La leucemia acuta linfoide (LAL) è una malattia eterogenea con aspetti clinici e biologici differenti, caratterizzata dalla proliferazione e dall’accumulo di cellule immature della linea linfoide nel midollo osseo, nel sangue periferico, nei tessuti linfoidi e in altre sedi.
La LAL rappresenta la neoplasia più frequente nei bambini, mentre è relativamente rara nell’età adulta. Presenta un andamento bimodale con un picco precoce tra i 2 e i 5 anni di età ed un successivo incremento oltre i 65 anni (Sallan SE, 2006) (Figura I). Esiste una modesta predominanza nel sesso maschile, con un rapporto uomo-donna di ~2:1. Questo fenomeno è particolarmente evidente nella fascia d’età tra i 14 e i 40 anni, con un’inversione di tendenza dalla 5ta decade in poi e una prevalenza del sesso femminile dopo i 50 anni, suggerendo che vi sia un effetto protettivo degli ormoni sessuali femminili (Chiaretti S et al, 2013a (Figura II).
Figura I. Incidenza per età (da Sallan SE, 2006)
Figura II. Incidenza per sesso nelle differenti fasce d’età (Chiaretti S et al, 2013a)
Anche se nella grande maggioranza delle LAL non si riconoscono cause genetiche o ambientali, probabilmente la leucemia si sviluppa per una combinazione tra cause ambientali, una suscettibilità genetica e l’azione di oncogeni tumorali (Kinlen LJ, 2004; Redaelli A et al, 2005; Gao F et al, 2005; Greaves M, 2006). La maggiore incidenza in pazienti con sindrome di Down o di Klinefelter fa supporre una relazione fra anomalie genetiche e l’insorgenza della leucemia. L’aumentata incidenza in bambini con sindrome di Fanconi o di Bloom, oppure con immunodeficienze primarie come la sindrome di Wiskott-Aldrich o l’atassia-teleangectasia, è un altro sostegno a questa ipotesi. L’idea che vi sia un’influenza di fattori ereditari si basa anche sulla dimostrazione della comparsa di una forma leucemica in fratelli in cui un gemello monocoriale ha sviluppato una leucemia; si ipotizza un passaggio del clone leucemico tramite il sangue placentare. L’ opinione che casi di LAL si possano sviluppare direttamente nell’utero materno è anche legata alla dimostrazione della presenza di un riarrangiamento clonale dei geni delle immunoglobuline (Ig) o del T-cell receptor (TR), o della sequenza di un gene di fusione leucemico nel sangue prelevato alla nascita in bambini che hanno in seguito sviluppato una leucemia; è tuttavia probabile che per lo sviluppo della stessa sia necessaria la presenza di altri cofattori (Taub JW et al, 2002; Cazzaniga G et al, 2011; Li X et al, 2014). Inoltre, è stata evidenziata un’associazione tra alcune varianti polimorfiche a carico dei geni IKZF1, ARID5B, CEBPE, CDKN2A e PAX5 e lo sviluppo di leucemia, tanto nel bambino quanto nell’adulto (Inaba H et al, 2013; Burmeister T et al, 2014; Inaba H, Mullighan CG, 2020; Klco JM, Mullighan CG, 2020).
Sebbene alcuni virus, in particolare i retrovirus, siano in grado di provocare tumori negli animali, non c’è evidenza che ciò avvenga anche nell’uomo; tuttavia, alla forma di LAL a cellule B mature (definita anche “Burkitt type”) si può associare la presenza del virus di Epstein-Barr (Burkitt DP, 1983).
Tra le cause ambientali, sono riconosciute come fattori di rischio:
– l’esposizione ad alte dosi di radiazioni (ad esempio: l’esplosione di una bomba atomica, gli incidenti legati a reattori nucleari o alcune forme di radioterapia);
– vivere in prossimità di insediamenti industriali (ad esempio: l’esposizione a sostanze come il benzene) (Heck JE et al, 2013).
Sopravvissuti, di giovane età, alla bomba atomica in Giappone e bambini esposti a radiazioni in utero hanno mostrato un’aumentata incidenza di leucemie. L’esposizione ad agenti esterni quali solventi, radiazioni, sostanze chimiche, pesticidi e farmaci è stata correlata allo sviluppo di leucemie infantili. Anche l’esposizione in utero a radiazioni o solventi chimici può dar luogo allo sviluppo di una leucemia, anche se la latenza nell’insorgenza della stessa fa ipotizzare la necessità di altri eventi leucemogeni. Il fumo e l’esposizione a campi elettromagnetici o a basse dosi di radiazioni rappresentano a tutt’oggi dei fattori di rischio ancora da dimostrare, anche se una recente meta-analisi riporta un’associazione tra esposizione a campi magnetici > 0.2 µT e lo sviluppo di leucemia in età infantile (Zhao L et al, 2014).
Pertanto, quando uno o più di questi fattori provocano un’alterazione del processo fisiologico di maturazione della cellula linfoide in senso neoplastico, i linfoblasti perdono la capacità di dare origine a cellule normalmente maturanti, continuano ad espandersi e ad accumularsi, inizialmente nel midollo osseo e successivamente nel sangue periferico ed in altri organi e tessuti dando luogo alla comparsa della leucemia.
