Leucemia mieloide acuta (LAM): report dall’ASH 2013

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A cura di: Felicetto Ferrara

Una interessante sessione del programma educazionale, intitolata “Clinical dilemmas in acute myeloid leukemia”, ha affrontato tre argomenti di grande attualità: 1) Terapia oggi e domani della LAM ad alto rischio; 2) CBF-AML: possiamo migliorare i risultati delle alte dosi di ARA-C ?; 3) Mutazioni di FLT3 nella LAM: qual è il migliore approccio nel 2013?

Terapia oggi e domani della LAM ad alto rischio.                                                               

Gary J. Schiller, Hematological Malignancy/Stem Cell Transplant Program, David Geffen School of Medicine, University of California, Los Angeles, Los Angeles, CA, USA

Un primo aspetto affrontato in questa lettura è stata la definizione della LAM ad alto rischio (HR-AML). E’ stato sottolineato che nel concetto di HR ricadono sia fattori clinici che biologici. L’età avanzata, la comparsa dopo una precedente malattia del sangue (displastica o proliferativa) e l’aver effettuato precedente chemioterapia (in genere per altre neoplasie) caratterizzano pazienti a cattiva prognosi, sia per un probabilità più bassa di ottenere remissione completa (RC) sia per una sua durata più breve. Ovviamente la recidiva di malattia di per sé è un importante fattore di prognosi sfavorevole. Dal punto di vista biologico, la citogenetica e i markers molecolari, dei quali è stata evidenziata la molteplicità, con dati spesso conflittuali e confondenti, rappresentano l’altro aspetto, ritenuto oggi indispensabile nel rifinire la prognosi. La Tabella 1 indica le indagini ritenute dall’autore imprescindibili nei pazienti con LAM all’esordio; è evidente come tra i numerosi marcatori molecolari descritti in letteratura come potenziali indicatori di prognosi, quelli che vanno necessariamente eseguiti sono solo una piccola minoranza e ciò dipende dalla frequenza della loro overespressione o mutazione e dalla effettiva rilevanza prognostica. La Tabella 2 invece mostra nell’ambito dei tre gruppi citogenetici (favorevole, intermedio e sfavorevole) quali mutazioni conferiscono la definizione di alto rischio.

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Tabella I: Routine evaluation of AML for the purpose of risk stratification

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Tabella II: Cytogenetics and mutational findings characteristic of newly diagnosed high-risk AML

Un aspetto rilevante della lettura presentata al programma educazionale è se oggi esistono pazienti ai quali va offerto “upfront” un programma di terapia sperimentale. I pazienti in recidiva e quelli con caratteristiche negative all’esordio andrebbero arruolati in regimi comprendenti nuovi farmaci e/o strategie terapeutiche alternative e comunque sottoposti, se clinicamente eleggibili, a trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche.

 

CBF-AML: possiamo migliorare i risultati delle alte dosi di ARA-C?

Peter Paschka and Konstanze Dohner, Department of Internal Medicine III, University Hospital of Ulm, Ulm, Germany

