La leucemia mieloide acuta (LAM) è una proliferazione clonale di cellule staminali ematopoietiche, caratterizzata da differenziazione bloccata o severamente compromessa e progressivo accumulo di cellule patologiche (blasti) in vario stadio di maturazione prevalentemente incompleta. Come conseguenza si determinano nel sangue periferico vari livelli di citopenia e le manifestazioni cliniche più comuni includono sintomi di anemia (astenia e dispnea da sforzo), neutropenia (infezioni) e trombocitopenia (emorragie), che sono generalmente presenti al momento della diagnosi e dominano il quadro clinico durante il trattamento. Il meccanismo mediante il quale l’espansione del clone leucemico sopprime la crescita e la differenziazione della normale ematopoiesi policlonale residua non è ancora completamente chiarito, ma sembra che questa soppressione sia, almeno parzialmente, protettiva nei confronti degli effetti citotossici della chemioterapia in quanto la rigenerazione della normale crasi ematica periferica si verifica in seguito alla riduzione del clone leucemico dopo chemioterapia di induzione. In assenza di terapia la LAM conduce a morte in un lasso di tempo variabile da pochi giorni ad alcuni mesi. La LAM può insorgere come forma “de novo” o dopo un disordine ematopoietico precedente, nella maggior parte dei casi una sindrome mielodisplastica (SMD) o, meno frequentemente, una malattia mieloproliferativa (MPD), come mielofibrosi idiopatica, policitemia vera e trombocitemia essenziale (Ferrara F, Schiffer CA, 2013). Infine, la LAM può svilupparsi in pazienti con esposizione nota ad agenti mutageni (generalmente chemio e/o radioterapia per antecedenti neoplasie, ematologiche e non). In questi casi viene definita treatment-related LAM (Godley LA, Larson RA, 2008; Feldman EJ, 2011). Recentemente, per le LAM secondarie è stato registrato un nuovo agente denominato CPX-351, che è una formulazione liposomiale di daunorubicina e citarabina in rapporto molare 1 a 5, dimostratosi più efficace rispetto alla terapia convenzionale (Chen E et al, 2018).
La LAM è la leucemia più comune nell’adulto rappresentando circa il 3% di tutti i casi di cancro e il 25% di tutte le leucemie. Nel mondo l’incidenza di LAM è maggiore negli Stati Uniti, in Australia ed Europa occidentale (Siegel R et al, 2012). Il tasso di incidenza di LAM è approssimativamente 3,4 per 100,000 persone negli Stati Uniti (2.5 per 100,000 quando valutato per età della popolazione mondiale standard) con maggiore frequenza nel sesso maschile. La LAM può insorgere in ogni età, con maggior incidenza in individui con età maggiore di 65 anni (Figura I). I pazienti con nuova diagnosi di LAM hanno una età mediana di 65 anni e la malattia è solo raramente diagnosticata prima dei 40 anni; quindi l’incidenza aumenta progressivamente con l’età (Thein MS et al, 2013).
Figura I: Aumento d’incidenza della LAM con l’età: l’incidenza più elevata è intorno a 70 anni.
L’insorgenza di LAM è stata associata a numerosi fattori di rischio (Tabella I), in particolare all’esposizione a radiazioni ionizzanti e ad agenti chimici che danneggiano il DNA; in realtà, una storia chiara di contatto con una riconosciuta sostanza cancerogena è inusuale nei pazienti con LAM (Deschler B, Lubbert M, 2006). Al contrario, due forme distinte di LAM sono state descritte dopo esposizione a chemioterapici. I pazienti esposti ad agenti che bloccano le topoisomerasi II, come le antracicline e le epipodofillotossine, sviluppano in genere una malattia rapidamente proliferativa spesso a carico della serie monocitaria e con alterazioni citogenetiche che coinvolgono il gene MLL al cromosoma 11q23, con intervallo di tempo che varia da alcuni mesi ad 1-2 anni dal trattamento con questi agenti (Deschler B, Lubbert M, 2006).
Tabella I: Principali fattori di rischio associati ad insorgenza di LAM.
Più comune è il sottotipo che insorge dopo trattamento con agenti alchilanti e/o radioterapia, la cui incidenza ha un picco 5-6-anni dopo l’esposizione ed è caratterizzato da precessione mielodisplastica con cariotipo complesso e delezione di tutto o parte dei cromosomi 5 e 7 (Godley LA, Larson RA, 2008). È da rilevare che queste stesse alterazioni e un simile andamento clinico si osservano più spesso nei pazienti anziani, probabilmente in seguito ad ancora non quantificabili ripetute esposizioni a cancerogeni inquinanti che contribuiscono allo sviluppo di LAM in età avanzata. È stato recentemente dimostrato che alcune mutazioni somatiche (IDH1, IDH2, TP53, DNMT3A, TET2 e “spliceosome genes”) sono correlate a un rischio significativamente maggiore di indurre LAM (Desai P et al, 2018). Nell’anziano, inoltre, c ben noto il fenomeno della “age related clonal hemopoiesis (ARCH)”, una condizione associata alla presenza di varie mutazioni leucemogeniche, ma non necessariamente legata allo sviluppo di LAM (Abelson S et al, 2018). In età pediatrica, disordini genetici costituzionali sono importanti fattori di rischio associati allo sviluppo di LAM (Tabella I). I bambini affetti da sindrome di Down hanno un rischio 10-20 volte superiore di sviluppare una leucemia acuta. Altre malattie ereditarie associate alla LAM includono la sindrome di Klinefelter, la sindrome di Li-Fraumeni, l’anemia di Fanconi e la neurofibromatosi multipla (Deschler B, Lubbert M, 2006). Il meccanismo con cui in questi pazienti i distinti sottotipi di insufficienza emopoietica e di neoplasie si sviluppano sono ancora oggetto di investigazione, in particolare per quanto concerne il contributo di polimorfismi ereditari nella capacità di metabolizzare differenti tossine e a riparare i danni del DNA (D’andrea AD, 2010).
Usando vari modelli in vitro e preclinici è stato dimostrato che una serie di mutazioni multistep sono necessarie per generare una LAM (Figura II), con evidenze che suggeriscono che per la leucemogenesi sono necessarie mutazioni attivanti geni di classe I che attivano il meccanismo di trasduzione del segnale e inducono la proliferazione cellulare in cooperazione con mutazione di geni di classe II, che alterano fattori di trascrizione e compromettono la normale differenziazione (Link DC, 2012; Marcucci G et al, 2011). Mutazioni che portano all’attivazione di recettori di tirosina chinasi quali FLT3, c-kit e al meccanismo di signaling di RAS fanno parte di mutazioni di classe I, mentre RUNX1/ETO, CBFbeta/MYH11 e PML/RAR alpha, che sono trascritti ibridi di fusione generati da ben note anomalie cromosomiche ricorrenti quali t(8;21), inv(16) e t(15;17) rispettivamente, rappresentano esempi di mutazione di classe II (Gilliland DG et al, 2004). Anche mutazioni dei fattori di trascrizione RUNX1, C/EBP alpha e MLL ricadono in questo gruppo. Una terza classe di geni che codificano modificatori epigenetici, che include DNMT3A, IDH1, IDH2, TET2, ASXL1 e EZH2, sembra a sua volta giocare un ruolo preminente nella patogenesi della LAM, sebbene il meccanismo con cui queste aberrazioni contribuiscono al fenotipo leucemico è scarsamente conosciuto. Allo stato attuale sono riconosciute almeno 9 classi di mutazioni (Tabella II), alcune strettamente cooperanti, altre mutualmente esclusive e la conoscenza è in continua evoluzione (vedi approfondimento di genetica molecolare). È da notare che diverse di queste anomalie sono associate a prognosi peggiore e sono maggiormente frequenti nei pazienti più anziani (Shen Y et al, 2011). Mentre molte mutazioni che contribuiscono alla patogenesi della LAM sono ancora non definite e la relazione tra meccanismo di mutazione e fenotipo epigenetico è tutt’altro che chiara, è stato di recente dimostrato che in quasi tutti i tipi di LAM esiste almeno una mutazione potenzialmente driver e che un complesso network di eventi genetici contribuisce alla patogenesi della malattia nel singolo paziente. Il genoma della LAM ha meno mutazioni di quello di molti altri tumori dell’adulto, con una media di solo 13 mutazioni e 5 mutazioni per gene. Modelli di cooperazione e mutua esclusività suggeriscono una forte relazione biologica tra disregolazione di specifici geni e distinte categorie di LAM (Cancer Genome Atlas Research Network, 2013).
Figura II: Modello di leucemogenesi “two hits”, basato sulla cooperazione di due differenti classi di mutazioni.
Tabella II: Classi di mutazioni coinvolte nella patogenesi della LAM.