Gli eventi patogenetici precisi che portano allo sviluppo di una LAL sono sconosciuti, anche se nel corso degli ultimi decenni sono aumentate le evidenze che indicano che difetti cromosomici ed anomalie molecolari sono consistentemente presenti nei pazienti affetti da LAL (Armstrong SA, Look AT, 2005; Pui CH, 2008). È ad oggi noto che queste anomalie inducono una perdita del controllo esercitato dagli anti-oncogeni, una attivazione di oncogeni o la formazione di nuove proteine chimeriche con capacità oncogenica. Si ritiene che la LAL tragga origine dall’accumulo e dalla cooperazione di molteplici lesioni genetiche che si verificano nei progenitori emopoietici già diretti al differenziamento in cellule di linea B o T, incluse le mutazioni che conferiscono la capacità di auto-rinnovamento illimitato e quelle che portano ad un arresto dello sviluppo in una fase-specifica (Inaba H et al, 2013). Le cellule leucemiche presentato riarrangiamenti clonali nei geni delle Ig o del TR. La caratterizzazione di traslocazioni cromosomiche ricorrenti ha permesso l’identificazione di geni fondamentali per il processo di leucemogenesi (Rowley JD, 1998; Greaves M F, Wiemels J, 2003). L’utilizzo delle analisi di espressione genica per caratterizzare le differenze tra leucemie con varie aberrazioni cromosomiche ha rafforzato l’idea che specifiche anomalie cromosomiche definiscano specifiche leucemie (Yeoh EJ et al, 2002; Haferlach T et al, 2005; Chiaretti S et al, 2005; Haferlach T et al, 2010). Queste lesioni genetiche sono importanti per dare inizio ad un evento leucemico, ma da sole non sono sufficienti per generare un fenotipo leucemico completo; ciò sta ad indicare che è necessario l’intervento di altri eventi potenzialmente patogenetici (Mullighan CG et al, 2007). Inoltre, studi di epigenetica hanno evidenziato una correlazione tra il grado di metilazione del DNA ed alcuni sottotipi di LAL, sottolineando come cambiamenti nella metilazione del DNA possano giocare un ruolo importante nella determinazione del fenotipo del blasto leucemico (Figueroa ME et al, 2013).
Il tema dominante della ricerca contemporanea nella patogenesi della LAL è mirato ad identificarenuove alterazioni genetiche e di comprenderne le conseguenze, in termini di effetti sulla proliferazione, sul differenziamento e sulla sopravvivenza cellulare (Figura III). Queste lesioni genetiche ed i loro prodotti proteici costituiscono altresì bersagli potenziali per lo sviluppo di strategie terapeutiche, che colpiscano in maniera selettiva la cellula tumorale.
Figura III. Potenziali eventi patogenetici nello sviluppo di una LAL B (Inaba H et al, 2013)
Non esistono sintomi o segni clinici specifici della malattia; i sintomi sono ad insorgenza improvvisa, diversi da paziente a paziente, possono essere variamente associati, e sono complessivamente simili tra pazienti adulti e pediatrici. In genere, viene riferita una breve storia di astenia, febbre, sudorazione notturna, calo ponderale e talvolta dolori ossei, e manifestazioni emorragiche; questi sintomi sono il risultato della proliferazione delle cellule leucemiche nel midollo osseo e nel sangue, e della possibile compromissione di altri organi e sistemi come fegato, milza, linfonodi, mediastino e sistema nervoso centrale (SNC); meno frequenti sono le localizzazioni a livello delle ossa e delle articolazioni, della cute, dei reni e del polmone. Sono diretta espressione dell’insufficienza midollare l’astenia, il pallore o la tachicardia come conseguenza dell’anemia, le infezioni ricorrenti o prolungate a causa della neutropenia, la comparsa di manifestazioni emorragiche diverse (petecchie, gengivorragia, epistassi) dovute alla piastrinopenia. Possono essere presenti sintomi come nausea, cefalea o vomito come segno di compromissione del SNC, che si riscontra alla diagnosi nel 5-10% dei casi sia nei bambini che negli adulti. Un quadro particolare è quello rappresentato dalla localizzazione testicolare, spesso monolaterale, presente in percentuale maggiore nei bambini rispetto agli adulti, e la cui diagnosi va posta tramite biopsia con esame istologico; questo tipo di localizzazione è molto più frequente al momento della recidiva rispetto all’esordio della malattia.
L’esame emocromocitometrico può mostrare parametri come anemia, leucopenia o leucocitosi, piastrinopenia, che possono essere comuni con altre patologie di natura ematologica. Nei bambini, molto più che negli adulti, vi è spesso una leucopenia. Anche le altre analisi di laboratorio possono mostrare risultati anomali aspecifici (Tabella I).
Importante l’osservazione dello striscio periferico che può mostrare la presenza di blasti. L’indagine da eseguire, se il quadro clinico e l’emocromo portano ad un sospetto di una leucemia acuta, è l’agoaspirato midollare che consente l’esecuzione della maggior parte delle indagini che portano ad un corretto inquadramento diagnostico-prognostico della LAL. Una volta posta la diagnosi di LAL, è importante eseguire anche una rachicentesi che consiste nel prelievo, tramite un ago molto sottile inserito tra due vertebre lombari, del liquido cefalorachidiano per la ricerca di eventuali cellule leucemiche, segno di compromissione del SNC.
Tabella I. Indagini di laboratorio e dati clinici
La diagnosi e la classificazione della LAL si basano su di una procedura “multistep” che comprende l’analisi della morfologia, della citochimica, dell’immunofenotipo, della citogenetica classica e della genetica molecolare, talvolta, anche del riarrangiamento dei geni delle Ig e del TR (Jabbour EJ et al, 2005; Vitale A et al, 2006; Faderl S et al, 2010; Chiaretti S et al, 2014a). L’ integrazione tra queste diverse metodiche consente non solo un corretto inquadramento clinico-biologico della leucemia, ma anche una stratificazione prognostica (identificazione di fasce di rischio) e guida anche le scelte terapeutiche (Figura IV).
