Leucemia mieloide acuta: novità cliniche emerse dal Congresso della European Hematology Association (Stoccolma, giugno 2013)
A cura di: F. Ferrara, P. Angelillo
Uno degli aspetti più recenti e interessanti in tema di patogenesi della leucemia mieloide acuta (LAM) è quello dell’architettura “subclonale” della malattia. Mediante analisi di singole cellule, sequencing quantitativo e analisi temporale è possibile lo studio dell’evoluzione di differenti mutazioni nel tempo nel singolo paziente, sia al tempo della diagnosi che della recidiva. La lettura svolta da Welch nell’ambito del programma educazionale all’EHA di Stoccolma (1), dal titolo “Subclonal architecture in acute myeloid leukemia”, ha affrontato l’argomento dal punto di vista biologico e delle possibili implicazioni clinico-terapeutiche. E’ stato evidenziato che alcune mutazioni, dette “founding”, esistono in tutte le cellule della LAM, mentre altre definite subclonali sono riscontrabili solo in una frazione di esse. In particolare, traslocazioni bilanciate quali t(8;21), t(15;17), inv(16) e riarrangiamenti MLL come anche mutazioni DNMT3A e TET2 sono presenti nel clone “founding” alla diagnosi e non sono né acquisite, né perdute al momento della recidiva. Al contrario, anomalie cromosomiche quali +8, +22, -X e -Y e mutazioni dei geni FLT3, NRAS/KRAS, WT1 e KIT spesso vengono acquisite o perse alla recidiva. Ne deriva una precisa gerarchia mutazionale in base alla quale vengono distinti 3 livelli di mutazioni: driver vs. passenger, initiating vs. progressing e present in the founding clone vs. present in the subclone. La pressione della chemioterapia fa sì che le mutazioni initiating vengano perse definitivamente e, nei casi di guarigione, non vi è emergenza di mutazioni progressing, né di subcloni. Al contrario, nei pazienti che recidivano, vi è emergenza di mutazioni progressing e di subcloni che possono essere assenti o non evidenziabili al tempo della diagnosi e selezionati dopo terapia di induzione, consolidamento o trapianto. Nella Figura 1 sono rappresentate le mutazioni più frequentemente acquisite o perse in recidiva. Questo modello ha ovvie implicazioni terapeutiche, in quanto le moderne terapie biologiche, basate su piccole molecole in grado di inibire specifici pathways della leucemogenesi, potrebbero, nel prossimo futuro, essere sperimentate in base a un modello “molecularly driven”, in base alle mutazioni presenti nei subcloni prevalenti alla recidiva.
Abstracts selezionati
Volasertib è un potente e selettivo inibitore di diverse chinasi coinvolte nel ciclo cellulare, in grado di indurre arresto mitotico e apoptosi agendo sulle chinasi Polo-like (Plks). In particolare, la kinasi Polo-like 1 è overespressa in diverse linee cellulari di LAM ed ha un ruolo chiave nella transizione da G2 a M del ciclo cellulare. Dohner e collaboratori hanno riportato all’EHA i risultati preliminari di uno studio di fase II randomizzato, tuttora in corso, che ha confrontato l’associazione di volasertib + basse dosi di ARA-C (LDAC) contro LDAC in pazienti con nuova diagnosi di LAM, ritenuti non eleggibili ad un trattamento intensivo (2). L’endpoint primario era la risposta al trattamento, in termini di remissione completa (CR) o CR con recupero ematologico incompleto (CRi); gli endpoint secondari comprendevano la sopravvivenza libera da eventi (EFS) e la sopravvivenza globale.