È noto che la LAM è sia dal punto di vista clinico che bio-molecolare una malattia molto eterogenea con esordio e outcome clinico differente nei vari sottotipi morfologici e citogenetici. Recenti analisi molecolari hanno ampliato le nostre capacità di comprendere questa eterogeneità con potenziale applicazione verso nuove possibilità terapeutiche. E’ interessante che sebbene molti blasti leucemici nel singolo paziente mostrino simili aspetti morfologici, solo lo 0,5 % circa di queste cellule con un fenotipo immaturo CD34+/CD38- hanno la capacità di formare colonie in vitro e generare leucemia in topi con immunodeficienza. Queste cellule, definite clonogeniche, mostrano molti aspetti comuni alle normali cellule staminali ematopoietiche, inclusa la presenza di meccanismi di resistenza a una varietà di farmaci citotossici (Hoang VT et al, 2012; Pandolfi A et al, 2013). Sulla base di sofisticate analisi molecolari, è stato dimostrato che alla diagnosi sono presenti multipli sottocloni con differenti pattern di anomalie molecolari, con la successiva eventuale espansione, sotto la spinta selettiva di cicli di trattamento chemioterapico, di differenti subcloni (Walter MJ et al, 2012; Ding L et al, 2012). La eterogeneità delle cellule leucemiche di un singolo paziente ha ovvie implicazioni sull’uso e lo sviluppo di terapie “targeted” verso i prodotti di queste mutazioni genetiche; inoltre l’eterogeneità delle cellule staminali leucemiche può anche vanificare l’efficacia di specifici anticorpi e agenti farmacologici (Perl AE, 2017).
L’osservazione al microscopio ottico ancora oggi rimane il metodo fondamentale per la diagnosi ed una prima sottoclassificazione della LAM. L’esame di campioni di sangue periferico e di midollo osseo colorati con il metodo Wright-Giemsa o May-Grunwald-Giemsa consente una diagnosi iniziale rapida e frequentemente conclusiva. Infatti, con la semplice indagine morfologica, la maggior parte dei casi di LAM e di leucemia acuta linfoblastica (LAL) può essere accuratamente diagnosticata. In alcuni casi di leucemie acute scarsamente differenziate il quadro morfologico può essere equivoco richiedendo studi ulteriori. La colorazione citochimica può essere utile nel distinguere le LAM scarsamente differenziate dalla LAL e in determinati sottotipi di LAM. La mieloperossidasi (MPO) e il Sudan nero B sono le metodiche citochimiche più comunemente utilizzate. Nella maggior parte dei casi di LAM una proporzione variabile di cellule leucemiche (blasti) presenta positività alla MPO e al Sudan nero B mentre entrambe le colorazioni sono costantemente negative nella LAL. Con l’aggiunta della citochimica all’indagine morfologica la maggior parte dei casi di leucemia acuta può essere appropriatamente diagnosticata come LAM o LAL. Secondo i criteri del gruppo cooperativo FAB (French-American-British), la classificazione delle LAM era esclusivamente basata sulla morfologia, i livelli di differenziazione tra differenti linee cellulari e sul grado di maturazione (Bennett JM et al, 1985b). Più recentemente, i criteri WHO (Tabella III) incorporano ed integrano la morfologia, la citogenetica e la biologia molecolare nel tentativo di elaborare una classificazione che sia universalmente applicabile e prognosticamente valida (Vardiman JW et al, 2009; Arber DA et al, 2016).
Tabella III: Classificazione WHO della LAM.
Le differenze più significative tra la classificazione WHO e la FAB è che la WHO richiede come requisito alla diagnosi che la percentuale di blasti sia almeno il 20% nel sangue periferico e nel midollo osseo, rispetto al 30% della FAB. Questo valore di fatto elimina la categoria “anemia refrattaria con eccesso di blasti in trasformazione” (RAEB-t) che era proposta dalla classificazione FAB delle SMD, nella quale RAEB-t era definita da una percentuale di blasti midollari tra 20% e 29%. Nella classificazione WHO, RAEB-t non è più considerata come una entità clinica distinta e viene ad essere inclusa nella categoria LAM con displasia multilineare come “LAM con displasia multilineare. Sebbene la riduzione della quota blastica al 20% non sia stata unanimemente condivisa, diversi studi indicano che la sopravvivenza nei casi con percentuale di blasti tra il 20 e il 29% è sostanzialmente sovrapponibile a quelli con oltre il 30%. Inoltre va ricordato che la diagnosi di LAM di per sé non implica l’avvio di una chemioterapia aggressiva in quanto, oltre alla percentuale dei blasti, la decisione sull’opportunità e il tipo di trattamento deve essere basata su una serie di fattori che includono l’età, una precedente storia di MDS, il quadro clinico, la progressione della malattia e, soprattutto nei pazienti anziani e/o con comorbidità, la volontà del paziente.
Il lineage della maggior parte dei casi di leucemia acuta morfologicamente e citochimicamente poco o non caratterizzati possono essere accuratamente definiti dall’analisi immunofenotipica. La citometria a flusso multiparametrica è la metodica preferita per l’esame immunofenotipico delle leucemie acute (Kern W et al, 2010). Sono disponibili un gran numero di anticorpi monoclonali per l’analisi citofluorimetrica di antigeni mieloidi e linfoidi specifici di linea e va sottolineato che i campioni di sangue e di midollo osseo sono particolarmente idonei poiché le cellule si trovano naturalmente in sospensione liquida. La citometria a flusso multicolore consente la caratterizzazione di differenti antigeni su una singola cellula, con una precisa caratterizzazione delle cellule leucemiche anche in caso di bassa densità di espressione. La colorazione immunoistochimica può essere usata per studiare l’immunofenotipo delle leucemie acute quando sono disponibili solo campioni di biopsia ossea. Il pannello antigenico diagnostico può essere variabilmente ampio, ma deve almeno includere la valutazione dell’espressione di CD19, CD7, CD13, CD33, CD14, CD117, CD15 e CD34. E’ importante notare che lo studio immunofenotipico non deve mai essere usato in sostituzione dell’esame morfologico; inoltre la conta delle cellule CD34+ non deve sostituire la valutazione morfologica della conta dei blasti, in quanto circa il 20% delle LAM sono CD34 negative e non sempre vi è corrispondenza tra cellule CD34+ e cellule blastiche.
Al contrario l’esame immunofenotipico può essere estremamente utile per valutare la malattia minima residua, in quanto un pattern immunofenotipico anomalo è presente in circa il 90% dei casi di LAM (Paietta E, 2012).
L’analisi citogenetica delle cellule in metafase è una componente fondamentale della valutazione di tutti i pazienti con nuova o sospetta diagnosi di LAM, poiché il 55-60% delle cellule tumorali mostra anomalie cromosomiche acquisite non random (Morrissette JJ, Bagg A, 2011). In alcuni casi (Tabella IV) specifiche anomalie cromosomiche sono associate in maniera specifica a distinti sottotipi morfologici e immunofenotipici. Come anche suggerito dalla classificazione WHO, specifiche anomalie citogenetiche hanno importanza diagnostica, prognostica e terapeutica (Fang M et al, 2011; Byrd JC et al, 2002; Grimwade D et al, 2010b; Slovak ML et al, 2000). Approssimativamente il 40% dei pazienti con LAM mostra cariotipo normale (LAM NK) senza anomalie citogenetiche identificabili con le moderne tecniche di citogenetica e con il metodo di ibridazione in situ (FISH). Questi pazienti sono stati inizialmente classificati in una categoria di rischio intermedio con un tasso di sopravvivenza globale tra il 24% e il 42% (Mawad R, Estey EH, 2012). Recentemente, numerosi studi retrospettivi hanno suggerito che alcuni marcatori molecolari possono identificare pazienti LAM NK a buona o cattiva prognosi e che il trattamento (almeno post-remissionale) deve essere definito in base ai suddetti marcatori (Martelli MP et al, 2013). Alcune anomalie molecolari si sono dimostrate utili per il monitoraggio della malattia minima residua e potenziali bersagli di terapie mirate (Garcés-Eisele J, 2012). Allo stato attuale, nella pratica clinica devono essere studiate le mutazioni NPM1, FLT3 e CEPBAalpha. Infine si raccomanda di conservare i campioni di midollo e di sangue periferico di ogni paziente con LAM per raccogliere materiale biologico potenzialmente utile per studi futuri. Un approccio integrato alla diagnosi di LAM è mostrato in Figura III.
Tabella IV: Reperti citogenetici più frequenti nelle LAM.
Figura III: Diagnosi integrata di LAM con differenti metodiche diagnostiche.