Figura IV. Inquadramento diagnostico
Il primo “step” nell’iter diagnostico di una LAL è rappresentato dall’osservazione al microscopio ottico degli strisci di sangue periferico e di sangue midollare preparati secondo la metodica di colorazione di May-Grunwald-Giemsa. La LAL è caratterizzata dalla presenza nel midollo osseo di elementi immaturi della linea linfoide in una quota uguale o superiore al 30%, secondo la classificazione proposta dal “French-American-British (FAB) cooperative group” (distinguendoli morfologicamente in L1, L2 e L3), o al 20%, secondo la ”World Health Organization (WHO)” (Figura V). La suddivisione morfologica tra forme L1 e L2 non viene quasi più utilizzata, poiché non ha ruolo prognostico; fanno eccezione le forme L3 che rappresentano un’entità a parte sia come caratterizzazione biologico-clinica, che come trattamento terapeutico e prognosi (vedi LAL-B mature) (Bennett JM et al, 1976; Harris Nl, et al, 1999; Jaffe ES et al, 2001; Thomas DA et al, 2006; Hoelzer D et al, 2014).
Figura V. Aspetti morfologici delle LAL
Per la LAL non esiste un test di citochimica specifico. Tuttavia, per definizione, la cellula linfoide leucemica è negativa al test per la mieloperossidasi (MPO). Le altre reazioni citochimiche, come la colorazione con l’acido periodico di Schiff (PAS) o il test per l’esterasi non-specifica, possono essere positive in alcuni sottogruppi di LAL, ma non sono specifiche, essendo presenti anche in casi di leucemia acuta mieloide (LAM).
Lo studio dell’immunofenotipo rappresenta un momento fondamentale nel “percorso” diagnostico di una LAL e ha un’importante valenza anche nella valutazione della malattia minima residua (MMR) (vedi oltre). Infatti, la cellula leucemica esprime antigeni di superficie ed intracitoplasmatici, la cui caratterizzazione consente di determinare la linea di appartenenza, il livello di differenziazione, e di maturazione, e le aberrazioni che la identificano (Szczepanski T et al, 2006; Orfao A et al, 2006). Nelle LAL il blasto leucemico presenta, nella quasi totalità dei casi, un immunofenotipo che non muta nel tempo e che permette l’individuazione della cellula leucemica anche quando è presente in quote piccolissime. Lo studio dell’immunofenotipo si esegue con tecniche citofluorimetriche utilizzando combinazioni (fino a 12) di anticorpi monoclonali coniugati a fluorocromi che consentono l’analisi contemporanea dei differenti antigeni espressi. Lo strumento utilizzato per l’analisi è il citofluorimetro; convenzionalmente, per considerare come positivo un determinato antigene su una cellula leucemica si richiede che sia espresso su almeno il 20% delle cellule, se di superficie, o il 10%, se intracitoplasmatico. Un altro parametro da valutare nella caratterizzazione immunologica delle LAL è rappresentato dall’intensità di fluorescenza dell’anticorpo monoclonale che consente di distinguere non solo la cellula leucemica dalla sua controparte normale, ma anche di “quantificarla” per il monitoraggio della MMR durante e dopo la terapia, anche quando è presente in piccolissimi numeri (sensibilità pari a 10-4). È possibile quantizzare l’espressione di un antigene mediante:
• MIF (Mean Intensity Fluorescence): valore fornito dal citofluorimetro che rappresenta il rapporto tra la fluorescenza del campione e quella dell’isotipo;
• ABC (Antibodies Bound per Cell): valore che si ottiene confrontando l’espressione di un antigene con una curva di riferimento con rapporti noti tra molecole di antigene/valore di fluorescenza.
Esistono anticorpi monoclonali che servono ad individuare e differenziare le cellule linfoidi della linea B (ad es. CD10, CD19, CD79a e CD22), da quelle della linea T (ad es. CD1a, CD3, CD7, cCD3) e da quelle della linea mieloide (ad es. MPO, CD13, CD33); esistono, inoltre, anticorpi non linea-specifici (ad es. il CD34). In base alla positività o meno con i diversi anticorpi monoclonali, è possibile distinguere le forme a fenotipo B, che rappresentano la maggioranza delle LAL (l’80-85% dei casi) e le forme a fenotipo T (il 15-20% dei casi), la cui incidenza aumenta, seppur lievemente, tra i 10 e 50 anni (Chiaretti S et al, 2013a) (Figura VI).
Figura VI. Incidenza delle LAL in base al fenotipo nelle diverse fasce d’età (Chiaretti S et al, 2013a)
La presenza di schemi classificativi consente una precisa definizione immunologica della LAL (Bene MC et al, 1995; Bene MC, 2005). Sia le forme B che T vengono distinte in quattro gruppi in base all’espressione di determinati antigeni di superficie ed intracitoplasmatici che rispecchiano il grado di differenziazione del linfocita; le forme T vengono ulteriormente classificate per la presenza dell’antigene TR specifico (α/β e γ/δ) (Tabella II).