Come è noto, le CBF-AML includono le LAM con t(8;21), le LAM con inv(16) e le LAM con t(16;16). Generalmente queste forme sono considerate a prognosi favorevole e non vi è indicazione a trapianto allogenico in prima remissione completa (RC1). In base ai dati di un classico lavoro del CALGB, peraltro pubblicato nel 1994, la terapia post-remissionale si è tradizionalmente basata su cicli ripetuti di alte dosi di ARA-C (HDARA-C, 3gr/mq q12h, giorni 1,3,5). In realtà, durante la sessione è stato sottolineato come le CBF-AML siano notevolmente eterogenee, non solo per la possibilità di diverse anomalie cromosomiche aggiuntive, ma anche per la coesistenza di diverse mutazioni. Le più frequenti alterazioni cromosomiche aggiuntive sono la perdita di un cromosoma del sesso (-X o –Y), la delezione del braccio lungo del cromosoma 9 [del9(q)] e la trisomia 8 (+8). La mutazione più rilevante è quella del gene KIT, che nella maggior parte degli studi conferisce prognosi sfavorevole e dovrebbe essere considerata come indicazione a trapianto allogenico in RC1. Diversi agenti hanno una dimostrata attività in vitro contro cellule di CBF-AML con mutazione di KIT e sono in corso diversi studi con associazione di chemioterapia e nuovi farmaci, allo scopo di migliorare i risultati clinici in questi pazienti. Sono stati presentati risultati promettenti con dasatinib aggiunto alla terapia d’induzione con percentuali di RC superiori al 90 %. A tale riguardo va anche ricordato che una overespressione di KIT è frequente nelle CBF-AML, indipendentemente dalla presenza delle mutazioni, anche se in caso di mutazione il gene viene maggiormente espresso, da cui l’impiego degli inibitori TKI in questi pazienti.  Per quanto riguarda le mutazioni del gene FLT3 nelle CBF-AML, il significato prognostico di esse rimane incerto, in quanto diversi studi hanno prodotto risultati controversi; in ogni caso, FLT3 potrebbe costituire un ulteriore bersaglio terapeutico. Un ulteriore aspetto da considerare è se il monitoraggio della malattia minima residua (MRD) è in grado di aggiungere informazioni utili nel management dei pazienti con CBF-AML. Diversi studi suggeriscono che una RT-PCR negatività dopo il consolidamento riduce in misura significativa il rischio di recidiva, altri report suggeriscono una soglia di copie di trascritto (100 o 500) in grado di predire la recidiva di malattia. Solo studi prospettici con omogeneità di trattamento potranno chiarire in maniera definitiva la reale utilità del monitoraggio molecolare nei pazienti con CBF-AML. Infine, un altro argomento affrontato nella lettura educazionale è stato quello delle dosi di ARA-C da utilizzare nella terapia di consolidamento. Mentre è stato ribadito che alte dosi sono sicuramente più efficaci delle dosi convenzionali, vi è ancora incertezza per quanto concerne le dosi esatte da somministrare. Il classico studio CALGB del 1994, considerava 3gr/mq q12h giorni 1,3,5 per 3 cicli (dose totale 36gr/mg). Più recentemente uno studio HOVON/SAKK ha confrontato due dosi cumulative di ARA-C (13gr/mq vs. 26 gr/mq), con risultati sovrapponibili in termini di event free (EFS) e overall survival (OS). Sono stati riportati risultati analoghi dal gruppo NCRI/MRC, per cui la conclusione è che probabilmente i pazienti con CBF-AML possono essere consolidati con un dosaggio inferiore rispetto allo studio CALGB. E’ stata anche ribadita la possibile utilità di gemtuzumab-ozogamicin (GO), un anticorpo monoclonale anti-CD33 coniugato con chaliceamicina, un potente derivato antraciclinico; infatti in un importante studio NCRI/MRC l’aggiunta di GO alla chemioterapia ha prodotto significativo miglioramento di EFS e OS nei pazienti con CBF-AML, per cui è possibile che in futuro il farmaco venga riconsiderato.  Per quanto concerne il trapianto di cellule staminali emopoietiche, non vi sono differenze in termini di outcome tra trapianto autologo ed allogenico, per cui in prima RC non vi è indicazione a trapianto allogenico, con la possibile eccezione dei pazienti con mutazione di KIT.

 

Mutazioni FLT3 nella LAM: qual è il migliore approccio?

Mark Levis, Sidney Kimmel Comprehensive Cancer Center, Johns Hopkins University, Baltimore, MD