La schedula di trattamento prevedeva la somministrazione di volasertib 350 mg per via endovenosa, giorni 1, 15 + LDAC alla dose di 20 mg bid per via sottocutanea, giorni 1-10 o solo LDAC fino a progressione/recidiva o comparsa di intolleranza. In totale 42 pazienti hanno ricevuto volasertib + LDAC e 45 LDAC. Il response rate (CR o CRi) è stato significativamente più alto nel braccio volasertib + LDAC rispetto a LDAC (31,0% contro 13,3%, odds ratio 2,91, p = 0,0523). E’ interessante notare che nel gruppo volasertib + LDAC sono state osservate risposte in tutte le categorie di rischio ELN, inclusi i pazienti con citogenetica sfavorevole. L’analisi molecolare ha mostrato la presenza di una mutazione FLT3-ITD in 5 pazienti nel braccio volasertib-LDAC ed in 6 pazienti nel braccio LDAC, mentre una mutazione NPM1 è stata dimostrata rispettivamente in 8 e 9 pazienti nei due bracci di trattamento. La EFS mediana è risultata significativamente migliore nel gruppo volasertib + LDAC rispetto a LDAC (5,6 mesi rispetto a 2,3 mesi, p = 0,0237). L’OS mediana è stata di 8,0 mesi (volasertib + LDAC) rispetto a 5,2 mesi (LDAC; hazard ratio p = 0,0996). In entrambi i bracci di trattamento l’OS mediana è stata inferiore nei pazienti con genetica sfavorevole, con una tendenza per una migliore OS nei pazienti trattati con volasertib in entrambe le categorie di rischio citogenetico. In conclusione volasertib, in associazione a LDAC, sembra in grado di migliorare il tasso di risposta nei pazienti con nuova diagnosi di LAM ineleggibili a chemioterapia tradizionale indipendentemente dal rischio citogenetico e molecolare. Volasertib in combinazione con LDAC è attualmente oggetto di studi di fase III in pazienti anziani (> 65 anni) con LAM.
Rollig e collaboratori hanno presentato i dati dell’analisi ad interim dello studio SORAML, primo studio randomizzato ad indagare efficacia e sicurezza dI sorafenib, un inibitore di molteplici chinasi intracellulari coinvolte nella patogenesi della LAM, in associazione alla chemioterapia convenzionale per la terapia di pazienti giovani (fino a 60 anni) affetti da LAM (3). E’ da rilevare che risultati promettenti erano stati già riportati in studi di fase 2 con sorafenib in asscoiazione a chemioterapia. Tra marzo 2009 e ottobre 2011, 276 pazienti provenienti da 25 centri sono stati arruolati nello studio SORAML. Il trial prevedeva due cicli di induzione con DA (daunorubicina 60 mg/m2 giorni 3-5 e ARA-C100 mg/m2 IC giorni 1-7), seguiti da tre cicli di consolidamento con alte dosi di ARA-C (3 g/m2 bid giorni 1, 3, 5). I pazienti in persistenza di malattia dopo DA hanno ricevuto una seconda induzione con HAM (ARA-C 3 g/m2, giorni 1-3 più mitoxantrone 10 mg/m2 giorni 3-5). Venivano avviati a trapianto allogenico di cellule staminali tutti i pazienti a rischio intermedio in prima remissione completa con un donatore familiare e tutti i pazienti ad alto rischio con un donatore compatibile anche alternativo. Al momento dell’arruolamento, i pazienti sono stati randomizzati a ricevere sorafenib (800 mg / die) o placebo in aggiunta al trattamento standard (rapporto di 1:1). Il farmaco sperimentale è stato somministrato nei giorni 10-19 durante i cicli di induzione o salvataggio con HAM, dal giorno 8 di ogni consolidamento fino a 3 giorni prima dell’inizio del consolidamento successivo ed in mantenimento per 12 mesi dopo la fine del consolidamento. L’endpoint primario dello studio era la sopravvivenza libera da eventi (EFS) mentre gli endpoint secondari erano la sopravvivenza globale (OS), il tasso di CR e l’incidenza di eventi avversi (AE).
L’analisi ad interim è stata condotta dopo una mediana di osservazione di 18 mesi, al termine dei quali la RC era del 56% contro il 60% nel gruppo placebo rispetto al braccio sorafenib (p = 0,622).