Tabella II. Classificazione immunologica delle LAL
L’ ultima revisione della classificazione WHO (Arber DA et al, 2016) ha inoltre aggiunto come entità provvisoria (provisional) nell’ambito delle LAL-T le “early T precursor” (LAL-ETP). Le LAL-ETP rappresentano un sottogruppo contraddistinto da un profilo trascrizionale simile alla cellula staminale e da un immunofenotipo caratterizzato dalla positività del cCD3 e del CD7, dall’assenza o dalla debole espressione del CD5 (meno del 75% dei blasti), dalla negatività del CD1a e CD8, e dall’espressione di almeno un antigene della linea mieloide o della cellula staminale (CD13 e/o CD33, CD11b, CD65, CD34, HLA-DR e CD117) (Coustan-Smith E et al, 2009; Chopra A et al, 2013). Come discusso in seguito (vedi LAL “early T precursor” (ETP)), il riconoscimento di questo sottogruppo ha importanti ricadute cliniche poiché è stata riportata una prognosi sfavorevole nei pazienti trattati con una chemioterapia non intensiva.
Mentre è relativamente facile differenziare le LAL a fenotipo B da quelle a fenotipo T, in una piccola percentuale di casi è difficile distinguere tra forme linfoidi e mieloidi. Questi casi possono coesprimere antigeni linfoidi e mieloidi sulla stessa cellula (leucemia bifenotipica) o su popolazioni differenti (leucemia ibrida); non c’è consenso per quanto riguarda i criteri diagnostici da utilizzare in questi casi. L’“European Group for the Immunological Characterization of Leukemias (EGIL)” ha suggerito di usare un sistema a “score”, basato sull’assegnazione di un preciso punteggio ad antigeni di linea B, T o mieloidi e sulle loro associazioni (Bene MC et al, 1995). Secondo questo rigoroso sistema di punteggio, possono essere identificati quattro gruppi; il gruppo più comune è quello che coesprime sui blasti antigeni mieloidi e linfoidi B, meno comune è il gruppo che coesprime antigeni mieloidi e linfoidi T. Infine, rari sono i casi che esprimono antigeni di linea B e T, ed i casi con coespressione trilineare (mieloidi, linfoidi B e T). Una revisione di tale classificazione fatta nel 2008 dalla WHO (Vardiman JW et al, 2009) ha apportato alcuni cambiamenti nella diagnosi e classificazione delle leucemie di difficile assegnazione di linea. Le leucemie in precedenza designate come “ibride” e “bifenotipiche” sono ora considerate globalmente come “mixed phenotype acute leukemias (MPAL)” ed i casi senza marcatori di linea come “acute undifferentiated leukemias (AUL)”. I criteri che definiscono le componenti mieloidi, linfoidi B e T delle MPAL sono stati significativamente modificati e sono riassunti nella Tabella III.
Tabella III. Marcatori utilizzati nella classificazione WHO 2008 per la diagnosi di MPAL (Vardiman JW et al, 2009) ed ulteriormente ridotti nella classificazione WHO 2016 (Arber DA et al, 2016)
Altri marcatori sono utilizzati per identificare il livello di maturazione delle cellule leucemiche ed eventualmente stabilire fenotipi atipici o aberranti che possono, talvolta, essere indicativi di una specifica lesione genetica. Infine, alcuni antigeni possono suggerire la presenza di una lesione genetico-molecolare specifica; due esempi in tal senso sono rappresentati dall’espressione del CD66c nei casi che presentano il trascritto BCR-ABL1 e dalla positività dell’antigene NG2 nei casi che presentano riarrangiamenti a carico del gene KMT2A (alias MLL1) (Tang GS et al, 2015; Zangrando A et al, 2008). Una quota variabile di LAL esprime marcatori apparentemente non linea-associati, come ad esempio gli antigeni mieloidi ed il CD34. L’incidenza delle LAL dell’adulto che presentano l’espressione di antigeni mieloidi varia dal 15% al 35%, mentre nelle LAL pediatriche varia dal 4% al 15%. Tale ampio range può essere correlato al numero degli antigeni utilizzati, alla sensibilità degli anticorpi monoclonali usati, al livello di cut-off stabilito e a fattori tecnici (ad es. dalla sensibilità della tecnica di citofluorimetria o dalla strategia di “gating”). La positività dei blasti leucemici per gli antigeni mieloidi non rappresenta più un fattore prognostico sfavorevole (Vitale A et al, 2007); può però risultare utile per il monitoraggio immunologico della MMR. Il CD34 è l’antigene più comunemente utilizzato per definire il progenitore emopoietico immaturo; infatti, è presente solo nell’1% delle cellule midollari, non è linea-ristretto e può essere espresso sia nelle LAL che nelle LAM. Circa il 70% delle LAL esprime il CD34 ed è molto più frequente nelle LAL-B (70-80%) che nelle LAL-T (20-30%); è presente in un’alta percentuale nelle LAL-B con cromosoma Philadelphia (LAL Ph+).
La quantificazione dell’espressione di determinati antigeni nella popolazione leucemica può avere implicazioni terapeutiche. Gli anticorpi monoclonali, infatti, rappresentano, ad oggi, un importante cardine terapeutico nelle malattie linfoproliferative. Ciò vale in particolare per gli anticorpi diretti contro il CD19, CD20, CD22 ed in minor misura il CD52 ed il CD33, che possono essere espressi sui blasti linfoidi. La percentuale di positività ed il grado di espressione della popolazione leucemica – tanto alla diagnosi che alla recidiva – sono rilevanti per un loro potenziale utilizzo clinico. Un lavoro del nostro gruppo (Raponi S et al, 2011) ha mostrato che l’espressione degli antigeni CD19, CD20, CD22 e CD33 è variabile, e può associarsi ai diversi stadi di differenziazione ed alla presenza di anomalie molecolari.
