci e strategie terapeutiche sono in fase di studio (Figura XVI) (Batlevi CL e Younes A, 2013):
- farmaci immunomodulatori come lenalidomide
- inibitori dell’istone deacetilasi: panobinostat
- inibitori delle vie di segnale:terapia con linfociti T esprimenti recettori antigenici chimerici (CAR)
- PI3K/AKT/mTOR
- JAK-STAT
- NF-kB
- anticorpi monoclonali bispecifici.
Figura XVI. Nuovi farmaci e bersagli terapeutici nel trattamento del linfoma di Hodgkin (Batlevi CL e Younes A, 2013).
TRATTAMENTO DEL LINFOMA DI HODGKIN A PREVALENZA LINFOCITARIA NODULARE
Il LH a prevalenza linfocitaria nodulare, pur rappresentando solo il 5% dei LH, presenta delle peculiarità biologiche e cliniche che influenzano il percorso terapeutico (Eichenauer DA e Engert A, 2013).
A differenza del LH classico vi è normalmente un’elevata espressione dei marcatori di linea B tra cui CD20 con assenza invece del CD15 e del CD30. Dal punto di vista clinico inoltre il NLPHL si presenta nella maggior parte dei casi in assenza di sintomi sistemici. Nelle forme più avanzate sono caratteristiche le recidive che possono anche insorgere a lunga distanza dalla prima diagnosi, con possibile trasformazione in linfomi non Hodgkin B aggressivi (più frequentemente DLBCL T cell-rich). Tali caratteristiche avvicinano il NLPHL ai linfomi non-Hodgkin B indolenti, con possibili ricadute nei futuri approcci terapeutici e nell’utilizzo di farmaci in sperimentazione per i linfomi non-Hodgkin B.
Terapia degli stadi iniziali
Negli stadi IA senza fattori di rischio la sola radioterapia (30 Gy) ha mostrato degli eccellenti risultati con percentuali di risposte complete di circa il 100%, FFTF del 92% e OS del 100% con un ottimo profilo di tolleranza. In questo stadio la sola chemioterapia ha raggiunto invece risultati inferiori. È stata inoltre testata dal gruppo tedesco GHSG la possibilità di trattare gli stadi IA con rituximab in monoterapia; sebbene i tassi di risposta completa siano molto elevati vi è una maggior percentuale di recidive rispetto ai pazienti trattatati con la sola radioterapia.
Per gli stadi II la combinazione tra un breve trattamento chemioterapico (ABVD) e la radioterapia IF rappresenta la scelta terapeutica maggiormente adottata.
Terapia degli stadi avanzati e delle recidive
Per gli stadi iniziali con fattori di rischio e per le forme avanzate il trattamento è analogo a quello adottato nel linfoma di Hodgkin classico e prevede l’utilizzo di regimi polichemioterapici (ABVD o BEACOPP) con rituximab in associazione o meno alla radioterapia IF. Interessanti risultati sono stati ottenuti anche trattando i NLPHL con lo schema R-CHOP. Un recente lavoro retrospettivo americano condotto su 59 pazienti con malattia avanzata trattati con R-CHOP ha evidenziato una PFS a 5 e 10 anni rispettivamente del 88.5% e del 59.3% con una incidenza cumulativa a 5 anni di trasformazione istologica del 2% (Fanale MA et al, 2017). In caso di recidiva è opportuno ottenere un nuovo riscontro bioptico, essendo possibile la trasformazione del NLPHL in un linfoma non Hodgkin B aggressivo. L’approccio terapeutico può esser modulato sulla base dell’entità della recidiva. In casi di malattia avanzata e/o sintomatica l’approccio ricalca quello del linfoma di Hodgkin classico che si basa su regime chemioterapici ad alte dosi supportati da trapianto autologo di cellule staminali.
Nei casi invece con lenta progressione o con basso carico tumorale potrebbe risultare efficace anche un approccio meno intensivo come dimostrato in vari studi dove è stato testata l’immunoterapia con Rituximab a dosaggio di 375 mg/m2 somministrato settimanalmente per quattro settimane.
COMPLICANZE DEL TRATTAMENTO DEL LINFOMA DI HODGKIN
Il trattamento chemioterapico è complicato da eventi avversi che possono incorrere durante il trattamento (nausea, emesi, eventi infettivi…), normalmente di facile gestione, ed effetti a lungo termine spesso irreversibili.