I sintomi più precoci della LAM mimano generalmente quelli dell’influenza o di altre malattie molto più frequenti. In seguito, prevalgono quelli dovuti all’insufficienza midollare provocata dalla progressiva espansione del clone leucemico. La maggior parte dei pazienti lamenta astenia, dispnea da sforzo, comparsa di ecchimosi e/o altre manifestazioni emorragiche e febbre, quasi sempre in assenza di infezioni documentate. Meno frequentemente si riscontrano epato-splenomegalia, linfomegalie, ipertrofia gengivale. Alcuni pazienti lamentano dolore osseo migrante. Solo in casi eccezionali, la diagnosi viene effettuata in corso di esami di routine. L’iperleucocitosi (leucociti > 100x10E9/l) è piuttosto rara (non oltre il 10% dei casi) e può associarsi a sindrome da lisi tumorale (TLS) e a segni e sintomi clinici di leucostasi; questi ultimi includono sintomi neurologici (cefalea, convulsioni, visione offuscata, coma, emorragia cerebrale), papilledema, trombosi mono o pluri-distrettuale, leucostasi polmonare (dispnea, cianosi, acidosi ipossica, emorragie polmonari) e, non raramente, emorragie dal tratto gastro-enterico. La TLS è una grave complicanza, indotta o esacerbata dalla chemioterapia di induzione, caratterizzata da iperuricemia, iperpotassiemia, ipocalcemia ed insufficienza renale acuta (Montesinos P et al, 2008). Raramente, la LAM può esordire con la presenza di una massa extramidollare , denominata sarcoma granulocitico (GS). Le sedi più frequenti sono la cute, il tratto gastrointestinale, l’osso, diversi tessuti molli e i testicoli (Klco JM et al, 2011). In casi eccezionali (< 10%), si possono osservare localizzazioni multiple. La massa tumorale (Figura IV) è composta da cellule mieloidi in varia fase di differenziazione, con variabile predominanza di mieloblasti. Il sarcoma granulocitico può insorgere de novo, può precedere o manifestarsi contemporaneamente alla comparsa di LAM o può rappresentare l’evoluzione blastica di una MDS o di una malattia mieloproliferativa (Ohanian M, et al, 2013).
Figura IV. Sarcoma mieloide: localizzazione cutanea, mammaria e cerebellare.
L’età ancora oggi rappresenta il fattore prognostico più importante della LAM, in quanto la prognosi della malattia peggiora progressivamente con l’avanzare degli anni alla diagnosi. Fattori clinici e biologici contribuiscono a peggiorare l’outcome clinico della malattia nel paziente anziano. Infatti, oltre i 60 anni è più frequente la presenza di citogenetica sfavorevole e di malattia secondaria a precedente emopatia; inoltre nell’anziano è dimostrata una maggiore espressione dei geni della multiple drug resistance (MDR), che rendono le cellule leucemiche meno responsive alla chemioterapia. Dal punto di vista clinico, va sottolineata l’inferiore capacità dei pazienti anziani a sopportare gli effetti collaterali della chemioterapia, con più elevata morbidità e mortalità da terapia di induzione e consolidamento e trapianto di cellule staminali emopoietiche (Ferrara F et al, 2008; Klepin HD et al, 2013; Ferrara F et al, 2013). Inoltre, un numero non trascurabile di pazienti oltre i 70 anni (50% circa nella nostra esperienza) riceve solo terapia di supporto o idrossiurea per il controllo della leucocitosi ed in questi casi la sopravvivenza non è generalmente superiore a pochi mesi. Non vi è unanime condivisione del limite di età che definisce anziano un paziente con LAM, ma negli studi clinici di diversi gruppi cooperatori, la terapia viene stratificata a 60-65 anni. Negli ultimi anni sono stati proposti diversi indici di comorbidità, allo scopo di prevedere gli effetti tossici della chemioterapia e/o del trapianto e quindi di identificare i pazienti in grado di trarre maggiori vantaggi da diverse strategie terapeutiche (Walter RB et al, 2011; Krug U et al, 2010).
Con il progressivo decremento della mortalità in induzione, dovuto al perfezionamento della terapia di supporto, la resistenza alla terapia rappresenta la causa principale di fallimento terapeutico nella LAM. Sono state condotte numerose investigazioni allo scopo di chiarire la natura dei meccanismi alla base della resistenza dei blasti leucemici a diversi farmaci, in particolare a citarabina e antracicline. E’ noto che l’overespressione della glicoproteina p (PgP) produce resistenza alle antracicline, con un meccanismo di “pumping” del farmaco fuori dalla cellula leucemica, ancor prima della possibilità di effetto citotossico. Tale meccanismo di resistenza è particolarmente evidente nei pazienti anziani (Leith CP et al, 1997). Sono stati condotti numerosi trial allo scopo di verificare l’efficacia di farmaci inibitori della MDR con risultati scoraggianti per maggiore tossicità nel braccio sperimentale e, in alcuni casi, per l’impossibilità di somministrare terapia convenzionale a dosi adeguate, in particolare antracicline ed epipodofillotossine (van der Holt B et al, 2005; Baer MR et al, 2002; Cripe LD et al, 2010; Kolitz JE et al, 2010; Lum BL et al, 1992). I meccanismi di MDR risultano amplificati a livello di cellule staminali leucemiche, mimando l’effetto di protezione dalla chemioterapia presente nelle normali cellule staminali.
Diverse caratteristiche biologiche intrinseche delle cellule leucemiche possono predire di per sé la sensibilità alla chemioterapia. La grande importanza della citogenetica sulla risposta iniziale e sulla sopravvivenza a lungo termine furono evidenziate già agli inizi degli anni 80 e sono state recentemente confermate da numerosi trial di gruppi cooperativi (Grimwade D, Mrózek K, 2011; Fang M et al, 2011; Byrd JC et al, 2002; Grimwade D et al, 2010b; Slovak ML et al, 2000). Ad esempio, pazienti con LAM definita “core binding factor” [t(8;21), inv(16) e t (16;16)], LAM-CBF, sono particolarmente responsivi alla combinazione antracicline-ARA-C e ad alte dosi di ARA-C ed hanno una probabilità di guarigione di circa il 60% senza necessità di trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche (Byrd JC et al, 2004; Bloomfield CD et al, 2004). Al contrario, altre traslocazioni bilanciate, quali la t(6;9), le anomalie del cromosoma 3 ed il cariotipo complesso sono associati a prognosi generalmente negativa per inferiori possibilità di ottenimento di remissione completa (RC) ed elevata probabilità di recidiva (Slovak ML et al, 2006; Lugthart S et al, 2008). Il cariotipo monosomico si associa a sua volta ad outcome sfavorevole, con alto rate di recidiva anche dopo trapianto allogenico (Fang M et al, 2011). I meccanismi biologici alla base della resistenza o sensibilità alla terapia delle differenti anomalie cromosomiche restano in gran parte sconosciuti e sono oggetto di attiva investigazione. Esistono varie classificazioni prognostiche della LAM, proposte da diversi gruppi cooperativi; la più recente e adottata in gran parte d’Europa (Dohner H et al, 2017) è quella dell’European Leukemia Net (ELN) (Tabella V). Rimane comunque una considerevole varietà di outcome sia nell’ambito di categorie citogenetiche definite sia nei pazienti a cariotipo normale che costituiscono circa il 50% dell’intera casistica di LAM (Moarii M, Papaemmanuil E, 2017).
Negli ultimi anni, investigazioni a livello molecolare hanno dimostrato una più marcata eterogeneità proprio nei pazienti con LAM NK, nelle cui cellule leucemiche sono state dimostrate numerose mutazioni talora coesistenti, talora mutuamente esclusive (Medinger M, Passweg JR, 2017). Nella pratica clinica, almeno le mutazioni di nucleofosmina 1 (NPM1) e fms-tirosina-chinasi (FLT3) devono essere investigate dato il notevole impatto prognostico (favorevole per NPM1 e sfavorevole per FLT3) (Falini B et al, 2005; Gale RE et al, 2008; Schnittger S et al, 2002; Thiede C et al, 2002; Whitman SP et al, 2001).
I pazienti con mutazioni di NPM1 hanno un outcome favorevole anche con la sola chemioterapia, mentre le mutazioni di FLT3, che causano attivazione costituzionale del recettore e conseguente stimolazione della proliferazione cellulare, conferiscono una prognosi sfavorevole con un effetto negativo più marcato se tale mutazione occorre in omozigosi. Quando tali mutazioni si presentano in associazione, la presenza della mutazione di FLT3 annulla l’effetto ‘positivo’ della mutazione di NPM1, e la prognosi del paziente risulta inferiore a quella attesa in presenza di una mutazione di NPM1 con FLT3 wild type (WT) (Dohner K et al, 2005; Burnett AK et al, 2010b). Sulla base di queste evidenze, la maggior parte degli ematologi non raccomanda il trapianto allogenico in prima RC per pazienti con NPM1 mutato/FLT3 WT, mentre considera l’opzione del trapianto per quelli con mutazioni FLT3 ITD (Schlenk RF et al, 2008).