L’analisi citogenetica rappresenta un passo ulteriore nella caratterizzazione delle LAL. La citogenetica convenzionale consente di identificare le alterazioni del cariotipo solo in una parte dei pazienti affetti da LAL per la difficoltà del blasto linfoide ad andare in mitosi. Le nuove tecnologie, sviluppate su base molecolare, consentono di identificare la presenza di anomalie cariotipiche prima non individuabili (Speicher MR, Carter NP, 2005). E’ importante riuscire a valutarne la presenza poiché è dimostrato il loro valore nella prognosi della malattia (Mancini M et al, 2005; Moorman AV et al, 2007; Pullarkat V et al, 2008).
Per la ricerca delle anomalie cromosomiche si possono ora utilizzare numerose tecniche (Tabella IV).
Tra queste, le più utilizzate sono:
La citogenetica convenzionale rimane il test di base per la diagnosi di LAL. Tuttavia, la necessità di studiare metafasi rappresentative del clone leucemico e l’incapacità di evidenziare piccole anomalie cromosomiche sottolineano la necessità di un’integrazione con test addizionali per rilevare anomalie citogenetiche criptiche (Moorman AV, 2012a).
Tabella IV. Principali tecniche di citogenetica ed analisi molecolare utilizzate nella diagnosi delle LAL (Moorman AV, 2012a)
Le alterazioni citogenetiche possono essere di struttura, di numero o di entrambi:
• di struttura:
– traslocazioni
– delezioni
– inversioni
• di numero:
– ipodiploidie (<46 cromosomi)
– iperdiploidie (>46 cromosomi)
La maggior parte delle anomalie cromosomiche sono strutturali: le più frequenti sono le traslocazioni, mentre sono più rare le inversioni, le delezioni o le duplicazioni. Il risultato finale di tali anomalie è rappresentato da 1) una perdita del controllo esercitato dagli anti-oncogeni, 2) un’attivazione di oncogeni, 3) un’attivazione di nuove proteine con potenziale attività di trascrizione.
Meno frequenti sono le anomalie di numero. Le iperdiploidie sono presenti nel 5-10% dei casi adulti e l’associazione con una migliore prognosi è meno evidente che nei bambini (presenti in circa 25% dei casi). Al contrario, la presenza di ipodiploidia (2-4% delle LAL) è associata, tanto nei bambini che negli adulti, ad una prognosi sfavorevole. Studi recenti evidenziano che i casi ipodiploidi sono caratterizzati da lesioni genetiche specifiche (Holmfeldt L et al, 2013; Mühlbacher V et al, 2014; Safavi S et al, 2017).
Molte delle più comuni traslocazioni vengono studiate a livello molecolare utilizzando le tecniche di “Reverse-Transcriptase Polymerase Chain Reaction” (RT-PCR) e varianti (Chomczynski P et al, 1987; Beillard E et al, 2003; Elia L et al, 2003). Più in particolare:
• le analisi tramite RT-PCR qualitativa:
– individuano la presenza di trascritti di fusione all’esordio di malattia e durante il follow-up clinico: es. BCR-ABL1, riarrangiamenti di KMT2A (in particolar modo KMT2A/AFF1), TCF3-PBX1, SIL-TAL1, ecc, mentre la nested-RT-PCR può essere utilizzata durante il follow-up clinico
– non definiscono “quantitativamente” l’entità della malattia;
• le analisi tramite RT-PCR quantitativa (RT-qPCR):
– consentono di “quantificare” la malattia all’esordio e durante il follow-up clinico analizzando quei marcatori molecolari identificati con la PCR qualitativa.
Oltre ai trascritti di fusione, che vengono identificati nel 30-40% dei casi, le LAL sono caratterizzate dalla presenza di un riarrangiamento clonale, paziente-specifico, dei geni delle Ig e/o TR che consente di differenziarle dalle proliferazioni linfoidi reattive e aiuta, in casi dubbi, a definire la linea di appartenza del clone neoplastico (Van Dongen JJ et al, 2003; Brüggemann M et al, 2004). Sequenziando il DNA estratto dalle cellule leucemiche è possibile identificare tali riarrangiamenti all’esordio della malattia e disegnare sonde idiotipiche, specifiche per il singolo paziente, che possono essere utilizzate nei successivi controlli per valutare la risposta alla terapia tramite la tecnica dell’allele-specific oligonucleotide (ASO)-qPCR.
In termini molecolari, i riarrangiamenti cromosomici o i loro equivalenti submicroscopici sono di due tipi: quelli in cui il “breakpoint” (punto di rottura) avviene entro i geni coinvolti, portando alla produzione di un trascritto di fusione e ad una proteina chimerica (cambiamento qualitativo), e quelli che rappresentano errori del riarrangiamento Ig/TR (cambiamento quantitativo).
Le anomalie qualitative predominano nelle LAL-B; gli “errori” di riarrangiamento sono, invece, molto più frequenti nelle LAL-T, dove rappresentano la maggioranza delle alterazioni molecolari. Nell’ambito delle LAL-B le anomalie qualitative più frequenti sono:
Il numero dei riarrangiamenti è in costante aumento grazie all’introduzione delle metodiche di sequenziamento di nuova generazione (next generation sequencing, NGS) (vedi BCR-ABL1-like).
Le anomalie quantitative più comuni sono invece determinate da riarrangiamenti che giustappongono l’enhancer delle catene pesanti delle immunoglobuline (IgH) ad oncogeni quali CEBPA, ID4, EPOR, IL3 e CRLF2 determinandone una deregolazione dell’espressione. Tali riarrangiamenti sono più frequenti nei giovani adulti, dove sono riscontrati in circa l’11% dei casi (Moorman AV et al, 2012b; Russell LJ et al, 2014).
