Le attuali terapie per il linfoma di Hodgkin (LH) garantiscono elevati tassi di guarigione che raggiungono complessivamente l’80-85% dei pazienti trattati. Permane tuttavia una percentuale minoritaria di pazienti refrattari o recidivati ai trattamenti chemioterapici convenzionali e che molto frequentemente risultano resistenti anche a regimi intensivi comprendenti l’autotrapianto.
Proprio questa categoria di pazienti ha ricevuto negli ultimi anni particolare attenzione per quanto riguarda lo sviluppo di nuovi farmaci e di nuove strategie terapeutiche.
Se l’immunoterapia con l’anticorpo monoclonale coniugato anti-CD30 brentuximab-vedotin (BV) è ormai entrata a far parte della pratica clinica nei pazienti recidivati/refrattari, negli ultimi anni si sono affacciate altre nuove molecole in grado di modulare la risposta immune nei confronti delle cellule tumorali, agendo in particolare sull’asse immunitario che si instaura tra le cellule di Reed-Stemberg (RS) e i linfociti T del microambiente tumorale (Vardhana, 2016).
Microambiente immune nel linfoma di Hodgkin e ruolo dei linfociti T
Come noto all’interno del contesto tumorale del LH le cellule neoplastiche di RS rappresentano solo una percentuale minoritaria (circa il 5%) mentre la maggior parte è costituita da cellule non clonali reattive comprendenti linfociti, neutrofili, eosinofili, macrofagi, mastociti e cellule della matrice stromale (vedasi Ruolo del microambiente ).
Le ampie e complesse interazioni tra tutti questi elementi e le cellule RS (Figura I) permetto al clone neoplastico di sopravvivere, proliferare e allo stesso tempo di evadere o inibire i meccanismi di controllo e risposta del sistema immunitario.
Figura I: Interazione tra la cellula RS e il microambiente tumorale (Jona, 2013).
In tale ambito di ricerca molte sono le nuove informazioni riguardo il ruolo svolto dai linfociti T nel microambiente del LH (Vardhana, 2016).
La prima evidenza di questo rapporto è l’elevato numero di linfociti T presenti comunemente nelle biopsie di LH non accompagnata però dalla capacità di tali elementi di eliminare efficacemente il clone tumorale.
I linfociti T del LH sono in maggior parte costituiti da linfociti Th2 e da linfociti T regolatori (Treg). Le cellule RS producono una serie di citochine e chemochine (CCL17/TARC, CCL22, CCL5, IL-4, IL-5, IL-10 e IL-13) in grado di attrarre le cellule Th2 e Treg, inducendo la differenziazione dei tumor-infiltrating lymphocytes (TIL) verso il fenotipo Th2 e allo stesso tempo secernono una serie di fattori (galectin-1, IL-7, IL-10 e TGF-β e macrophage migration inhibitory factor [MMIF]) in grado di bloccare i linfociti Th1 e la risposta immunitaria Th1-mediata (Figura II).
Figura II: Interazione tra la cellula RS e i linfociti T del microambiente (Jona, 2013).
Le cellule RS sono inoltre in grado di evadere la risposta T immune attraverso vari meccanismi:
– ridotta espressione dei complessi MHC di classe I e II
– induzione di meccanismi di inibizione della cellula T attraverso molecole come CTLA-4, LAG-3 e l’asse PD-L1/2-PD-1.
Su quest’ultimo punto si è concentrato lo sviluppo di anticorpi monoclonali in grado di inibire tali precisi meccanismi.
Struttura ed espressione fisiologica di PD-1 e PDL1/2
PD-1 (programmed cell death 1 o CD279) è una molecola trasmembrana di 288 aminoacidi appartenente alla superfamiglia delle immunoglobuline (Figura III). Identificata per la prima volta nelle cellule apoptotiche, è in realtà coinvolta nella modulazione della risposta immune, in particolare quella T-mediata. E’ espressa, in misura variabile e soggetta a modulazione, sulle cellule T mature attivate (che hanno quindi superato la fase di priming) ma anche su altre cellule immunitarie come i linfociti CD4-/CD8- timici, le cellule NK, i linfociti B, i monociti e le cellule di Langerhans immature. Di notevole rilievo è la scoperta della sua espressione nei TIL di numerose entità neoplastiche (melanoma, tumore del polmone, LH).