Più recentemente è stato chiaramente dimostrato che alti livelli di burden allelico delle mutazioni NPM1 e FLT3 rappresenta un ulteriore fattore di prognosi sfavorevole da considerare nella decisione trapiantologica (Pratcorona M et al, 2013; Patel SS et al, 2018; Sallman DA e Padron E, 2016; Versluis J et al, 2017). Molte altre mutazioni sono state identificate e sono elencate in Tabella VI. L’impatto prognostico di molte di queste anomalie molecolari rimane tuttora incerto, con risultati talora discrepanti riportati da gruppi diversi. Ulteriori studi ed una revisione sistematica dei dati finora accumulati sono necessari per chiarire questi aspetti. E’ interessante notare come, mentre alcune mutazioni possono essere riscontrate in associazione tra di loro, aumentando così l’eterogeneità molecolare, altre sembrano escludersi a vicenda, suggerendo che in alcuni pazienti queste possano essere “driver ” critici per lo sviluppo della malattia e pertanto potenziali target della terapia (Patel JP et al, 2012; Ley TJ et al, 2008). È probabile che, grazie alle moderne tecniche di sequenziamento genico e allo studio delle cellule staminali leucemiche più indifferenziate, vengano presto identificate nuove mutazione o profili ricorrenti di anomala espressione genica (Roboz GJ, Guzman M, 2009). Così come per le anomalie cromosomiche ricorrenti, sarà cruciale chiarire i meccanismi con cui queste alterazioni possono influenzare la risposta alla terapia, riuscendo così a sviluppare trattamenti più mirati, finanche individualizzati. Bisogna però tenere in considerazione che l’estrema eterogeneità fenotipica della LAM è anche da ascriversi ad alterazione dei profili di espressione dei microRNA (Marcucci G et al, 2011b), così come alla deregolazione di altri meccanismi epigenetici di regolazione dell’espressione genica (Oki Y, Issa JP, 2010; Melnick AM, 2010; Hackanson B et al, 2008).
Tabella V: Classificazione prognostica delle LAM secondo i criteri ELN (European Leukemia Net).
Tabella VI: Marcatori molecolari della LAM.
FLT3 è una delle mutazioni che può essere mirata farmacologicamente e un numero di inibitori sono stati oggetto di trial clinici sia di fase 2 che randomizzati (Garcia JS e Stone RM, 2017). Inibitori come midostaurina (PKC412) e lestaurtinib (CEP701) possono essere somministrati in combinazione con la chemioterapia, e varie sperimentazioni stanno valutando l’efficacia della chemioterapia standard da sola o in associazione con questi agenti in pazienti con nuova diagnosi di LAM (Knapper S, 2011). Recentemente, midostaurina ha ottenuto la registrazione FDA ed EMA in combinazione a regime 3 + 7 in pazienti con LAM con mutazione di FLT3 di età compresa tra 18 e 60 anni. Infatti, nello studio randomizzato denominato “Ratify” il braccio 3 + 7 + miodstaurina ha avuto un vantaggio in termini di sopravvivenza globale rispetto a 3+7 + placebo (Stone RM et al, 2017). Al contrario, la somministrazione di lestaurtinib in pazienti in prima recidiva non ha dimostrato alcun beneficio, forse a causa di incompleta inibizione del target per inefficienza farmacocinetica (Levis M et al, 2011). Altri inibitori FLT3 sono attualmente oggetto di investigazione, con i risultati più incoraggianti finora riportati per quizartinib (Kindler T et al, 2010; Garcia JS e Stone RM, 2017), che come agente singolo si è rilevato più efficace della terapia convenzionale di salvataggio nello studio Quantum R (Cortes JE et al, 2018).
Un fattore potenzialmente molto utile nella pratica clinica è la valutazione precoce della percentuale di blasti midollari dopo la somministrazione della chemioterapia di induzione. E’ stato dimostrato che un valore soglia del 10% al giorno 14-15 dall’inizio della chemioterapia ha un importante valore prognostico (Kern W et al, 2003). La rapidità con cui i blasti vengono eliminati dal midollo osseo in risposta al primo ciclo di chemioterapia rappresenta una chiara indicazione della chemiosensibilità o chemioresistenza e pazienti in cui non si riesca ad ottenere rapidamente l’azzeramento della conta blastica midollare avranno una prognosi peggiore anche qualora la remissione venga successivamente ottenuta (Arellano M et al, 2012). I dati derivanti dall’analisi morfologica della percentuale di blasti midollari ottenuta da diversi investigatori sono stati confermati dalla quantificazione citometrica della conta precoce dei blasti (Gianfaldoni G et al, 2006). Inoltre, vi è una chiara correlazione tra la conta morfologica dei blasti dopo il primo ciclo di chemioterapia e la categoria di rischio citogenetica e/o molecolare (Schneider F et al, 2009). La combinazione di citogenetica e valutazione midollare morfologica o citometrica al giorno 15-16 potrebbe essere particolarmente utile nei pazienti con cariotipo intermedio nei quali la valutazione della prognosi risulta attualmente difficile, soprattutto nelle situazioni in cui la valutazione dello stato mutazionale di FLT3 e NPM1 non siano disponibili di routine.
Ci sono stati importanti miglioramenti nella terapia di supporto per la LAM. Questi comprendono la maggiore disponibilità di concentrati piastrinici di alta qualità, l’utilizzo di antibiotici ad ampio spettro e di antivirali più efficaci e meno tossici, la virtuale eliminazione del rischio di epatite post-trasfusionale, ed infine l’introduzione di nuovi farmaci antifungini a sostituire nella maggior parte dei casi l’amfotericina B in modo da evitare ai pazienti disturbi quali le febbri e la disfunzione renale che spesso si accompagnavano al trattamento con questo farmaco. Forse meno apprezzati sono i benefici effetti dovuti al miglioramento della terapia antiemetica, con conseguente riduzione dello sviluppo di esofagite erosiva ed inanizione secondari alla scarsa nutrizione. La mortalità al giorno +30 dei pazienti anziani arruolati in studi clinici che prevedono chemioterapia intensiva è oggi inferiore al 10%, cosa dovuta soprattutto al miglioramento della terapia di supporto, anche se va sottolineato che i pazienti arruolati negli studi clinici rappresentano una popolazione altamente selezionata. Un approccio pratico alla gestione della LAM è riassunto nella Figura V.
Figura V: Approccio pratico alla terapia della LAM
Il trattamento convenzionale della LAM prevede due fasi: l’induzione e il consolidamento (quest’ultimo include il trapianto di cellule staminali). La terapia di induzione mira all’ottenimento della remissione completa (RC), quella di consolidamento all’eliminazione delle cellule leucemiche residue che persistono nel paziente dopo l’induzione. La RC è definita da percentuale di blasti nel midollo osseo inferiore al 5% con midollo osseo normocellulare, assenza di leucemia extramidollare, neutrofili superiori a 1,000/uL e piastrine superiori a 100,000/uL (Cheson BD et al, 2003). In più, il paziente dovrebbe aver ottenuto la trasfusione indipendenza. Tali criteri di RC morfologica rappresentano a tutt’oggi la attuale definizione standard di risposta all’induzione nella pratica clinica. Tuttavia, tecniche più sensibili quali la citometria a flusso e la PCR sono in grado di rilevare quantità molto più basse di residuo leucemico rispetto al microscopio ottico per cui le definizioni di RC continueranno a essere aggiornate e vengono già ampiamente considerate nel contesto di studi clinici (Buccisano F et al, 2012; Rubnitz JE et al, 2010b). Altra metodica emergente nella determinazione della malattia residua minima (MDR) è quella del Next Generation Sequencing, che può senz’altro fornire informazioni addizionali rispetto alla citometria, ma necessita di definitiva standardizzazione prima dell’impiego clinico routinario (Tomlinson B e Lazarus HM, 2017). Infine, studi recenti suggeriscono che la clearance mutazionale può rappresentare un ulteriore importante parametro prognostico per la terapia post-remissione/consolidamento (Jongen-Lavrencic M et al, 2018; Morita K et al, 2018; Klco JM et al, 2015). Dopo l’induzione, alcuni pazienti possono ottenere la riduzione dei blasti midollari al di sotto del 5% senza tuttavia raggiungere valori di neutrofili > 1,000/uL e/o di piastrine > 100,000/uL. In questi casi la risposta viene definita come RCi (RC con incompleto recupero ematologico) e l’esito finale è generalmente peggiore rispetto ai pazienti che ottengono la RC (Walter RB et al, 2010).