L’EFS mediana è stata di 12,2 mesi nel braccio placebo e non è stata raggiunta nel braccio sorafenib, corrispondente ad una EFS ad un anno del 50% contro il 64% (p = 0,023). La OS mediana non è stata raggiunta in entrambi i bracci (OS a due anni del 66% contro il 72% nel gruppo placebo e sorafenib, rispettivamente).
I più comuni eventi avversi di grado ≥ 3 riportati sono state complicazioni infettive quali febbre e polmonite, seguite da sanguinamenti, tossicità cardiaca ed epatica, ipertensione, tossicità cutanea e cefalea. In particolare il rischio di tossicità epatica (rischio relativo: 6,2; p = 0,025) e di sanguinamento (rischio relativo: 3,6; p = 0,016) è stato significativamente più alto nel braccio sorafenib, mentre l’incidenza globale di eventi avversi non ha mostrato differenze significative.
Gli autori hanno concluso che l’aggiunta di sorafenib alla chemioterapia standard è fattibile, in pazienti giovani con LAM, ma gravata da un più alto rischio di tossicità epatica ed episodi di sanguinamento. I dati relativi alla EFS ed alla sopravvivenza globale necessitano di un follow-up più prolungato. Va comunque rilevato che un recente trial del gruppo tedesco (non presentato all’EHA) ed effettuato in pazienti anziani non ha dimostrato alcun vantaggio, neanche in pazienti con mutazione FLT3, nei quali era attesa maggiore attività.
Uno studio multicentrico di fase II (4) ha valutato efficacia e sicurezza di quizartinib (AC220) in monoterapia in pazienti con LAM recidivata/refrattaria dopo chemioterapia di seconda linea o recidivati dopo trapianto allogenico di cellule staminali emopoietche (HSCT). Quizartinib è un potente inibitore orale di FLT3 che è attivo sia contro ITD mutante che wild-type. Al meeting EHA 2013 sono stati presentati i dati finali di questo studio che ha arruolato 333 pazienti con LAM sia FLT3-ITD-positivi che FLT3-ITD-negativi, divisi in due coorti. Quizartinib è stato somministrato una volta al giorno per via orale durante cicli di trattamento di 28 giorni. La dose iniziale di partenza somministrata ai primi 17 pazienti era di 200 mg/die, ma a causa del verificarsi di prolungamenti dell’intervallo QT, la dose è stata ridotta a 135 mg/die per gli uomini e 90 mg/die per le donne.
Il tasso di CRC (risposta completa composita) che includeva CR, CR con incompleto recupero piastrinico (CRp) e CR con incompleto recupero ematologico (CRi) è stato del 46% (5 CR, 2 CRp e 55 CRI), con una mediana di durata della CRC di 10,6 settimane e OS mediana di 24 settimane. E’ degno di nota che in questo studio il 47% dei pazienti refrattari alla loro ultima terapia ha raggiunto un CRC con quizartinib.
Il trattamento è stato interrotto per trapianto in 47 dei 136 pazienti (35%); 44 di 47 pazienti (94%) hanno avuto almeno una risposta parziale (PR) con 2 CRp, 24 CRI e 18 PR. L’OS è stata di 41,5 settimane per i pazienti che hanno raggiunto un CRC (n = 26) prima del trapianto e di 29 settimane per i pazienti in PR. Il tasso di sopravvivenza ad 1 anno è stato del 39% per entrambi i gruppi di risposta. Pazienti che avevano ottenuto una CRC (n = 36) o RP (n = 20), ma che non erano stati avviati ad HSCT, hanno avuto una OS mediana di 24,5 settimane e di 20,9 settimane, rispettivamente, e tassi di sopravvivenza a 1 anno del 25% e 5%, rispettivamente. Dei 27 pazienti con OS superiore a 52 settimane, 17 (63%) avevano ricevuto un trapianto. I risultati esposti dimostrano una notevole attività di quizartinib in particolare per i pazienti che hanno risposto al trattamento e che hanno successivamente ricevuto HSCT.