Figura III: A) Interazioni PD-L1 e PD-L2 con PD-1 (le frecce rosse indicano un’azione inibitoria). B) Struttura di PD-1 (Boussiotis, 2016).
PD-L1 (PD ligand 1 o B7-H1 o CD274) è espressa fisiologicamente a bassi livelli sulle cellule APC (professioniste e non) e su altre cellule non emopoietiche come quelle endoteliali vascolari, pancreatiche e sulle cellule di santuari immunologici come l’occhio, la placenta e il testicolo. PD-L2 è invece costitutivamente espresso dalle cellule dendritiche e dai macrofagi. L’espressione di entrambi questi ligandi è indotta da molecole pro-infiammatorie come IFN di tipo 1 e 2, TNFα e VEGF.
Ruolo fisiologico dell’interazione tra PD-L1/2 e PD-1
In un contesto fisiologico il legame tra PD-L1/2 e PD-1 svolge un’azione inibitoria sulle cellule T attivate, limitando l’espansione della risposta immune e facilitando quindi la risoluzione del processo infiammatorio. Dimostrazione di ciò sono gli esperimenti condotti in topi knock-out per PD-1 i quali sviluppano selettive manifestazioni autoimmuni come nefriti o artriti. Il fatto che l’assenza di PD-1 in questi modelli sperimentali porti a dei processi autoimmuni selettivi e non generalizzati, come nel caso di topi knock-out per CTLA-4, dimostra come l’asse tra PD-1 e PD-L1 entri in gioco nella modulazioni di cellule T già attivate in un determinato contesto infiammatorio, punto di notevole importanza per le ricadute terapeutiche di un blocco di tale via.
Vie di segnale attivate dal legame tra PD-1 e PD-L1/2
I meccanismi attraverso cui PD-1 inibisce l’attivazione della cellula T sono molteplici come illustrato nella Figura IV:
1) riduzione della fosforilazione Lck-mediata di ZAP-70 e delle vie di segnale da esso mediata;
2) inibizione della via PI3K-Akt attraverso la destabilizzazione di PTEN;
3) inibizione dell’attivazione di Ras e PLC-γ1 e delle chinasi a valle MEK-ERK e MAP.
Figura IV: Vie di segnale attivate dal legame tra PD-1 e PD-L1/2 (Boussiotis, 2016).
Livelli variabili di espressione di PD-1 possono interessare in maniera differente queste vie di segnale. L’attivazione delle varie vie ha conseguenze che si riflettono a più livelli nella cellula T interessando la regolazione del ciclo cellulare, l’espressione genica, la modulazione epigenetica ed anche il metabolismo cellulare.
Ruolo dell’asse PD-1 PD-L1/2 nel contesto tumorale
É noto che uno dei molteplici meccanismi posti in essere dalle cellule tumorali per facilitare e mantenere la proprio proliferazione è l’evasione e la modulazione nei confronti della risposta immune (Vinay, 2015). Numerose neoplasie condividono tali strategie seppur in contesti differenti. In ambito ematologico, la strategia allotrapiantologica ha inoltre chiaramente dimostrato l’importanza del controllo immunologico nei confronti delle cellule tumorali per poter aspirare ad una guarigione completa in determinati contesti clinici.
Il LH instaura numerosi rapporti con le cellule del sistema immunitario presenti nel suo ricco microambiente limitandone l’azione. Le vie che portano all’iper-espressione di PD-L1/2 sulla cellula di RS sono molteplici:
1) vari oncogeni possono aumentarne l’espressione;
2) studi di citogenetica hanno dimostrato come in circa l’85% dei LH classici sia presente l’amplificazione genica a carico della regione 9p24.1. In tal modo sono amplificati sia i geni codificanti per PD-L1/2 sia il gene che codifica per JAK2 in grado a sua volta di aumentare la trascrizione dei precedenti geni;
3) il virus EBV attraverso la proteina LMP1 può indurre l’iper-espressione di PD-L1 come meccanismo di evasione della risposta immune;
4) i livelli di espressione di PD-L1 possono inoltre esser regolati attraverso meccanismi epigenetici coinvolgenti miR-34a, miR-200, miR-513 e miR-570.