A più di 30 anni dalla sua introduzione (Yates JW et al, 1973), la combinazione di un’antraciclina, di solito la daunorubicina, somministrata per 3 giorni, con l’ARA-C in infusione continua per 7 giorni (3+7) ancora rappresenta lo standard nella terapia di induzione della LAM con percentuali di RC ~70% nei pazienti con età inferiore ai 60 anni. Sono stati eseguiti numerosi studi che miravano al miglioramento della percentuale e della qualità delle RC, incluso l’utilizzo di un’antraciclina diversa dalla daunorubicina (idarubicina e mitoxantrone), l’aggiunta di un terzo farmaco (più spesso l’etoposide), l’utilizzo di ARA-C ad alte dosi invece che a dosi convenzionali, l’uso dei fattori di crescita granulocitari come G-CSF e GM-CSF, e la combinazione dell’antraciclina con fludarabina o cladribina e dosi intermedie di ARA-C (Yates JW et al, 1973; Arlin Z et al, 1990; Berman E et al, 1991; Wiernik PH et al, 1992; Bishop JF et al, 1996; Estey EH et al, 2001; Appelbaum FR, 2012). Nel complesso, i risultati sono stati insoddisfacenti poiché non sono riusciti a dimostrare rilevanti miglioramenti dell’outcome, sebbene un trial del Polish Adult Leukemia Group abbia mostrato un certo aumento della percentuale di RC ed un possibile miglioramento della sopravvivenza totale dopo l’aggiunta di cladribina a daunorubicina (60 mg/m2) e ARA-C in adulti con età < 60 anni; non vi era invece beneficio nell’aggiungere fludarabina al 3+7 (Holowiecki J et al, 2012). La maggiore differenza è stata osservata in pazienti con età superiore ai 50 anni ed in quelli con cariotipo sfavorevole e sarà molto importante verificare se tali risultati potranno essere riprodotti, anche in pazienti più anziani. È ipotizzabile, sebbene tutto da dimostrare, che il beneficio di tali manipolazioni potranno essere limitati a sottogruppi di LAM geneticamente distinti, che negli studi clinici del passato non potevano essere valutati. Come esempio, uno studio del gruppo britannico del MRC AML ha dimostrato che l’aggiunta alla chemioterapia del gemtuzumab-ozogamycin (GO), un anticorpo monoclonale anti-CD33 coniugato con la calicheamicina (un antibiotico antineoplastico citotossico), determina importanti benefici clinici nei pazienti con CBF-LAM, e possibili vantaggi in quelli con cariotipo intermedio (Burnett AK et al, 2011b). Due ulteriori studi in pazienti anziani con LAM hanno dimostrato un vantaggio di sopravvivenza per il braccio trattato con GO nei soggetti con cariotipo intermedio ma non sfavorevole (Castaigne S et al, 2012; Burnett AK et al, 2012b). Un importante fattore di ostacolo alla possibilità di stratificazione dei pazienti per differenti caratteristiche biologiche quando si utilizzino nuovi farmaci nella fase di induzione è che la diagnosi di LAM è generalmente considerata una emergenza medica che richiede un intervento terapeutico immediato. Tuttavia, escludendo i pazienti che presentino iperleucocitosi, nei quali la leucoaferesi e/o la somministrazione di idrossiurea vanno tenuti in considerazione, molti gruppi di studio hanno dimostrato che è fattibile la selezione di specifiche terapie di induzione a seconda del sottotipo molecolare, la qual cosa potrebbe diventare nell’immediato futuro uno standard nei trial clinici e nella daily practice.
Studi clinici anche piuttosto recenti sono stati rivolti alla ricerca della dose ottimale di daunorubicina in induzione. Uno studio USA in pazienti giovani ha prospettato un vantaggio della dose di 90 mg/m2 rispetto 45 mg/m2, in particolare nell’eterogeneo gruppo del cariotipo a rischio intermedio (Fernandez HF et al, 2009). Questo studio è stato criticato perché il braccio di controllo aveva ottenuto un insolitamente basso (54%) tasso di RC, tuttavia, poiché la tossicità era sovrapponibile nei due bracci, molte istituzioni hanno adottato la dose di 90 mg/m2, sebbene altri ritengano che al di fuori di studi clinici, la dose di 60 mg/m2 per tre giorni potrebbe essere ragionevole (Murphy T e Yee KWL, 2017). Uno studio disegnato in maniera simile ha mostrato che la dose di 90 mg/m2 è ben tollerata e forse leggermente più efficace anche nei pazienti anziani (Lowenberg B et al, 2009). Tutti questi studi in qualche modo complicano la valutazione dei vecchi trial che utilizzavano il vecchio “standard” di 45 mg/m2 nel braccio di controllo.
Infine, alcuni gruppi utilizzano la cosiddetta “doppia induzione”, in cui è previsto un secondo ciclo di induzione al giorno +14 di terapia, indipendentemente dallo stato del midollo osseo (Buchner T et al, 2006; Ferrara F et al 2010). Questo tipo di approccio si basa sulla valutazione clinica circa l’eleggibilità del paziente alla seconda induzione, poiché virtualmente tutti i pazienti in quella fase sono gravemente pancitopenici e potrebbero essere presenti febbre e/o infezioni. Tuttavia, è stato dimostrato che ~ 80% dei pazienti giovani può tollerare questo approccio e potrebbe essere ragionevole progettare uno studio che valuti la doppia induzione in particolare in quei pazienti che mostrino persistenza di leucemia (blasti midollari superiori al 10%) dopo rivalutazione morfologica e/o mediante citometria a flusso.
Dopo l’ottenimento della RC, tutti i pazienti sono destinati a recidivare se non trattati con ulteriore terapia (Rowe JM, 2010). Per tale motivo, la somministrazione della terapia di consolidamento è mandatoria, in tutti i pazienti che hanno una adeguata funzione d’organo, con lo scopo finale della guarigione dalla LAM. Nel 1994, il gruppo cooperativo CALGB ha randomizzato 596 pazienti a ricevere 4 cicli di alte dosi di ARA-C (HDARA–C 3 g/m2 ogni dodici ore per tre giorni) contro 4 cicli di dosi di ARA-C intermedie (400 mg/m2) o standard (100 mg/m2) (Mayer RJ et al, 1994). Un vantaggio di sopravvivenza è stato dimostrato per i pazienti con età fino a 60 anni che avevano ricevuto HDARA-C, con sopravvivenza libera da malattia a lungo termine di ~45%. Le analisi successive hanno poi dimostrato che i maggiori benefici clinici venivano ottenuti nei pazienti con citogenetica favorevole, al contrario di quelli con carotino avverso (Bloomfield CD et al, 1998). Simili percentuali di sopravvivenza globale sono riportati da diversi gruppi cooperativi dopo l’utilizzo di regimi con HDARA-C con dosi variabili, a volte con l’aggiunta di un altro farmaco (Moore JO et al, 2005). La dose e il numero di cicli ottimali di HDARA-C non è stato ancora stabilito in maniera definitiva, sebbene dati recenti dimostrino che tre cicli con dosi inferiori di ARA-C (1,5 g/m2) riducano la tossicità senza peggiorare l’outcome terapeutico, suggerendo che questa schedula sia quella più ragionevole nella pratica clinica.
Studi clinici e dati di registro hanno fornito prove convincenti che il trapianto allogenico di cellule staminali (allo-SCT) determini percentuali di recidiva molto inferiori rispetto al trapianto autologo (auto-SCT) ed alla chemioterapia, grazie al cosiddetto effetto graft-versus-leukemia (GVL). Tuttavia, l’allo-SCT ha una mortalità collegata al trattamento del 10-25% a causa della graft-versus-host disease ed è inoltre gravato ancora oggi da notevoli effetti avversi sulla qualità di vita del paziente, tanto che studi randomizzati non sono riusciti a dimostrare un vantaggio di sopravvivenza dopo allo-SCT nella popolazione globale di pazienti con LAM (Cassileth PA et al, 1998; Zittoun RA et al, 1995; Burnett AK et al, 2002). D’altro canto, la maggior parte di questi studi era basata sul confronto tra pazienti con disponibilità di donatore familiare compatibile vs. assenza di donatore, una metodologia che non è priva di problemi, considerando anche l’aumentato uso di altri tipi di donatore (donatori compatibili non familiari, donatori mismatched, e cordone ombelicale). Inoltre, va considerato che morbidità e mortalità post allo-SCT sono in riduzione in tutti questi setting (Gooley TA et al, 2010).
Attualmente, la ricerca clinica si sta concentrando sull’identificazione di quei sottogruppi di pazienti a prognosi particolarmente sfavorevole con la sola chemioterapia, i quali potrebbero trarre i maggiori vantaggi dall’allo-SCT, utilizzando familiari compatibili o donatori alternativi. Allo stato, è appropriato considerare l’allo-SCT nei pazienti con cariotipo intermedio, con l’eccezione di quelli con mutazione NPM1 in assenza della mutazione FLT3, in quelli con mutazioni FLT3 ITD, e in quelli con cariotipo sfavorevole (Burnett AK, Hills RK, 2011). Al contrario, i pazienti con LAM CBF dovrebbero essere sottoposti a consolidamento con HDARA-C, eccetto quelli con mutazioni KIT addizionali, che potrebbero essere tenuti in considerazione per allo-SCT, sebbene ci siano ancora controversie sull’impatto negativo delle mutazioni KIT, almeno nei bambini e nei giovani adulti (Paschka P et al, 2006; Pollard JA et al, 2010). Non vi sono, in ogni caso, dati da studi randomizzati o prospettici che supportino queste raccomandazioni, e va inoltre sottolineato come le percentuali di recidiva post allo-SCT siano approssimativamente il doppio nei pazienti con FLT3+ rispetto a quelli con FLT- (Brunet S et al, 2012), e siano più alte anche nei pazienti con cariotipo sfavorevole o in quelli trapiantati con malattia minima residua significativa (Middeke JM et al, 2012; Walter RB et al, 2011b).
Negli ultimi 20 anni, sono stati sviluppati numerosi cicli di condizionamento ad intensità ridotta (RIC), miranti alla induzione della GVL con limitazione della tossicità non ematologica. Nel complesso, il RIC ha allargato il numero di pazienti eleggibili all’allo-SCT a quelli precedentemente esclusi a causa dell’età o delle comorbidità. Risultati incoraggianti sono stati ottenuti per quel che riguarda la riduzione della mortalità, sebbene alcuni dati suggeriscano un maggiore tasso di recidive rispetto ai protocolli di condizionamento standard (Shimoni A, Nagler A, 2011; Hamadani M et al, 2011). Non sono disponibili criteri certi per la selezione dei pazienti da sottoporre a RIC, ma i fattori da considerare sono in genere l’età anziana e la presenza di rilevanti tossicità accumulate durante l’induzione e/o il consolidamento.