Alla luce dei brillanti risultati ottenibili con gli attuali regimi chemioterapici che permettono percentuali di guarigione superiori al 90%, sempre maggior rilievo stanno assumendo le possibili complicanze a lungo termine, tenuto conto sia della fascia di età colpita più frequentemente dal LH, sia del fatto che tali complicanze possono rappresentare una causa non indifferente di morbidità e mortalità nel lungo periodo (Hodgson DC et al, 2007; Hancock SL et al, 1993; Eichenauer DA et al, 2014a). Studi in pazienti lungo-sopravviventi hanno infatti evidenziato come la curva di sopravvivenza in questi soggetti, liberi dalla malattia linfomatosa, sia inferiore a quella della popolazione generale.
Le principali complicanze legate al trattamento radioterapico sono dovute alle modificazioni irreversibili indotte dalla terapia sui tessuti irradiati (Gobbi PG et al, 2013). I progressi tecnologici nell’erogazione dei fasci radianti e gli attuali schemi di radioterapia (involved field radiotherapy) hanno notevolmente ridotto i campi di irradiazione con riduzione inoltre delle dosi erogate, permettendo un’azione sempre più localizzata sul tessuto tumorale con risparmio dei tessuti sani circostanti. I possibili effetti avversi sono rappresentati, a seconda della sede irradiata, da ipotiroidismo, xerostomia, sclerosi cutanea, fibrosi polmonare e mediastinica, fibrosi pericardica, miocardiopatia, infertilità nei casi di irradiazione sottodiaframmatica e aumentato rischio di tumore polmonare e tumore del seno.
L’infertilità, sia maschile che femminile, rappresenta un effetto indesiderato frequente nei pazienti trattati per LH. Meno elevata è la sua frequenza nei pazienti trattati con ABVD rispetto a quelli sottoposti allo schema BEACOPP, mentre rappresenta un evento pressoché costante dopo chemioterapia ad alte dosi seguita da procedura trapiantologica. Nei pazienti in età fertile è quindi necessario una attenta valutazione di tale aspetto, con eventuale preservazione del seme o degli ovociti/tessuto ovarico.
Il trattamento con bleomicina può associarsi a comparsa di fibrosi polmonare nell’1-6% dei casi, accentuata da eventuale trattamento radiante concomitante (Gobbi PG et al, 2013). Recenti studi hanno mostrato come il fattore di crescita granulocitario, talora impiegato per mantenere soprattutto in pazienti di età avanzata livelli di granulociti adeguati, possa aumentare il rischio di tale complicanza (Martin WG et al, 2005).
Le complicanze cardiovascolari rappresentano la seconda causa di mortalità nei pazienti lungo-sopravviventi e sono rappresentati da eventi ischemici o quadri di cardiomiopatia dilatativa, soprattutto in pazienti sottoposti a chemioterapia in associazione a radioterapia mediastinica (Baxi SS e Matasar MJ, 2010).
Le seconde neoplasie sono infine un effetto particolarmente temibile del trattamento chemio- e radioterapico e rappresentano la principale causa di aumento della mortalità nei pazienti trattati per linfoma di Hodgkin, rispetto alla popolazione generale (Swerdlow AJ et al, 2011). Le sindrome mielodisplastiche e le leucemie acute mieloidi sono generalmente secondarie al trattamento con alchilanti o ai regimi ad alte dosi e nella maggior parte dei casi presentano una prognosi particolarmente sfavorevole. L‘aumento d’incidenza dei tumori del seno e del polmone sono invece da correlare principalmente alla radioterapia (Taylor AJ et al, 2007).
Tutti questi dati indicano come sia di particolare importanza nei pazienti in follow-up l’attenzione verso le possibili complicanze a lungo termine, per poterne identificare precocemente i sintomi e instaurare i trattamenti adeguati.
Gli ultimi vent’anni hanno visto da un lato l’importante accrescimento delle conoscenze dei complessi meccanismi biologici e patogenetici alla base del LH, dall’altro l’introduzione di efficaci schemi di terapia in grado di garantire la guarigione in un ampia percentuale di soggetti.
A fronte di questi brillanti successi si contrappone però la persistenza di una piccola, ma difficile da intaccare, percentuale di pazienti con malattia refrattaria o recidivata nonostante l’utilizzo dei trattamenti più aggressivi attualmente disponibili. Emergono inoltre sempre di più le possibili complicanze a lungo termine dei trattamenti radio- e chemioterapici.
L’avvento di nuovi farmaci e in particolare di terapia mirate come l’immunoterapia con l’anticorpo coniugato anti-CD30, hanno già mostrato rilevanti risultati negli studi preliminari e aprono nuove e interessanti prospettive in termini di riduzioni della tossicità e di aumento dell’efficacia terapeutica soprattutto nei pazienti gravati da forme ad alto rischio e con prognosi particolarmente sfavorevole.
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