In particolare, tra i riarrangiamenti associati ad una deregolazione di oncogeni, ricordiamo quelli a carico di CRLF2, un gene localizzato nella regione pseudoautosomica (PAR1) dei cromosomi X ed Y che codifica per una proteina transmembrana che, associata alla catena IL7R, costituisce il recettore della linfopoietina timica stromale (TLSP). Il recettore attivato trasmette segnali di proliferazione cellulare attraverso la via di segnalazione JAK/STAT. CRLF2 è coinvolto in due diversi tipi di riarrangiamenti: quello con il locus per la catena pesante delle immunoglobuline (IgH), che dà luogo al trascritto IGH-CRLF2, oppure con il primo introne di P2RY8 in seguito a delezioni interstiziali della regione PAR1. In entrambi i casi si verifica una iperespressione di CRLF2 e conseguente attivazione della via di segnalazione di JAK/STAT (O’Reilly J et al, 2013). Le alterazioni a carico di CRLF2 si riscontrano nel 5-10% delle LAL-B, e sono più frequenti nel sottogruppo dei BCR-ABL1-like (vedi approfondimento LAL BCR/ABL1-like ). Inoltre, il riarrangiamento IGH-CRLF2 si riscontra in circa il 50% dei casi con sindrome di Down (Mullighan CG et al, 2009a; Russel LJ et al, 2009; Cario G et al, 2010; Harvey RC et al, 2010a; Hertzberg L et al, 2010; Yoda A et al, 2010). Sono spesso associate a mutazioni a carico di JAK2 e JAK1, e/o delezioni di IKZF1. Recenti studi hanno dimostrato che l’iperespressione di CRLF2 correla con una prognosi infausta sia nel bambino che nell’adulto (Chiaretti S et al, 2016a).
Nelle LAL-B pediatriche sono state descritte le amplificazioni intracromosomiche del cromosoma 21 (iAMP21), caratterizzate dalla presenza di multiple regioni di inversione, delezione, duplicazione ed amplificazione lungo l’intera lunghezza di questo cromosoma (Li Y et al, 2014; Harvey RC, et al 2010b). Si riscontrano in circa il 2-5% dei bambini, soprattutto ipoleucocitari, mentre sono rare negli adulti (Moorman AV et al, 2010a; Harrison CJ, et al. 2014). Questa alterazione è ora considerata nell’ultima classificazione WHO come un’entità distinta nel gruppo delle LAL. In diversi report sembra che i pazienti con iAMP21 presentino una sopravvivenza libera da eventi (EFS) e una sopravvivenza globale (OS) significativamente inferiore con un tasso di recidiva più elevato rispetto ad altri pazienti con LAL-B, soprattutto se trattati come rischio standard (Moorman AV et al, 2010; Moorman AV, 2012a: Schrappe M et al, 2018). Nello studio UKALL2003, i pazienti con iAMP21 sono stati trattati con schemi di trattamento ad alto rischio, con miglioramenti significativi dell’EFS a 5 anni, del rischio di ricaduta e dell’OS (Moorman AV et al, 2013). Questi risultati sono stati confermati anche dal Children’s Oncology Group (COG) (Heerema NA et al, 2013).
Per ciò che concerne le LAL-T, le anomalie quantitative sono prevalentemente legate ai riarrangiamenti del TR, e generalmente giustappongono gli enhancers, o promotori, del TR a fattori di trascrizione coinvolti nel differenziamento cellulare, determinandone un’espressione aberrante nei progenitori T linfocitari ed una deregolazione dell’emopoiesi. I fattori di trascrizione più comunemente coinvolti sono: TAL1, TAL2, LMO1, LMO2, TLX1, TLX3, NKX2.1, NKX2.2, NKX2.5, i geni del gruppo HOXA, MYC, MYB e NOTCH1; tuttavia, il numero di geni con cui il TR può combinarsi sta aumentando (Ferrando AA et al, 2002; Graux C et al, 2006; Grabher C et al, 2006; Le Noir et. al, 2012).
Alcuni di questi fattori di trascrizione possono essere attivati anche in seguito a riarrangiamenti alternativi. Per esempio, TLX3 è comunemente attivato in seguito ad un riarrangiamento con BCL11B. Inoltre, piccole delezioni intracromosomiche nella regione 1p32 sono responsabili della formazione di SIL-TAL1, mentre delezioni criptiche nel cromosoma 11p13 possono portare all’attivazione di LMO2. Diversi studi hanno dimostrato che queste microdelezioni avvengono in corrispondenza di sequenze che vengono riconosciute come segnali di ricombinazione, analogamente a quanto avviene per i geni del TR (Larmonie NS et, 2013; Mendes RD et al, 2014).
Le fusioni che producono una proteina chimerica con attività oncogenica sono invece meno frequenti: queste possono coinvolgere MLL e MLLT10, le nucleoporine NUP98 e NUP214, e le tirosin-chinasi (TK), come il riarrangiamento NUP214-ABL1, riscontrato nel 6% dei casi, ed EML1-ABL1 (De Keersmaecker K et al, 2005; Chiaretti S et al, 2007; Gorello P et al, 2010). In rari casi sono stati descritti riarrangiamenti del gene MYC anche nelle LAL-T con un comportamento estremamente aggressivo, al pari delle LAL-B mature t(8;14)/MYC+ (Lange BJ et al, 1992; Parolini M et al, 2014). Spesso si riscontrano anche delezioni di CDKN2A e CDKN2B, come nelle LAL-B, e le amplificazioni di MYB (Lahortiga I, et al, 2007).
Le principali anomalie genetiche nelle LAL-B e T sono riportate nelle Tabelle V e VI. Per il momento solo per una quota di queste traslocazioni è stato possibile associare delle caratteristiche biologiche, cliniche e prognostiche ben definite.