Circa il 30 % dei pazienti con LAM esprimono mutazioni del gene FLT3, con frequenza variabile in base all’età e ai diversi gruppi citogenetici, come indicato nella Tabella 3. La forma di LAM che esprime con maggiore frequenza la mutazione FLT3/ITD è la leucemia acuta promielocitica (LAP), ma proprio in questo sottotipo l’impatto prognostico della mutazione è meno rilevante. In generale le mutazioni di FLT3 si dividono in due categorie: la mutazione ITD (internal tandem duplication) che interessa la porzione iuxtamembranaria del recettore e la mutazione TKD (tyrosine kinase domain) che è una mutazione puntiforme che interessa il loop di attivazione del dominio tirosin-chinasico. La mutazione FLT3/ITD è di gran lunga la più frequente (> 90%), mentre la mutazione FLT3/TKD è molto più rara (circa 7 %), ma proprio quest’ultima mutazione, il cui significato prognostico è molto meno chiaro, sembra avere un grande ruolo nella resistenza agli inibitori di FLT3 dotati di attività tirosino-chinasica. La mutazione FLT3/ITD si associa spesso a iperleucocitosi e, almeno nei pazienti giovani-adulti, ha significato prognostico sfavorevole; nell’anziano i dati relativi alla prognosi sono invece controversi. E’ stato recentemente evidenziato mediante analisi di whole genome sequencing che la LAM è una malattia policlonale alla diagnosi, mentre in recidiva vi è emergenza di un clone predominante. Nelle LAM con mutazione FLT3, la mutazione viene conservata alla recidiva nella maggior parte dei casi, mentre solo occasionalmente essa viene perduta indicando una particolare sensibilità alla chemioterapia del clone ITD+ oppure una incapacità dello stesso clone a riespandersi in recidiva. Dal punto di vista prognostico, alcuni studi hanno suggerito un ruolo della lunghezza della mutazione e del burden allelico, ma di maggiore interesse sono le interazioni con altre mutazioni, in particolare NPM1 e DNMT3a; la coesistenza della mutazione NPM1 può attenuare il significato prognostico negativo di FLT3/ITD  soprattutto in presenza di bassa carica allelica. Un aspetto rilevante affrontato nella lettura educazionale dell’ASH è quello della terapia di questi pazienti. La maggior parte degli studi presentati è concorde nell’indicazione a trapianto allogenico in prima RC (solo uno studio inglese ha mostrato assenza di beneficio clinico). Per quanto concerne la possibile utilità degli inibitori di FLT3, sono in corso numerosi studi con diversi composti sia come agente singolo che in combinazione a chemioterapia di induzione e consolidamento. Un altro campo da esplorare è la possibile utilità di questi agenti come terapia di mantenimento.  Al momento, il farmaco più promettente è quizartinib, un inibitore di seconda generazione in grado di indurre come agente singolo RC nel 51 % di pazienti con LAM recidiva/refrattaria. E’ interessante notare che alcune risposte sono state osservate anche in pazienti FLT3 negativi.

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Tabella III: Incidence and prognostic impact of FLT3/ITD mutations in AML subgroups

 

ABSTRACTS

Prediction Of Therapeutic Resistance In Adult Acute Myeloid Leukemia: Analysis Of 4,550 Newly Diagnosed Patients From MRC/NCRI, HOVON/SAKK, SWOG, and MD Anderson Cancer Center                                                                                                 

Walter et al. Abs. 64

Lo scopo di questo studio è stato di investigare parametri predittivi di resistenza alla terapia di induzione nella LAM. Infatti, mentre la citogenetica e la biologia molecolare sono utili nella definizione delle categorie di rischio, mancano dei parametri realmente predittivi di refrattarietà alla terapia di induzione. Sono stati analizzati 4550 pazienti di nuova diagnosi trattati da 3 importanti gruppi cooperativi (MRC/NCRI, HOVON/SAKK, SWOG) e  presso l’istituto MD Anderson, escludendo i pazienti in RC dopo 1-2 cicli di terapia di induzione e le morti precoci.  I seguenti parametri sono stati considerati mediante regressione logistica: età alla diagnosi, sesso, numero di leucociti (WBC), conta piastrinica, percentuale di blasti midollari, malattia de novo o secondaria, rischio citogenetico, stato mutazionale NPM1/FLT3 ed effetto centro.  Globalmente 79% dei pazienti hanno ottenuto la RC, mentre 21% sono risultati refrattari. L’età avanzata, elevata WBC,  la malattia secondaria, lo stato mutazionale FLT3/NPM1 ed il rischio citogenetico erano indipendentemente associati con la refrattarietà alla terapia di induzione in analisi univariata. Ciò nonostante, gli autori non sono riusciti a formulare un modello predittivo di refrattarietà alla malattia, per cui la conclusione dello studio è che, al momento attuale, non è definibile una precisa categoria di pazienti da arruolare in terapie investigazionali per una bassa possibilità di RC alla diagnosi.  Una valutazione precoce della malattia minima residua potrebbe invece essere di maggiore utilità.