Il ruolo della terapia ad alte dosi seguita da supporto autologo è meno chiaro, e tale procedura è sicuramente più popolare in Europa rispetto agli USA. Studi randomizzati che confrontavano auto-SCT vs HD-ARAC hanno mostrato risultati comparabili, forse anche a causa di reinfusione di cellule leucemiche nel trapianto. I dati nei pazienti con malattia minima residua negativa sono molto incoraggianti, ed in ogni caso l’auto-SCT rappresenta un’importante campo di investigazione sia per quel che riguarda nuovi regimi di condizionamento, sia eventuali terapie di mantenimento post-trapianto. Infine, sono in corso tentativi di capire quali siano i sottogruppi di pazienti che possano maggiormente beneficiare dell’approccio autotrapiantologico, in modo da introdurre una strategia di consolidamento ancora più individualizzata (Ferrara F, 2012b).
Attualmente, la percentuale di RC nei giovani adulti è del 75-80%, con percentuali di guarigione pari al 40-45% (Ferrara F, Schiffer CA, 2013). Le questioni più rilevanti sulla terapia della LAM sono riassunte nella Tabella VII.
Tabella VII: Argomenti di rilievo nella terapia della leucemia mieloide acuta nei pazienti adulti.
Più della metà dei pazienti affetti da LAM hanno più di 65 anni, e circa un terzo più di 75 anni. Nella grande maggioranza dei casi la LAM dell’anziano ha una prognosi insoddisfacente; la terapia di induzione convenzionale determina percentuali di RC pari al 45-55%, e meno del 10% dei pazienti trattati con terapia aggressiva sono vivi a 5 anni; è da sottolineare che per decenni non c’è stato nessun miglioramento di questi risultati (Burnett AK, 2013). Inoltre va considerato che questi risultati derivano da studi multicentrici basati su terapia intensiva utilizzata con lo scopo di ottenere la RC e non tengono in considerazione la considerevole percentuale di pazienti anziani con LAM trattati solo con supporto (BSC, best supportive care) e idrossiurea al bisogno per il controllo della leucocitosi nel sangue periferico (Ferrara F, 2011). Questi risultati negativi sono dovuti a diversi fattori tra cui le concomitanti comorbidità, che peggiorano la tossicità della chemioterapia e del trapianto o ne controindicano il loro utilizzo, e la maggiore incidenza di caratteristiche biologiche negative come la citogenetica sfavorevole o la secondarietà della LAM a precedenti malattie emopoietiche (a volte non precedentemente diagnosticate), in particolare le mielodisplasie. Una conseguenza di ciò è che un problema frequente nella pratica quotidiana è il riconoscimento di quali pazienti anziani possano tollerare la terapia aggressiva e quindi derivarne un beneficio qualora la RC venga ottenuta. Score prognostici, basati su fattori clinici e biologici, sono in corso di definizione con lo scopo di aiutare lo specialista ad informare il paziente su rischi e benefici delle diverse opzioni terapeutiche (Ferrara F et al, 2013; Walter RB et al, 2011; Krug U et al, 2010). Nonostante ciò, questo argomento conserva notevoli difficoltà, a volte a causa delle aspettative troppo ottimistiche del paziente e dei suoi familiari, a volte per il motivo opposto (reazioni troppo pessimistiche una volta venuti a conoscenza dei possibili effetti collaterali e/o della necessità di ricovero ospedaliero). Le opzioni terapeutiche attualmente disponibili nei pazienti anziani con LAM sono riassunte nella Tabella VIII.
Tabella VIII: Opzioni terapeutiche nei pazienti anziani con LAM.
In generale, l’approccio più frequente è quello di eseguire una induzione con il “3+7” o una delle sue varianti nella maggior parte dei pazienti ritenuti clinicamente idonei, ricordando che alcune anomalie cromosomiche (cariotipo complesso o monosomie) sono associate a percentuali di RC inferiori al 30%. Come detto, le percentuali di RC sono inferiori a quelle del giovane adulto (in genere 50-55%), ma quei pazienti che riescono ad ottenere la RC ne derivano un reale beneficio clinico con un potenziale di molti mesi di una normale emopoiesi e un ritorno al performance status pre-malattia. Un ampio studio in pazienti con LAM > 60 anni ha evidenziato migliori risultati quando si utilizzava una dose di 90 mg/m2, in particolare nei pazienti di età 60-65 anni e in quella piccola percentuale (5%) con LAM CBF (Lowenberg B et al, 2009). Più recentemente, due studi randomizzati hanno valutato i risultati di GO in aggiunta alla chemioterapia nei pazienti anziani. Lo studio francese aggiungeva una dose frazionata di GO (3 mg/m2/d nei giorni 1, 4 e 7) alla chemioterapia standard ed otteneva in pazienti di età 50-70 anni una sopravvivenza libera da eventi significativamente migliore e una sopravvivenza totale anch’essa migliore, anche se meno evidente (Castaigne S et al, 2012). Lo studio britannico AML16 somministrava il GO a 3mg/m2 il giorno 1 della terapia di induzione, dimostrando che l’aggiunta di GO determinava un piccolo ma statisticamente significativo vantaggio in termini di sopravvivenza totale senza importanti incrementi della tossicità (Burnett AK et al, 2012b). Da notare come in nessuno dei due studi è stato dimostrato vantaggio con l’utilizzo di GO nei pazienti con citogenetica sfavorevole. Il GO al momento non è più disponibile, ma se fosse “resuscitato” potrebbe essere rilevante eseguire ulteriori studi su dose, schedula, ed effetti nei diversi sottogruppi di pazienti.
Il ruolo del consolidamento nei pazienti anziani è meno chiaro rispetto ai giovani, e il CALGB ha dimostrato che, con la possibile eccezione della piccola porzione di pazienti anziani con LAM-CBF, le alte dosi di ARA-C non aumentano la sopravvivenza e sono improponibili in oltre il 60-65% dei pazienti (Mayer RJ et al, 1994; Stone RM et al, 2001). Poiché non c’è ancora accordo su quale possa essere il consolidamento standard per i pazienti anziani, le scelte potrebbero ricadere su uno o due cicli di ARA-C a dosi intermedie oppure qualche altra chemioterapia di combinazione. Uno studio randomizzato di fase 3 condotto dal gruppo francese ALFA, inteso a valutare i benefici della chemioterapia di consolidamento ad alte dosi vs cicli ambulatoriali di chemioterapia a basse dosi, suggerisce che multipli cicli a bassa intensità possano essere equivalenti, se non addirittura superiori, a pochi cicli a dosi più alte (Gardin C et al, 2007).
I regimi di condizionamento a intensità ridotta (RIC) permettono ad una parte dei pazienti anziani di essere sottoposti al trapianto allogenico, ed alcuni studi hanno ottenuto risultati sovrapponibili a quelli nei pazienti giovani in termini di sopravvivenza e tossicità. Tuttavia, poiché è probabile che solo i “migliori” pazienti anziani siano stati considerati per il RIC, questi risultati possono non essere applicabili alla grande maggioranza di pazienti anziani in RC1. Per studiare il problema in maniera prospettica, due studi hanno esplorato la fattibilità del trapianto allogenico in grosse coorti consecutive di pazienti anziani con LAM. In entrambi gli studi il trapianto poteva essere eseguito solo nel 5% dei pazienti (Lowenberg B et al, 2009). Tra le difficoltà incontrate vi erano: mancato ottenimento della RC, tossicità post induzione/consolidamento, difficoltà nell’identificazione del donatore (germani di età avanzata), e recidiva precoce. Il trapianto autologo, utilizzando cellule staminali periferiche, è fattibile nel paziente anziano, ma è utilizzato raramente, ed alcuni ritengono spesso difficile mobilizzare un adeguato numero di cellule staminali per il trapianto (Ferrara F et al, 2006).
Da un punto di vista generale, in oncologia il termine “unfit” si riferisce ai pazienti anziani affetti da neoplasie maligne che non sono trattabili con terapia standard e che di conseguenza necessitano di un trattamento attenuato o modificato o anche che non possono essere trattati con alcun approccio terapeutico mirante all’alterazione della storia naturale della malattia (Ferrara F, 2011). Parlando in particolare della LAM, questa definizione include l’esistenza di due categorie mal definite, e cioè quella in cui un trattamento attenuato mirante alla RC e/o al controllo della malattia può essere proposto ed eseguito e quella in cui non è può essere utilizzato niente più che BSC e/o idrossiurea. Quest’ultima comprende la grande maggioranza dei pazienti con età superiore agli 80 anni, indipendentemente dal performance status (PS) e dalle comorbidità; la prima è quasi esclusivamente limitata al range di età tra 70 e 80 anni, in cui però ci sono grossi elementi di incertezza e l’atteggiamento del singolo ematologo svolge un ruolo molto importante.