Isidori e collaboratori (5) hanno presentato i dati di uno studio prospettico di fase II che ha arruolato 40 pazienti anziani, affetti da leucemia mieloide acuta (LMA), nel quale è stata valutata l’efficacia della somministrazione di basse dosi dell’agente immunomodulante lenalidomide (LEN) in associazione con ARA-C in pazienti di età superiore a 70 anni (età media: 76 anni, range: 70-85), ritenuti non eleggibili a chemioterapia intensiva.
Diciannove dei 40 pazienti mostravano un cariotipo a rischio intermedio (14/19 cariotipo normale), 17/40 un cariotipo sfavorevole e 4/40 erano non valutabili. Diciassette pazienti avevano ricevuto una diagnosi di LAM de novo, mentre 23 avevano una LAM secondaria tipo una sindrome mielodisplastica precedentemente diagnosticata. Il trial prevedeva la somministrazione di LEN a basso dosaggio (10 mg / die per via orale, giorni 1-21) e basse dosi di citarabina (20 mg due volte al giorno sottocute, giorni 1-15). La terapia è stata ripetuta ogni 6 settimane, fino ad un massimo 6 cicli.
Uno degli scopi dello studio era quello di individuare possibili biomarcatori associati a sensibilità/resistenza; a tale scopo è stato eseguito un expression profiling globale e dei miRNA su cellule di LAM purificate ottenute da 15 pazienti. In questo studio la mortalità in induzione è stata del 20%, con 8 decessi verificatesi durante il primo ciclo di trattamento. Trentadue pazienti hanno completato almeno un ciclo di terapia e sono risultati valutabili per la risposta. Il tasso di CR è stato del 38%. Sei dei 12 pazienti che hanno ottenuto una risposta (50%) sono tuttora in RC morfologica, citogenetica e FISH, dopo un follow-up mediano di 20 mesi (range: 6-33). L’analisi statistica ha mostrato che i pazienti che avevano ottenuto una risposta, avevano una sopravvivenza globale mediana più lunga rispetto ai non responder (491 vs 64 giorni, p <0,0001). La percentuale di CR era significativamente più alta nei pazienti con blasti midollari <30% alla diagnosi (p = 0,04). È interessante notare che il rischio citogenetico non è risultato predittivo di CR in questo studio. Un dato interessante è che lo studio del gene expression profiling (GEP) globale e dei miRNA ha permesso di identificare un’impronta molecolare: 114 geni e 18 miRNA9 associati alla risposta clinica (CR vs no CR). I geni coinvolti appartenevano a importanti categorie funzionali come l’angiogenesi, la regolazione del ciclo cellulare e della risposta immunitaria. Inoltre, sulla base dell’espressione di 5 di questi geni, è stato sviluppato un algoritmo capace di predire la risposta al trattamento; tale algoritmo si è dimostrato attendibile nel 100% (15/15) casi testati.
In conclusione gli autori hanno mostrato come la somministrazione concomitante di lenalidomide con basse dosi di ARA-C è in grado di indurre un alto tasso di remissioni complete in un sottogruppo di pazienti molto anziani con LAM gravati da cattiva prognosi ed hanno inoltre suggerito che la risposta al trattamento possa essere significativamente predetta mediante GEP.
Tra i farmaci maggiormente oggetto di studio negli ultimi anni nella LAM, un posto di rilievo è occupato dai farmaci ipometilanti. Uno studio statunitense ha analizzato i dati “real world”, raccolti tra il 2006 ed il 2012, al fine di valutare l’efficacia dell’utilizzo di decitabina (DEC) ed azacitidina (AZA) per il trattamento dei pazienti anziani con LAM (6). Lo scopo di questo studio è stato quello di confrontare la sopravvivenza globale (OS) e altri benefici clinici derivanti dall’utilizzo di DEC e AZA utilizzando dati reali. Durante il periodo in esame, 487 pazienti con LAM sono stati avviati a terapia con AZA (n=288) o DEC (n=199). I due gruppi erano simili in termini di età, sesso, diagnosi precedente di MDS, fabbisogno trasfusionale e copertura assicurativa, ma i pazienti che hanno ricevuto DEC avevano una maggiore probabilità di avere avuto un ricovero nei sei mesi precedenti (70% vs 62%, p = 0,032) e più frequentemente avevano uno score Charlson di 3 o superiore (59% vs 50%, p = 0,036). La OS mediana (6,9 vs 10,1 mesi, p = 0,007) ed il tempo all’ospedalizzazione (3,9 vs 6,6 mesi, p = 0,015) erano significativamente più favorevoli tra i pazienti trattati con AZA.