Nel ricco contesto microambientale l’aumento di espressione di PD-L1/2 può inoltre esser mediato da citochine pro-infiammatorie come IFNγ anche su cellule diverse dalle cellule tumorali come i macrofagi intratumorali (che nel LH rappresentano un fattore prognostico negativo) le cellule dentritiche e le cellule stromali.
IMMUNOTERAPIA CON ANTICORPI MONOCLONALI ANTI PD-1
Nel corso del 2015 e 2016 sono stati pubblicati i risultati di alcuni studi con due differenti anticorpi monoclonali anti PD-1 (nivolumab e pembrolizumab) nel setting del LH recidivato/refrattario (Ansell, 2015; Armand, 2016). Nivolumab è un anticorpo monoclonale di classe IgG4 umanizzato che si lega a PD-1 impendendone il legame con PD-L1/2 mentre pembrolizumab è un anticorpo monoclonale umanizzato di classe IgG4/kappa in grado anche’esso di legarsi a PD-1.
Studi con nivolumab
Nello studio di fase I di Ansell e colleghi, pubblicato a gennaio 2015 (Ansell, 2015) sono stati trattati 23 pazienti con LH recidivato e refrattario. Tutti i soggetti erano già stati sottoposti ad almeno due linee di terapia ed in particolare il 78% era recidivato dopo trapianto autologo ed il 78% dopo terapia con BV.
La dose di farmaco identificata nella fase di dose-escalation è stata di 3 mg/Kg di peso corporeo somministrato per via endovenosa alla prima e alla quarta settimana e successivamente ogni due settimane fino a progressione o tossicità.
Effetti avversi correlati al farmaco si sono manifestati nel 78% dei pazienti, tra cui il rash e la piastrinopenia sono stati i più frequenti (rispettivamente 22% e 17%) (Tabella I). Tossicità di grado 3 sì sono verificate nel 22% dei pazienti mentre non vi sono stati eventi di grado 4 o 5.
Tabella I. Tossicità farmaco-correlate in pazienti trattati con nivolumab (Ansell, 2015).
Lo studio ha dimostrato un tasso complessivo di risposte del 87% (17% CR, 70% PR) ed una PFS a 2 anni del 86% (Figura V). Da segnalare inoltre come nei 15 pazienti già sottoposto a trapianto autologo e a terapia con BV le risposte complete sono state del 7%, quelle parziali del 80% mentre nel 13% vi è stata una stabilità della malattia.
Figura V: Caratteristiche della risposta (A) e modificazioni del carico tumorale (B) in pazienti con LH trattati con nivolumab (Ansell, 2015).
Nonostante i limiti di uno studio di fase I, il lavoro di Ansell e colleghi ha mostrato dei risultati di assoluto valore, sia per i presupposti biologici da cui lo studio nasce, sia per i risultati ottenuti in una categoria di pazienti già pesantemente pretrattati e con malattia resistente ai comuni regimi terapeutici.
Sulla base di questi incoraggianti risultati è stato quindi successivamente lanciato un più ampio trail di fase II multicentrico multicoorte (studio Checkmate 205) per studiare l’efficacia e la sicurezza di nivolumab in pazienti con LH già sottoposti a trapianto autologo distinguendo i pazienti in 3 coorti:
– Coorte A: pazienti BV-naive.
– Coorte B: pazienti già trattati con BV dopo fallimento del trapianto autologo.
– Coorte C: pazienti già trattati con BV in qualsiasi fase di malattia.
A settembre 2016 sono stati pubblicati su Lancet Oncology i risultati della Coorte B che prevedeva l’utilizzo di nivolumab in pazienti con LH recidivati o refrattari dopo trapianto autologo e trattamento con BV (Younes, 2016). Da agosto 2014 a febbraio 2015 Sono stati reclutati 80 pazienti trattati con Nivolumab al dosaggio di 3 mg/Kg ogni 2 settimane fino a progressione o tossicità inaccettabile. Da segnalare che si trattava di pazienti pesantemente pretrattati con un numero mediano di precedenti linee di trattamento pari a 4.