 

Induction Therapy For AML Patients With Daunorubicin Dose Of 60 Mg/m² and 90 Mg/m² Results In Similar Complete Response Rate, Relapse-Free and Overall Survival

Devillier et al. Abs. 66

Una questione ancora non risolta nella terapia della LAM concerne la dose di daunorubicina (DNR) da somministrare in induzione. Un recente trial statunitense ha dimostrato che 90 mg/mq producono beneficio clinico in termini di ottenimento e durata di RC rispetto a 45 mg, anche se questo studio è stato molto criticato per la bassa percentuale di RC del braccio di controllo.  In questo studio, 402 pazienti con LAM (con eccezione di LAP e CBF-AML) sono stati randomizzati a ricevere 60 o 90 mg/mg di DNR in induzione. Era prevista una seconda induzione in caso di blasti midollari > 5% al giorno 15. Dopo 2-3 cicli di consolidamento con alte dosi di ARA-C, tutti i pazienti eleggibili erano programmati a ricevere trapianto allogenico. L’età mediana era di 49 anni, il 19% dei pazienti aveva una LAM secondaria e il 27% citogenetica sfavorevole. Nel complesso, non vi sono state differente nella percentuale di RC, di malattia refrattaria e di morte in induzione. Inoltre, come indicato in Figura 1, la sopravvivenza globale e la sopravvivenza libera da recidiva sono risultate non differenti nei due bracci. La conclusione degli autori è che la dose di 60 mg/mq di DNR produce risultati simili a quella di 90 mg/mq, per cui può essere considerata l’attuale standard terapeutico.

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Figura 1

 

Extramedullary Disease Is Common In Newly Diagnosed AML But Has No Independent Prognostic Significance, Including CNS Involvement: Analysis Of 3,522 AML Patients Treated On Consecutive ECOG Trials 1980-2008

Ganzel  et al. Abs. 63

La possibilità di una localizzazione extra-midollare nella LAM (EMD) è ben nota, ma mancano a tutt’oggi informazioni definitive sulla frequenza e sul significato prognostico. E’ anche incerto se la EMD in diversi siti abbia un impatto clinico differente.  Lo studio ha come scopo di rispondere a tali quesiti. Sono stati analizzati 3522 pazienti arruolati in 11 trials del gruppo cooperativo statunitense ECOG, dei quali 3241 erano valutabili. L’incidenza globale di EMD è stata del 24%, con coinvolgimento dei linfonodi (11%), milza (7%), fegato (5%), cute (4,5%), gengive (3%), sistema nervoso centrale (1%), altri siti (4%). La EMD è più frequente nei pazienti giovani, maschi, con performance status scadente e con WBC all’esordio più elevata. Il 65 % dei pazienti mostrava un sito coinvolto, il 21% due siti, il 13% 3 o più localizzazioni. Nell’analisi univariata la presenza di una EMD aveva significato prognostico sfavorevole con incremento del 9% della probabilità di decesso, mentre in multivariata con integrazione di altri fattori prognostici (WBC, citogenetica, età) non vi era significatività statistica per EMD. Peraltro, nel gruppo a citogenetica favorevole solo il 13% dei pazienti mostrava EMD e tendenza a prognosi peggiore, ma il numero di pazienti è troppo limitato per una conclusione definitiva (Figura 2). La conclusione dello studio è che la EMD è relativamente frequente nella LAM (24%) e che in analisi multivariata di per sé non costituisce fattore prognostico sfavorevole.

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Figura 2

 

The Addition Of Gemtuzumab Ozogamicin (GO) To Induction Chemotherapy Reduces Relapse and Improves Survival In Patients Without Adverse Risk Karyotype: Results Of An Individual Patient Meta-Analysis Of The Five Randomised Trials

Hills RA. Abs 356

Il ruolo di gemtuzumab ozogamicin (GO) nella terapia della LAM rimane controverso e diversi studi hanno prodotto risultati contrastanti (in uno studio è stato anche riportato un eccesso di mortalità nel braccio GO), tanto che lo sviluppo clinico del farmaco è attualmente sospeso. Nello studio presentato all’ASH è stata effettuata una metanalisi IPD (individual patient data) di 5 trials, nei quali GO è stato aggiunto alla terapia di induzione (SWOG-0106, ALFA-0701, UK MRC/NCRI AML15 & 16, GOELAMS AML2006IR trial, quest’ultimo non ancora pubblicato). L’analisi, condotta su 3339 pazienti, dimostra che non vi è differenza per quanto concerne l’ottenimento della RC, mentre GO induce un significativo aumento della sopravvivenza (p: 0,01), dovuto a una importante riduzione del rischio di recidiva (p: 0,0006). E’ da rilevare che l’effetto di GO è indipendente dall’età alla diagnosi e dallo stato mutazionale di FLT3, mentre vi è significativo effetto della citogenetica alla diagnosi, in quanto il beneficio di GO è limitato ai pazienti con cariotipo favorevole (p: 0,0001) e intermedio (p: 0,0007). Nessun vantaggio è stato invece registrato per le LAM a citogenetica sfavorevole (p: 0,7).  La conclusione dello studio è che GO produce in induzione il maggiore beneficio nei pazienti con CBF-AML, ma il vantaggio rimane significativo anche in quelli a citogenetica intermedia, senza influenza delle mutazioni FLT3.