Le basse dosi di ARA-C (LDARA-C) sono state per molti anni il prototipo di terapia attenuata che comunque mira all’ottenimento della RC. Dati precedenti dimostravano che LDARA-C sono in grado di indurre la RC in circa il 20% dei pazienti anziani (Ferrara F, 2011); malgrado ciò, la tossicità ematologica di questo approccio è significativa ed in molti pazienti si osserva una prolungata pancitopenia. L’unico studio randomizzato con LDARA-C presente in letteratura specificamente disegnato per pazienti con LAM considerati non eleggibili a chemioterapia intensiva è stato condotto da Burnett e coll. (Burnett AK et al, 2007). Nel complesso, il trattamento con LDARA-C è stato superiore al BSC con 13 su 71 pazienti (18%) capaci di ottenere la RC, contro uno solo del braccio idrossiurea; in più, la sopravvivenza è stata significativamente più lunga nel braccio LDARA-C. Da notare che nessun vantaggio di sopravvivenza è stato registrato nel braccio dei pazienti con cariotipo sfavorevole e in più i risultati fanno credere che i pazienti con cattivo PS non abbiano beneficiato dal trattamento. A seguito di questo studio, il gruppo cooperativo UK MRC ha ideato uno studio “scegli il vincitore” (pick the winner) in cui comparare in maniera randomizzata diversi trattamenti combinati con LDARA-C. Basandosi su analisi ad interim eseguita da un comitato indipendente di monitoraggio dei dati, solo quelle terapie che avevano un’alta probabilità di raddoppiare le percentuali di risposta e perciò di determinare un miglioramento della sopravvivenza sarebbero state ancora perseguite (Hills RK, Burnett AK, 2011). 166 pazienti anziani con LAM, considerati unfit per la chemioterapia convenzionale, sono stati randomizzati a ricevere LDARAC vs LDARAC combinato con triossido di arsenico (ATO) 0,25 mg/kg nei giorni 1-5, 9-11, per almeno quattro cicli ogni 4-6 settimane (Burnett AK et al, 2011c). Il trial è stato interrotto visto che non è stato osservato il beneficio atteso (non si erano registrate differenze di percentuali di risposta o di durata della sopravvivenza, mentre si erano osservate un maggior numero di tossicità cardiache ed epatiche grado 3 o 4 e più intensiva terapia di supporto nel braccio ATO). In un successivo studio, lo stesso gruppo ha studiato la combinazione di LDARA-C con il tipifarnib, un inibitore delle farnesiltransferasi, comparandola con LDARA-C, ed eseguendo una valutazione iniziale dopo 100 pazienti (Burnett AK et al, 2012c). Il tipifarnib è un inibitore dell’enzima farnesiltransferasi selettivo, non peptidomimetico, assunto per via orale, che è stato precedentemente sperimentato in una ampia gamma di tumori solidi ed emopatie maligne, con attività tumorale osservata in numerosi tipi di neoplasie, incluse SMD e LAM (Tsimberidou AM et al, 2010). Dopo aver rivalutato i primi 45 pazienti, si è concluso che il tipifarnib non aveva effetto su risposta, tossicità e sopravvivenza, e lo studio è stato interrotto. LDARA-C è stato comparato anche alla combinazione di LDARA-C con GO, alla dose di 5 mg al giorno 1 di ogni ciclo di LDARA-C, sempre allo scopo di migliorare la percentuale di remissione e quindi la sopravvivenza (Burnett AK et al, 2013b). L’aggiunta di GO ha significativamente aumentato le remissioni (30% vs 17%), ma non la sopravvivenza a 12 mesi (25% vs 27%). Le ragioni per cui il beneficio dopo l’induzione non era riuscito a migliorare la sopravvivenza sono due: nel braccio LDARA-C, sia la sopravvivenza dei pazienti che non ottenevano la RC sia la sopravvivenza dopo la recidiva erano superiori. Infine, la clofarabina (CLO), un nuovo analogo delle purine, alla dose di 20 mg/mq, è stato confrontato a LDARA-C, entrambi per 4 cicli, ed ai pazienti che ne derivavano un beneficio veniva consentito di proseguire. CLO ha dimostrato di raddoppiare la percentuale di RC rispetto a LDARA-C (38% vs 20%), ma non di migliorare la sopravvivenza, in nessuno dei sottogruppi demografici o di rischio analizzati (Burnett AK et al, 2013c).
In uno studio di fase 3, multicentrico ed in aperto, l’efficacia e la sicurezza di tipifarnib è stata valutata confrontandola con BSC e/o idrossiurea, utilizzandola come prima linea in pazienti di età uguale o superiore ai 70 anni con LAM di nuova diagnosi, de novo o secondaria (Harousseau JL et al, 2009). La sopravvivenza è stata paragonabile, benché le percentuali di RC fossero suoeriori nel braccio tipifarnib. La mediana della durata di CR è stata di 8 mesi. I più frequenti eventi avversi di grado 3 e 4 sono state le citopenie in tutti e due i bracci, mentre un maggior numero di infezioni (39% vs 33%) e di neutropenie febbrili (16% vs 10%) sono state osservate nel braccio tipifarnib.
Nelle leucemie, le principali alterazioni della metilazione del DNA sono rappresentate dalla ipermetilazione di differenti geni. La ipermetilazione reprime la trascrizione di regioni promoter di geni “tumor suppressor” e conduce quindi al silenziamento del gene. Questa variazione è reversibile, facendone quindi un potenziale bersaglio terapeutico (Kwa FA et al, 2011; Boultwood J, Wainscoat JS, 2007). Farmaci inibitori della metiltranferasi come la azacitidina (AZA) e la decitabina (DAC) si sono dimostrati clinicamente attivi in pazienti con SMD e LAM e sono attualmente di largo utilizzo nella pratica quotidiana (Thomas X, 2012). Sia AZA che DAC inducono la ipometilazione genica, ma questo fatto non è stato consistentemente correlato con la riespressione del gene suppressor precedentemente metilato e silenziato, in quanto il trattamento è associato con un danneggiamento del DNA e potrebbe anche funzionare come agente a basso livello di citotossicità. E’ da notare poi che, sebbene i due farmaci condividano diversi meccanismi di azione sui marker di attività DNA-mediati, sono stati evidenziati differenti effetti su sopravvivenza cellulare, sintesi proteica, ciclo cellulare ed espressione genica (Hollenbach PW et al, 2010). Al contrario della chemioterapia citotossica convenzionale, l’utilizzo degli agenti ipometilanti consente la possibilità di un controllo della malattia senza necessariamente ottenere la RC in una popolazione di pazienti altrimenti candidata alla sola BSC (Ferrara F, 2013). In uno studio multicentrico di fase 2, 55 pazienti (età mediana 74 anni) sono stati trattati con una mediana di 3 cicli (range: 1-25) di DAC (Cashen AF et al, 2010). La risposta globale è stata del 25% (RC: 24%) ed era sovrapponibile nei diversi sottogruppi, compresi i pazienti con cariotipo sfavorevole e quelli con precedente SMD. La sopravvivenza globale (OS) mediana era di 7,7 mesi, e la mortalità a 30 giorni del 7%. Altri risultati promettenti sono stati riportati adottando una schedula alternativa di DAC (20 mg/m2 iv in infusione di 1 ora giorni 1 a 10) in una serie di 53 pazienti con LAM con età mediana di 74 anni (Blum W et al, 2010). Uno straordinario risultato in termini di RC (47%) è stato ottenuto dopo tre cicli di terapia. In questo studio più alti livelli di miR-29b erano associati con la risposta clinica (p = 0,02). Più recentemente, Kantarjan e coll. (Kantarjian HM et al, 2012) hanno valutato i potenziali vantaggi terapeutici di DAC rispetto alla cosiddetta “migliore scelta terapeutica” (TC, treatment choice) nei pazienti anziani con LAM. In questo studio, il braccio TC includeva LDARA-C e BSC. Nel complesso, i risultati di questo trial hanno evidenziato una maggiore attività di DAC vs TC (RC 17,8% per DAC contro 7,8% per TC), con possibile vantaggio di sopravvivenza in assenza di importanti differenze in termini di tossicità. Infine, in un ulteriore studio di fase 2 (Lübbert M et al, 2012), DAC è stata somministrata in 227 pazienti con LAM anziani (età mediana 72 anni) ad una dose totale iniziale di di 135 mg/m2, con infusione endovenosa di 72 ore ogni 6 settimane. Solo 52 pazienti, che avevano completato quattro cicli di terapia, sono stati successivamente sottoposti ad una mediana di cinque cicli di mantenimento con una dose di 20 mg/m2. La risposta globale (RC + risposta parziale) è stata del 26%, con risposte ottenute anche in pazienti con citogenetica sfavorevole, incluse le monosomie. Tuttavia, la OS mediana dall’inizio della terapia è stata di 5,5 mesi (range 0-57.5) e la sopravvivenza ad 1 anno del 28%. La tossicità è stata prevalentemente ematologica. Lo studio registrativo su AZA di Fenaux e coll. era stato inizialmente concepito per pazienti classificati come SMD ad alto rischio e non come LAM (Fenaux P et al, 2010). In un’analisi successiva, un terzo dei pazienti (n: 113) è stato