Nonostante AZA e DEC non siano mai stati comparati direttamente in uno studio “head-to-head”, è noto che entrambi i farmaci hanno efficacia nel trattamento dei pazienti anziani con LAM. I dati emersi da questa analisi sembrerebbero però indicare una superiorità di AZA rispetto a DEC in termini di una significativamente più lunga OS e minori ospedalizzazioni, anche se i pazienti trattati con DEC avevano caratteristiche di maggiore frailty.
Grande interesse, negli ultimi anni, è stato rivolto all’immunoterapia, una strategia terapeutica che ha dimostrato, in alcuni studi, di poter migliorare la sopravvivenza dei pazienti affetti da LAM. In particolare, gli anticorpi monoclonali che riconoscono l’antigene CD33 espresso sui progenitori mieloidi gemtuzumab ozogamacin (GO) e lintuzumab sono stati oggetto di numerosi studi randomizzati e controllati. Va sottolineato che GO è coniugato alla chaliceamicina, un potente antibiotico antitumorale. Tuttavia, diverse segnalazioni di tossicità grave associata al trattamento con GO hanno portato al suo ritiro dal commercio. Loke et al, al fine di valutare la reale efficacia e sicurezza correlate alla somministrazione di anticorpo anti-CD33, hanno condotto una revisione sistematica della letteratura e presentato i risultati al meeting EHA di quest’anno (7).
Gli autori hanno condotto una meta-analisi prendendo in considerazione 14 trial randomizzati controllati (RCT), 12 con GO e 2 con lintuzumab. Ne è risultato che GO non modifica significativamente il tasso di remissioni complete (OR = 1,03, 95% CI = 0,77- 1,37, p = 0,9), mentre è in grado di indurre una netta riduzione dei casi di malattia refrattaria al trattamento (p = 0,02). Su un totale di 1961 pazienti, sono stati segnalati 13 casi di VOD in corso di terapia di induzione, nonostante GO non fosse associato ad un aumento effettivo delle morti in induzione o in RC. Al contrario, l’utilizzo di GO in induzione, è stato associato ad una riduzione del tasso di recidive (HR = 0,88, IC 95% = 0,79-0,97, p = 0,01) con conseguente miglioramento della sopravvivenza libera da recidiva (RFS) (HR = 0,88, IC 95% = 0,81-0,96, p = 0,003). Non è stata dimostrata alcuna differenza in termini di RFS al variare della dose del farmaco (inferiore o superiore a 9 mg/m2) o dell’età del paziente (minore o maggiore di 60 anni). Basandosi sull’analisi di questo ampio numero di trials, sembrerebbe dimostrato che GO sia in grado di garantire risultati migliori nei pazienti con citogenetica favorevole/intermedia, senza evidenza di un reale beneficio nei pazienti con citogenetica sfavorevole. Questa meta-analisi non ha inoltre dimostrato un aumento significativo della tossicità del trattamento quando alla chemioterapia convenzionale venga aggiunto l’anticorpo monoclonale anti-CD33.
La recidiva dopo trapianto allogenico (allo-HSCT) per LAM e MDS rimane la principale causa di fallimento del trattamento ed è associata a prognosi particolaremnte severa. Le terapie di salvataggio tradizionali, come l’immuno-modulazione farmacologica, la chemioterapia con o senza DLI (infusione di linfociti del donatore) o un secondo allo-HSCT danno risultati deludenti al prezzo di una tossicità elevata, evidenziando la necessità di nuove terapie di salvataggio per questi pazienti.