 

Adding The KIT Inhibitor Dasatinib (DAS) To Standard Induction and Consolidation Therapy For Newly Diagnosed Patients (pts) With Core Binding Factor (CBF) Acute Myeloid Leukemia (AML): Initial Results Of The CALGB 10801 (Alliance) Study

Marcucci et al. Abs 357

Circa il 40% dei pazienti con CBF-AML va incontro a recidiva e circa il 25% esprime la mutazione di c-KIT, che induce un’attivazione costitutiva di tirosina chinasi (TK). Ciò determina  malattia più aggressiva e prognosi peggiore. Inoltre, anche i pazienti con wild-type c-KIT overesprimono il gene, per cui l’aggiunta di dasatinib (DAS), un potente inibitore di TK, alla terapia di induzione appare ragionevole. E’ su questa base che il gruppo cooperativo statunitense CALGB ha condotto uno studio di fase 2, nel quale DAS, alla dose di 100 mg per os gg. 8-21, è stato aggiunto in induzione a chemioterapia con 3 + 7 (DNR 60 mg/mq gg 1-3 e ARA-C 200 mg infusione continua gg- 1-7). I pazienti con > 5% blasti midollari al giorno 21 ricevevano una seconda induzione con DAS gg. 6-19. Il consolidamento prevedeva ARA-C  3 gr/mq 12qh gg 1,3,5 (1 gr nei pazienti > 60 anni) per 4 cicli totali con DAS gg. 6-26. La terapia con DAS era continuata per 12 mesi nei pazienti con persistente RC alla stessa dose. Lo scopo dello studio era di valutare la percentuale di RC e confrontarla con un gruppo storico di controllo. L’età mediana era di 51 anni (19-85), il 24% dei pazienti aveva un’età > 60 anni; il 65% era affeto da LAM con inv(16), il 35% da LAM con t(8;21). La principale tossicità di DAS è stata gastroneterica (epatica, nausea). La RC è stata ottenuta nel 92% dei pazienti e dopo un follow-up mediano di 11 mesi, la sorpavvivenza globale e quella libera da malattia sono state del 90% e 87%, rispettivamente (97% e 95% nei pazienti giovani, 63% e 62% negli anziani). I risultati preliminari di questo studio dimostrano che è oggi possibile stratificare in induzione la terapia della LAM, selezionando i pazienti con CBF-AML e che l’aggiunta di DAS alla chemioterapia è fattibile. I dati di RC e sopravvivenza comparano favorevolmente con il gruppo di controllo storico e rimane da valutare l’impatto delle mutazioni di c-KIT.

 

Leukemia Stem Cell Marker CD123 (IL-3R alpha) Predicts Minimal Residual Disease and Relapse, Providing a Valid Target For SL-101 In Acute Myeloid Leukemia With FLT3-ITD Mutations

Han et al. Abs 359

Le cellule staminali leucemiche (LSC) hanno ruolo fondamentale nella patogenesi e nella progressione della LAM. Esse sono infatti caratterizzate da resistenza alla chemioterapia e sono, in ultima analisi, le cellule responsabili della recidiva leucemica. CD123 (recettore alpha dell’interleukina 3) è riconosciuto come marcatore specifico delle LSC, ma non vi sono dati sulla possibile utilità di questo marcatore nel monitoraggio della malattia minima residua (MRD) nella LAM.  In questo studio è stata analizzata l’espressione di CD123 su cellule di LAM CD34+ in una serie di 95 pazienti. CD123 era costantemente espresso ad alta intensità (67%, range 27%-92%) e la sua espressione correlava con cariotipo sfavorevole e stato non mutato di NPM1. In analisi univariata la persistenza di cellule CD123+/CD34+ correlava significativamente con inferiore durata di RC, mentre in multivariata la correlazione veniva dimostrata solo per le mutazioni di FLT3 e un’alta conta di leucociti alla diagnosi. Di particolare interesse (Figura 3), le correlazioni tra positività per CD123 e l’attivazione di diversi pathways coinvolti nella leucemogenesi, suggerendo che CD123 può rappresentare un importante target terapeutico.