Con un tempo mediano di follow-up di 8,9 mesi il 66% dei pazienti (53) ha raggiunto una risposta radiologica valutata con TC-PET (7 pazienti in CR e 46 pazienti in PR) con un tempo mediano alla risposta di circa 2 mesi e una durata mediana della risposta di circa 8 mesi (Figura VI).
Figura VI: A) modificazione delle lesioni target rispetto al baseline. B) Caratteristiche della risposta di tutti i pazienti. C) Durata della risposta. D) PFS. (Younes, 2016)
I principali effetti avversi legati al trattamento sono stati: astenia (25%), reazioni da infusione (20%) e rash cutaneo (16%). Le reazioni avverse più gravi (grado 3 e 4) registrate sono state neutropenia (5%) e aumento delle lipasi (5%). Nessuna delle 3 morti registrate nello studio é stata correlata al farmaco.
L’analisi immunoistochimica del tessuto tumorale ottenuto durante la fase di screening ha evidenziato come il PD-L1 H score (funzione della frequenza e dell’intensità della colorazione per PD-L1 sulle cellule maligne) correla positivamente con l’entità dell’amplificazione nella regione 9p24.1 in FISH e con la profondità della best overall response.
Nel corso del 58th ASH Annual Meeting sono stati aggiornati in sessione orale i dati del follow-up della Coorte B (follow-up minimo 12 mesi) (Tabella II).
Tabella II: Aggiornamento dei dati di follow-up della Coorte B dello studio Ceckmate 205 (http://www.bloodjournal.org/content/128/22/1110?sso-checked=true)
Per quanto riguarda la Coorte B, con un follow-up mediano di 15,4 mesi la risposta complessiva è stata del 68% (8% CR, 60% PR) con una durata mediana di risposta di 13 mesi. Per i pazienti che hanno ottenuta la CR non è stata raggiunta la durata mediana. La PFS mediana è stata di 14,8 mesi mentre la sopravvivenza a 12 mesi è stata del 94,9% (Figura VII).
Figura VII: PFS a 12 mesi della Coorte B dello studio Ceckmate 205 (http://www.bloodjournal.org/content/128/22/1110?sso-checked=true)
I dati di tossicità si sono dimostrati in linea con quelli già pubblicati nel precedente lavoro. Il 46% dei pazienti trattati ha interrotto il trattamento: nel 24% dei casi per progressione, il 9% per una strategia di trapianto allogenico e il 6% per eventi avversi.
Studi con pembrolizumab
A novembre 2016 sono stati pubblicati sul Journal of Clinical Oncology i dati di uno studio di fase Ib (studio KEYNOTE-013) che prevedeva l’utilizzo del pembrolizumab nel trattamento di pazienti con linfoma di Hodgkin recidivato o refrattario, già sottoposti ad autotrapianto o inelegibili ad esso e resistenti a trattamento con BV (Armand, 2016). Sono stati arruolati complessivamente 31 pazienti nella maggior parte dei casi sottoposti già a tre o più linee di trattamento (nel 55% a cinque o più linee). Il farmaco è stato somministrato alla dose di 10 mg/Kg di peso corporeo ogni due settimane fino a progressione o tossicità.
Dal punto di vista della tollerabilità gli eventi avversi più comuni registrati sono stati ipotiroidismo, diarrea, nausea e polmoniti (Tabella III).
Tabella III: Tossicità farmaco-correlate in pazienti con LH trattati con pembrolizumab (Armand, 2016).
Cinque pazienti (16%) hanno evidenziato eventi avversi di grado 3 come colite, ipertransaminasemia, sindrome nefrosica, gonfiore articolare e dolore lombare. Non si sono verificati eventi di grado 4 o 5.
Dal punto di vista della risposta al trattamento il 16% dei pazienti ha ottenuto una CR, il 48% una PR, il 23% una SD e il 13% hanno evidenziato una progressione di malattia. Complessivamente circa il 90% dei pazienti ha evidenziato comunque una riduzione della massa tumorale (Figura VIII).