Tessoulin et al (8) hanno valutato sicurezza ed efficacia dell’agente ipometilante azacitidina (AZA), somministrato a dosaggio standard (75 mg/m2/die per 7 giorni) come terapia di salvataggio in pazienti con neoplasia mieloide che avevano ricevuto un allo-SCT con o senza DLI. Tra il settembre 2006 e il settembre 2012, 31 pazienti (età mediana, 57 anni) con LAM de novo (n = 13), secondaria (n = 6), MDS (n = 11) o MPN (n = 1), sono stati trattati con AZA per una recidiva dopo allo-HSCT (tempo alla recidiva mediano: 3,7 mesi; range: 1,7-37,6). Per quanto concerne il profilo di tollerabilità, una tossicità di grado III-IV è stata osservata nel 32% dei casi, mentre il trattamento è stato interrotto a causa di tossicità in 8 pazienti; il 35% dei pazienti è stato riammesso in ospedale a causa di complicazioni legate la trattamento. Non è stata osservata nessuna GVHD de novo durante la terapia con AZA. In merito all’efficacia, 11 pazienti (35 %) hanno ottenuto una risposta: 7 risposte parziali, 4 risposte complete, con un tempo mediano alla migliore risposta di 92 giorni (range 35-247). La sopravvivenza globale mediana (OS) dall’inizio della terapia con AZA per l’intero gruppo è stata di 153 giorni (range 39-928) senza alcuna differenza tra i pazienti che avevano ricevuto o meno trattamenti successivi. All’analisi univariata il raggiungimento di una risposta era in grado di migliorare l’OS mentre la presenza di un cariotipo monosomico o complesso era associato a prognosi peggiore. In questo studio non è stata osservata alcuna associazione tra tasso di risposta ad AZA e le caratteristiche citogenetiche, ad eccezione di un trend tra cariotipo complex e una minore probabilità di risposta al trattamento (p = 0,11). All’analisi multivariata solo l’ottenimento di una risposta e la presenza di un cariotipo monosomico avevano ancora un significativo impatto sulla sopravvivenza. Gli autori hanno inoltre segnalato come, in questa piccola coorte, la DLI non abbia mostrato alcun beneficio significativo. Questi risultati suggeriscono che AZA può rappresentare una strategia terapeutica potenzialmente efficace e dalla tossicità accettabile in questo sottogruppo di pazienti ad alto rischio.
Bibliografia
- Hematology education: the education program for the annual congress of the European Hematology Association. 2013;7: 23-29
- Dohner et al. Phase II evaluation of volasertib (BI 6727) + low-dose cytarabine (LDAC) versus LDAC monotherapy in patients with acute myeloid leukemia (AML): focus on genetic results. Haematologica 2013; 98(s1): 247
- Roling C et al. Sorafenib versus placebo in addition to standard therapy in young patients with newly diagnosed acute myeloid leukemia: results from 264 patients treated in the randomized-controlled soraml trial. Haematologica 2013; 98 (s1): 248
- Levis M et al. High response rate and bridging to hematopoietic cell trasplantation with quizartinib (AC220) in patients with FLT3-ITD-Positive relapsed/refractury acute myeloid leukemia (AML). Haematologica 2013; 98(s1): 17
- Isidori et al. Complete remission that can be predicted by genetic profiling in very elderly acute myeloid leukemia patients. Haematologica 2013; 98(s1): 246
- Smith B et al. Real-world outcomes among AML patients treated with decitabine or azacitidine: haematologica 2013; 98(s1): 19
- Loke. Systemic review and meta-analysis of anti-CD 33 antibody treatment in AML-gemtuzumab ozogamicin has antileukaemic efficacy. Haematologica 2013; 98(s1): 21
- Tessoulin B et al. Azacitidine for relapse treatment in myeloid malignancies following allogeneic haematopoietic stem cell transplantation. Haematological 2013; 98(s1): 21
A cura di:
www.ematologiainprogress.net