riclassificato come LAM seguendo la corrente classificazione WHO (percentuale di blasti midollari 20-30%), e in questi pazienti i risultati di AZA sono stati comparati con i regimi convenzionali (CCR), avendo come obiettivo principale la sopravvivenza globale. Da notare che la CCR comprendeva tre strategie terapeutiche per LAM completamente diverse tra loro, e cioè BSC, LDARA-C e chemioterapia intensiva. A una mediana di follow up di 20,1 mesi, la OS mediana per i pazienti trattati con AZA era di 24,5 mesi comparata ai 16 mesi dei pazienti CCR, e la sopravvivenza a 2 anni del 50% e 16%, rispettivamente. Le percentuali di OS erano più alte nel braccio AZA vs CCR nei pazienti considerati non eleggibili per chemioterapia intensiva. In più, AZA era associata a minore tempo di ospedalizzazione rispetto a CCR. Le tossicità più comuni sono state la mielosoppressione, la neutropenia febbrile, e la fatigue. Nel complesso, le percentuali di risposta globale (e in particolare di RC) sembrano essere superiori con DAC rispetto ad AZA in pazienti anziani con LAM (Quintás-Cardama A et al, 2012); nonostante ciò, i dati di sopravvivenza con DAC sono peggiori in tutti gli studi se paragonati con lo studio di Fenaux con AZA, nel quale una selezione favorevole di pazienti (malattia ipoproliferativa, età inferiore a 70 anni, rarità di citogenetica ad alto rischio) ha determinato risultati insolitamente favorevoli. A questo riguardo, andrebbe sottolineato che i dati con AZA ricavati dai programmi di uso compassionevole o dalle survey nazionali evidenziano dati significativamente peggiori (Ramos F et al, 2012; Maurillo L et al, 2012; Ozbalak M et al, 2012). Uno studio recente (Dombret et al. PUbMed 2015), nel quale ancora una volta AZA è stata paragonata a BSC, LDARA-C e chemioterapia intensiva in pazienti con percentuale di blasti midollari > 30 % ha comunque dimostrato vantaggio in termini di sopravvivenza rispetto a BSC e LDARA-C, ma non verso chemioterapia e ciò ha condotto alla registrazione del farmaco anche in pazienti con blastosi midollare > 30%. E’ da rilevare che in questo studio venivano esclusi pazienti con iperleucocitosi, per cui nella pratica clinica DAC viene generalmente preferita nelle forme più aggressive e/o iperleucocitarie. Un confronto tra AZA e DAC sarebbe comunque auspicabile e necessario. In generale, i dati che suggeriscono vantaggi di sopravvivenza in assenza di RC sono sicuramente stimolanti e suggeriscono la presenza di meccanismi alternativi di controllo della malattia rispetto all’approccio convenzionale, ma richiedono comunque una attenta e definitiva conferma con nuovi studi più ampi (Ferrara F, 2016). Inoltre, una reale superiorità rispetto alla chemioterapia intensiva deve ancora essere dimostrata in maniera definitiva. Ci si attende comunque che la terapia epigenetica diventi ancora più sofisticata nel prossimo futuro riuscendo ad agire con meccanismi più mirati (Pollyea DA et al, 2012). Un modello prognostico di metilazione, basato sulla combinazione di 10 geni e validato in campioni indipendenti di pazienti da due studi consecutivi, è stato descritto come potenzialmente in grado di predire sia la sopravvivenza totale che quella libera da progressione in pazienti con SMD. E’ interessante notare come la metilazione basale non predica la risposta a DAC, mentre la ipometilazione post terapia sia associata alla risposta clinica (Shen L et al, 2010). Inoltre, la formulazione orale di AZA, che ha dimostrato attività biologica e clinica in pazienti con SMD e LAM, potrebbe determinare un suo più facile e, quindi, più frequente utilizzo nei pazienti anziani con LAM (Garcia-Manero G et al, 2011). Gli ipometilanti, infine, possono costituire la base per studi di combinazione con farmaci sperimentali e a tale riguardo va ricordato come l’associazione con venetoclax in pazienti anziani di prima diagnosi ha già dato risultati estremamente promettenti. Pur mostrando minore tossicità rispetto alla chemioterapia convenzionale, DAC e AZA come del resto LDARA-C, sono da evitare in pazienti estremamente fragili per severe comorbidità, che restano candidati ad esclusiva terapia di supporto (Ferrara F, 2013).
La recidiva della LAM dopo l’ottenimento della RC rappresenta ancora il maggior ostacolo da superare quando l’obiettivo da ottenere è la guarigione della malattia (vedi Approfondimento ). E’ possibile distinguere differenti pattern di recidiva, tra cui quella ematologica (la più frequente), quella extramidollare e quella molecolare (Ferrara F et al, 2004c; Rashidi A et al, 2018; Schlenk RA et al, 2017). Quest’ultima necessita di terapia nella leucemia acuta promielocitica poiché, se non trattata, è invariabilmente seguita dalla recidiva ematologica (Sanz MA, Lo-Coco F, 2011). Così come alla diagnosi, un certo numero di fattori prognostici vengono utilizzati per predire l’outcome finale dei pazienti recidivati. In particolare, i fattori più importanti per prevedere una bassa percentuale di seconda RC e di sopravvivenza sono: età, citogenetica all’esordio, durata della prima RC inferiore ai 12-18 mesi, e precedente trapianto di cellule staminali (Breems DA et al, 2005). In ogni caso, la prognosi è in genere negativa e, qualsiasi sia la fonte di cellule staminali, un trapianto allogenico dovrebbe essere eseguito nel caso venga ottenuta la seconda RC. Pazienti selezionati con percentuale di blasti nel midollo limitata (<10-15%) potrebbero essere considerati per essere sottoposti ad allo-SCT senza prima ricevere chemioterapia di salvataggio (Feldman EJ, Gergis U, 2012). La maggior parte dei risultati noti derivano da studi retrospettivi per cui non è possibile parlare di uno standard di terapia di salvataggio. ARA-C a dosi alte o intermedie anche in combinazione con antracicline e/o fludarabina rappresenta ancora oggi la terapia più frequentemente adottata. Tuttavia, i pazienti anziani con citogenetica sfavorevole e con RC1 della durata inferiore a 12 mesi ed i pazienti giovani in recidiva precoce post allo-SCT o in recidiva avanzata andrebbero selezionati per studi investigazionali, in modo da evitare tossicità non bilanciate da reali vantaggi di sopravvivenza.
Mentre gli attuali risultati terapeutici nella LAM rimangono insoddisfacenti, il trattamento di questi pazienti può rappresentare un ideale campo di investigazione clinica nel prossimo futuro ed infatti diversi nuovi farmaci sono in fase di studio (Ferrara F, 2012; Percival ME e Estey E, 2017; Lam SS et al, 2017). Le strategie future dovrebbero comprendere la progettazione di studi di fase II randomizzati basati su obiettivi multipli e comprendenti nuovi farmaci con azione il più possibile targeted verso specifici bersagli molecolari o su approcci immunoterapici (Fan M et al, 2017; Tasian SK, 2018). Questi studi dovrebbero essere inoltre disegnati tenendo in considerazione le nuove informazioni prognostiche che derivano dall’analisi globale dell’espressione genica e di altre proprietà genomiche intrinseche dei progenitori leucemici, specialmente nel paziente anziano. Diverse nuove terapie potrebbero quindi essere esplorate, potenzialmente in grado di fornire importanti ed interessanti novità. Nella progettazione di questi studi, tuttavia, dovrebbero anche essere tenute in seria considerazione la grande eterogeneità clinica, la presenza di multiple comorbidità tipica dell’anziano, l’attitudine dei pazienti e dei loro familiari e la fattibilità di un determinato trattamento nella pratica quotidiana in modo da poter valutare in maniera migliore l’impatto clinico globale delle nuove strategie terapeutiche. Nel corso del 2017 (vedi Approfondimento), sono stati registrati 3 nuovi agenti per la LAM (vyxeos, enasidenib e midostaurina) ed un quarto, in precedenza ritirato dal commercio, è stato riconsiderato per i pazienti di nuova diagnosi con LAM CD33+ e citogenetica favorevole o intermedia (mylotarg). Ivosidenib, un inbitore di IDH1, si è dimostrato attivo nei pazienti con tale mutazione (Ragon BK e DiNardo CD, 2017; DiNardo CD et al, 2018) e a breve dovrebbe a sua volta ricevere l’approvazione. E’ evidente che se da un lato la ricerca farmacologica è particolarmente attiva verso i diversi potenziali bersagli molecolari, l’impiego nella pratica clinica non potrà prescindere da una precisa caratterizzazione molecolare della malattia alla diagnosi (Stone RM, 2018).
Divisione di Ematologia, Ospedale Cardarelli, Napoli
Clinica Ematologica, Azienda Sanitaria-Universitaria Friuli Centrale (ASUFC), Udine
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