Figura VIII: Risposta al trattamento con pembrolizumab. A) Massima percentuale di modificazione delle lesioni tumorali. B) Modificazioni rispetto al baseline delle lesioni tumorali C) Esposizione al trattamento e durata della risposta (Armand, 2016).
Con un periodo di follow-up mediano di 17,6 mesi la PFS a 6 mesi è stata del 69% mentre la OS del 100% (Figura IX).
Figura IX: PFS e OS in pazienti con LH trattati con pembrolizumab (Armand, 2016).
Da segnalare che circa l’80% dei pazienti ha ottenuto la miglior risposta verso la dodicesima settimana di trattamento.
Nello studio sono stati inoltre valutati durante il trattamento l’assetto linfocitario periferico mediante citofluorimetria che ha mostrato un significativo aumento dei linfociti T CD4 e CD8 e delle cellule NK. È stata inoltre dimostrata attraverso metodica di nanostring l’aumento di espressione dei geni correlati alla risposta immunitaria IFNγ-mediata. Visto il numero limitato di casi in studio non è stato però possibile correlare statisticamente tali dati al tipo di risposta.
Problematiche di re-staging in pazienti trattati con anticorpi anti PD-1
Il peculiare meccanismo di azione di questi nuovi farmaci pone delle problematiche di non sempre univoca risoluzione per quanto riguarda la valutazione della risposta al trattamento. È stato infatti evidenziato negli studi in corso come si possano verificare fenomeni di flare tumorale, di risposta ritardata/tardiva o addirittura di comparsa di apparenti nuove lesioni in corso di risposta nei pazienti trattati con anticorpi anti PD-1. L’attivazione della risposta immune pone inoltre problemi di tipo interpretativo soprattutto utilizzando metodiche come la PET che proprio nel LH si correla con l’attività del microambiente tumorale.
Sono stati quindi proposti dei nuovi criteri da applicare alla recente classificazione di Lugano per i linfomi, al fine di caratterizzare più correttamente la risposta dei pazienti in trattamento con tali tipologie di farmaci (Cheson, 2016).
Considerazioni
Gli studi con entrambi i farmaci hanno sorprendentemente evidenziato delle elevate percentuali di risposta in un setting di pazienti già pesantemente pretrattati, anche con BV, nei quali i comuni trattamenti chemioterapici hanno dimostrato scarse capacità di incidere sulla storia della malattia. Hanno inoltre dimostrato un buon profilo di tossicità con eventi avversi mai di grado 4 o 5 e che solo in un limitato numero di casi hanno portato alla discontinuazione del trattamento. Gli studi hanno però mostrato anche come la maggior parte dei pazienti ottenga una remissione parziale di malattia e come al momento non vi siano dei predittori di risposta con questa nuova tipologia di farmaci.
Alla luce di queste considerazioni sono attualmente in corso numerosi di studi sia di carattere biologico che di carattere clinico (vedasi clinicaltrials.gov) sia per far luce sui precisi meccanismi che determinano la risposta al farmaco nel LH, sia per esplorare la possibilità di trattamenti di associazione con farmaci chemioterapici classici o con altri anticorpi monoclonali.
L’avvento e i risultati di questi nuovi trattamenti hanno inoltre già portato ad una parziale revisione dei criteri di risposta radiologica e PET, molto diversa e peculiare rispetto a quella che si ottiene con i consueti regimi polichemioterapici.
L’avvento di questa nuova categoria di anticorpi monoclonali, come già era avvenuto con l’introduzione del BV, evidenzia in maniera ancor più lampante come lo studio dei precisi meccanismi biologici alla base delle neoplasie, e in particolare del LH, sia il punto di partenza fondamentale per poter sviluppare strategie terapeutiche innovative che agiscano selettivamente sul clone tumorale, aprendo inoltre nuove prospettive di cura per la categoria di pazienti che risultino resistenti o refrattari ai comuni regimi chemioterapici.
BIBLIOGRAFIA
Università degli Studi di Verona, Professore Onorario di Ematologia, già Direttore della Scuola di Specializzazione in Ematologia, della UOC di Ematologia e del Dipartimento di Medicina
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