Tabella V. Principali traslocazioni nelle LAL B e lesioni genetiche più frequentemente associate (adattata da Messina M et al, 2016)
Tabella VI. Principali sottotipi molecolari delle LAL-T e lesioni genetiche più frequentemente associate (Messina M et al, 2016)
L’ incidenza di alcuni trascritti è diversa tra adulto e bambino (Harrison CJ, 2009; Chiaretti S et al, 2013a) (Figura VII). Ad esempio, la presenza del trascritto BCR-ABL1 si osserva nel 25-30% degli adulti ed incrementa con il progredire dell’età (circa il 50% delle LAL diagnosticate dalla sesta decade di vita in avanti presentano il trascritto BCR-ABL1) mentre è presente nei bambini solo nel 2-5% dei casi. Al contrario, il trascritto TEL-AML1 (alias ETV6-RUNX1) è presente in meno dell’1% dei pazienti adulti e nel 20-30% dei casi pediatrici con andamento decrescente nelle successive fasce d’età. Infine il riarrangiamento SIL-TAL1 è presente nel 5-10% degli adulti e nel 10-20% dei bambini con LAL-T. Il trascritto KMT2A/AFF1 presenta, invece, un particolare andamento. Infatti, si riscontra in circa il 60-70% dei casi con età inferiore ad un anno, è virtualmente assente al di sotto degli 1-5 anni e mostra un lieve incremento fino ai 50 anni per poi ridursi. E’ interessante notare come la fascia d’età degli adolescenti/giovani adulti (AYA) era, in precedenza, caratterizzata da un numero di lesioni genetiche relativamente scarso: questo scenario è cambiato nel corso dell’ultima decade, poiché lenuove alterazioni genetiche e/o i nuovi sottogruppi (ad esempio BCR/ABL1-like ed ETP) prevalgono proprio in questa fascia di pazienti.
Figura VII. Distribuzione per età delle maggiori anomalie citogenetico-molecolari (Harrison CJ, 2009)
Le tecniche di studio del profilo genico – intendendo non solo il profilo trascrizionale, ma anche gli SNPs arrays e, più recentemente, le tecniche di NGS – stanno consentendo di comprendere in modo più approfondito i meccanismi sottostanti la trasformazione leucemica, di identificare nuovi sottogruppi prognostici e possibili bersagli terapeutici. Con il miglioramento delle conoscenze, è auspicabile che l’iter diagnostico, prognostico e terapeutico dei pazienti con LAL alla diagnosi e in recidiva possa essere ulteriormente raffinato e personalizzato.
Il profilo di espressione genica ha – sul finire degli anni ’90 – consentito di chiarire che nell’ambito della LAL, vi sono due gruppi separati e ben definiti che sono le forme a cellule B e quelle a cellule T. Ulteriori analisi hanno identificato un profilo genico distinto correlabile ai casi con trascritto TCF3-PBX1 e KMT2A/AFF1. Inoltre, un’analisi integrata tra le LAL dell’adulto e pediatriche ha consentito di evidenziare una stretta somiglianza genica tra le forme che presentano lo stesso riarrangiamento molecolare indipendentemente dall’età (Yeoh EJ et al, 2002; Chiaretti S et al, 2005; Kuchinskaya E et al, 2005). Successivamente, l’introduzione degli SNP arrays ha consentito di identificare delezioni ed amplificazioni a livello submicroscopico, e di evidenziare – nell’ambito delle LAL-B – la presenza di alterazioni ricorrenti a carico di geni coinvolti nel differenziamento linfoide, nel ciclo cellulare e nell’apoptosi (Irving JA et al, 2005; Kuiper RP et al, 2007; Mullighan CG et al, 2007; Kawamata N et al, 2008; Paulsson K et al, 2008).
Infine, negli ultimi anni, le tecniche di NGS hanno consentito di rilevare alterazioni specifiche e di approfondire le basi molecolari di particolari sottogruppi. Ad esempio, uno studio di casi con ipodiploidia (Holmfeldt et al, 2013) ha permesso di riscontrare un’alta percentuale di lesioni specifiche coinvolgenti i recettori delle TK, il pathway di RAS e le mutazioni di TP53 con un’incidenza variabile a seconda del grado di aneuploidia. Inoltre, l’analisi di pazienti refrattari o recidivati (R/R) ha portato ad identificare mutazioni a carico del gene NT5C2, che codifica un enzima coinvolto nella defosforilazione di farmaci analoghi dei nucleosidi. Tali mutazioni, più frequenti nelle LAL-T, conferiscono resistenza ai farmaci comunemente usati durante il mantenimento, come la 6-mercaptopurina, e si riscontrano, pertanto, soprattutto alla recidiva (Meyer et al, 2013; Tzoneva G et al, 2013).
Altri gruppi, identificati tramite il profilo d’espressione genica ed ampiamente valutati mediante la tecnica di NGS, sono rappresentati dai casi BCR-ABL1-like ed ETP, che verranno discussi in dettaglio sotto.