 Ferrara_LEUCEMIA_MIELOIDE_ACUTA_(LAM)_report_dell_ASH_Figura_3

Figura 3. Signal acrication in CD 123+cd34+cd38-cd99+ cells was analuzed by Flowjo software. The scatter plots were generated using GraphPad Prism (*p<0.05, ++p<0.01).

 

Combining Decitabine With Plerixafor Yields a High Response Rate In Newly Diagnosed Older Patients With AML
Roboz et al. Abs 621

La prognosi della LAM nell’anziano, soprattutto nei pazienti a citogenetica sfavorevole è a tutt’oggi negativa nella maggior parte dei casi. La decitabina (DAC) è un agente ipometilante in grado di indurre risposte anche nei pazienti anziani a cariotipo sfavorevole. Sia dopo chemioterapia aggressiva che dopo agenti ipometilanti residuano nel midollo osseo cellule staminali leucemiche (LSC) poco sensibili a qualunque terapia, in grado di generare dopo tempo più o meno variabile recidiva della malattia.  Uno dei meccanismi di resistenza delle LSC è la loro aderenza alla nicchia emopoietica, che genera protezione dalla chemioterapia. Plerixafor (P) blocca il segnale CXCR4 mediato da SDF1 (alla base dell’aderenza delle LSC alla nicchia emopoietica) e in vitro inibisce la crescita di blasti leucemici.  L’obiettivo di questo studio è stato di investigare l’efficacia terapeutica della combinazione DAC + P e di determinare gli effetti biologici di P sulle LSC. 69 pazienti sono stati trattati con cicli mensili di DAC (20 mg/mq gg. 1-10) in combinazione con dosi scalari di P (320-810 μg/kg). P veniva somministrato a cicli alterni in modo tale che ogni paziente fungeva da controllo di sé stesso per quanto riguarda l’effetto di blocco di CXCR4. Due coorti di pazienti sono state trattate con somministrazione di P nei cicli pari e dispari rispettivamente. In caso di risposta era prevista una terapia di mantenimento con DAC + P a cicli alterni. L’età mediana era di 73 anni (range 56-87), il 45% dei pazienti avevano una LAM secondaria, il 57% citogenetica intermedia e il 43% sfavorevole. Il 20% aveva ricevuto una precedente terapia con ipometilanti Una RC è stata ottenuta nel 43% dei pazienti (36% CR e 7% CRi) con durata mediana di risposta di 4,5 mesi. Il cariotipo sfavorevole non aveva effetto sulla risposta, mentre il precedente trattamento con HMA impattava significativamente (52% RC nei pazienti naive vs 14% nei pretrattati); i responders hanno ottenuto una sopravvivenza significativamente maggiore (18 mesi vs. 5 mesi). La tossicità è stata sostanzialmente ematologica e non vi è stata iperleucocitosi da P.  In una significativa proporzione di pazienti è stata dimostrata mobilizzazione di LSC dopo plerixafor e significativa ipometilazione dopo DAC. La conclusione dello studio è che la combinazione DAC + P è fattibile con possibilità di ulteriori studi transazionali sull’effetto di plerixafor sulle LSCs.

  

AC220 (Quizartinib) Can Be Safely Combined With Conventional Chemotherapy In Older Patients With Newly Diagnosed Acute Myeloid Leukaemia: Experience From The AML18 Pilot Trial

Burnett et al, Abs 622

In questo studio di fase 1/2 del gruppo NRCI/MRC è stata valutata la fattibilità della combinazione chemioterapia (ADE: ARA-C, daunoblastina, etoposide) con quizartinib  (Q), un potente inibitore di FLT3, nella terapia di induzione dei pazienti anziani (> 60 anni) con LAM.  Q veniva somministrato a dosi scalari (60, 90, 135 mg per 7 o 14 giorni) due giorni dopo il completamento di un primo ciclo ADE ed un secondo DA. In caso di non tolleranza della dose di 60 mg, era prevista una riduzione a 40 mg. Lo studio aveva un disegno 3 + 3, dove 1 comparsa su 3 di dose limiting toxicity (DLT) era considerato accettabile, ma non 2 su 6. DLT era definita come ogni tossicità non ematologica di grado 4, oppure di grado 3 che non regrediva almeno a grado 2 entro 7 giorni. A causa della maggiore suscettibilità nel sesso femminile del prolungamento Q-T, per ogni coorte venivano incluse almeno 3 donne. In totale sono stati arruolati 55 pazienti, dei quali 48 erano valutabili.  La dose di Q stabilita per i futuri trials di fase 3 è stata di 40 mg per 15 giorni. La percentuale di RC è risultata del 79% inclusi i 4 pazienti FLT3+ nei 42 pazienti valutabili. Vi sono state 3 morti in induzione (6,5%) e la tossicità emopoietica è stata sicuramente accettabile (tempo di recupero per neutrofili > 1000/mmc e piastrine > 100.000/mmc di 28 e 22 giorni rispettivamente dopo il ciclo 1, 19 e 22 giorni dopo il ciclo 2). La mediana di sopravvivenza è stata di 18 mesi. In conclusione, questo studio dimostra la fattibilità dell’approccio quizartinib  post-chemioterapia e autorizza l’inizio di una fase 3 randomizzata, dove Q verrà anche impiegato come terapia di mantenimento.

 

First Clinical Results Of a Randomized Phase 2 Study Of SGI-110, a Novel Subcutaneous (SQ) Hypomethylating Agent (HMA), In Adult Patients With Acute Myeloid Leukemia (AML)

Kantarjian et al. Abs 497

SGI-110 è un agente ipometilante di seconda generazione, formulato come dinucleotide della decitabina; la principale caratteristica di questo agente è la possibilità di essere somministrato in piccoli volumi ed è stabile per un periodo superiore a DAC in formulazione sottocutanea. In fase 1, il farmaco ha dato risposte promettenti in MDS e LAM, con evidenza di marcata ipometilazione.  In questo studio di fase 2 randomizzato, SG1-110 è stato somministrato alla dose di 60mg/mq o 90 mg/mq a 67 pazienti anziani con LAM (50 pretrattati con malattia recidiva o refrattaria e 17 di nuova diagnosi), tutti ritenuti per comorbidità o scarso performance status non eleggibili a chemioterapia aggressiva. La percentuale globale di RC (inclusa CR, CRp e CRi) è stata del 25% (16% nei pazienti pretrattati e 53% nei pazienti naive). 5 pazienti hanno potuto essere sottoposti a trapianto allogenico. Non vi sono state differenze nella % di RC e nella sopravvivenza tra la dose di 60 e 90 mg/mq; quest’ultima ha indotto maggiore mielosoppressione. La tossicità è stata prevalentemente ematologica, con occasionali episodi di polmonite durante la fase di neutropenia. Ipometilazione > 10% è stata osservata in oltre l’80 % dei pazienti. In conclusione, questo studio dimostra che SG-110 è un farmaco attivo nelle LAM ad alto rischio e il 53% di RC nei pazienti precedentemente non trattati sembra comparare favorevolmente con gli altri ipometilanti, per cui sono programmati futuri studi di fase 3.  

 

The ATRA Question In AML: Lack Of Benefit Overall Or In Any Molecular Subgroup In The NCRI AML16 Trial

Burnett et al. Abs 493

A parte la LAP, non vi sono dati definitivi riguardo la possibile utilità di acido all-trans retinoico (ATRA) negli altri sottotipi di LAM. Alcuni studi hanno suggerito un possibile beneficio nei pazienti con LAM e mutazione di NPM1. Nello studio condotto dal gruppo NRCI/MRC, 616 pazienti sono stati randomizzati a ricevere DA (daunorubicina e ARA-C) o ADE (daunorubicina e ARA-C + etposide) +/- ATRA. L’età mediana era di 67 anni (range 53-82) ed il 75% dei pazienti aveva una LAM de novo, il 16% una LAM secondaria e l’8% una MDS ad alto rischio.  La citogenetica era favorevole era nel 4%, intermedia nel 75%, sfavorevole nel 21% dei casi.  L’ATRA è stato dato alla dose di 45 mg/mq per due mesi. Né etoposide, né ATRA hanno prodotto beneficio clinico nella popolazione generale dei pazienti; inoltre, non vi è stato vantaggio in termini di ottenimento e durata di RC nei pazienti con mutazione di NPM1, nei quali studi precedenti avevano dimostrato risultati opposti. Inoltre il beneficio di ATRA non è stato osservato neanche nel sottogruppo trattato con etoposide. La conclusione è quindi che ATRA non ha un ruolo nella terapia delle LAM non LAP.

A cura di:

Divisione di Ematologia, Ospedale Cardarelli, Napoli

Felicetto Ferrara
Felicetto Ferrara
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