Globalmente, una nelle alterazioni più frequenti nell LAL-B colpiscono i geni coinvolti nel differenziamento del linfocita B (IKZF1, PAX5, EBF1, VPREB1, BTG1) (Figura VIII). Tra queste, rivestono particolare significato biologico e clinico le delezioni e/o mutazioni a carico di IKZF1 che codifica il fattore di trascrizione IKAROS (Martinelli G et al, 2009; Mullighan CG et al, 2009b): esse possono essere riscontrate nella maggior parte dei casi con riarrangiamento di BCR-ABL1 e nel sottogruppo dei BCR-ABL1-like. Inizialmente, era stata riportata un’associazione tra le delezioni di IKZF1 ed una prognosi sfavorevole (Martinelli G et al, 2009; Kuiper RP et al, 2010; Moorman AV et al, 2012b; Van der Veer A et al, 2013; Van der Veer A et al, 2014). Mentre questa osservazione è stata confermata da numerosi gruppi in ambito pediatrico (Olsson L et al, 2015a; Olsson L, 2015b; Asai D et al, 2013; Dörge P et al, 2018: Tran TH et al, 2018 Vrooman LM et al, 2018; Steeghs EMP et al, 2019) e, in parte nei casi BCR-ABL1+ (Mullighan CG et al, 2008; Fedullo AL et al, 2019; Tang S et al, 2019), il ruolo prognostico di IKZF1 è ancora dibattuto negli adulti BCR-ABL1- (Zhang W et al, 2017; Messina M et al 2017; Ribera J et al, 2019). In particolare, sembrerebbe che il valore di IKZF1 sia dovuto alla compresenza di altre delezioni ad impatto prognostico negativo come quelle di CDKN2A (Messina M et al, 2017); inoltre, come discusso oltre, anche nelle LAL BCR-ABL1+, risultati recenti mostrano come il ruolo prognostico di IZKF1 sia sostenuto dalla concomitanza di altre lesioni genomiche, e fa suporre quindi che la peggiore prognosi sia ascrivibile ad una maggiore instabilità genomica (Fedullo AL et al, 2019).
Altri geni frequentemente interessati da delezioni e mutazioni sono quelli coinvolti nella regolazione del ciclo cellulare (CDKN2A/2B, RB1, TP53), della trascrizione (ETV6, TBL1XR1, ERG), della segnalazione linfoide (BTLA, CD200, TOX), nelle modificazioni epigenetiche (EZH2, CREBBP, SETD2, MLL2, NSD2) e nella cascata di trasduzione di RAS (NF1, KRAS, NRAS, PTPN11). Le mutazioni del pathway di RAS sembrano essere particolarmente rilevanti tanto alla diagnosi (Messina M et al, 2016) quanto alla recidiva: infatti, studi condotti in ambito pediatrico hanno dimostrato che tali lesioni (NRAS, KRAS e PTPN11) sono eventi frequenti alla recidiva di malattia (Irving J et al, 2014; Oshima K et al, 2016).
Alle lesioni sovracitate si aggiungono le lesioni dei recettori delle citochine e numerose TK (ABL1, ABL2, CRLF2, CSF1R, EPOR, FLT3, IL2RB, IL7R, JAK1/2, NTRK3, PDGFRB) (Mullighan CG et al, 2009c; Inaba H et al, 2013). Inoltre, un confronto tra pazienti pediatrici, adolescenti e adulti ha messo in evidenza una diversa incidenza delle mutazioni di geni appartenenti a vie del segnale fondamentali per la sopravvivenza cellulare (Messina M et al, 2016) (Figura IX). In particolare, le mutazioni a carico di KRAS e NRAS prevalgono nei pazienti pediatrici, mentre le mutazioni di FLT3 e dei geni appartenenti alla cascata JAK/STAT sono prevalentemente mutate nei casi di età superiore a 15 anni e correlano con un andamento clinico sfavorevole.
Diversi studi hanno, invece, dimostrato l’impatto prognostico sfavorevole delle mutazioni di TP53 sia in età pediatrica che adulta. Tuttavia, mentre nell’adulto tali mutazioni sono presenti all’esordio di malattia nell’8% dei casi, in età pediatrica si riscontrano soprattutto alla recidiva (6% delle LAL-T e 12% delle LAL-B) (Hof J et al, 2011; Krentz S et al, 2013; Chiaretti S et al, 2013b).
Per quanto riguarda le LAL-T, vengono frequentemente riscontrati riarrangiamenti cromosomici che giustappongono i geni homeobox (HOX) o fattori di trascrizione in posizioni adiacenti al locus del TR (circa il 91% dei casi), determinando un’espressione alterata dei fattori di trascrizione e un’espressione anormale dei geni coinvolti nella regolazione dello sviluppo delle cellule T (Liu Y et al, 2017; Tavakoli Shirazi P et al, 2020). I pathways molecolari più frequentemente alterati nelle LAL-T sono rappresentati dal pathway di NOTCH1 (60%), JAK-STAT (25%), PI3K- mTOR (29%) e RAS (14%) (Liu Y et al, 2017). Infatti, le mutazioni a carico di NOTCH1/FBXW7 e la delezione di CDKN2A/2B (9p21) rappresentano le lesioni più frequenti nelle LAL-T. Altre lesioni ricorrenti possono interessare le TK, i recettori di citochine o i geni della trasduzione del segnale (IL7R, JAK1, JAK3, STAT5B, PTPN2, PTPRC, PTEN, K/NRAS, NF1, FLT3). A queste possono aggiungersi alterazioni in geni coinvolti nella regolazione della trascrizione (ETV6, RUNX1, GATA3, LEF1, WT1, BCL11B) e delle modificazioni epigenetiche (PHF6, SUZ12, EZH2, TET2, H3F3A e KDM6A) (Belver L, Ferrando A, 2016). Sono state inoltre identificate lesioni che coinvolgono la sintesi ribosomiale, come RPL5 e RPL10, e la maturazione dell’mRNA come CNOT3 (De Keersmaecker K et al, 2013). Recenti studi hanno confermato come l’effetto sinergico di queste alterazioni genetiche e della deregolazione di specifici pathways molecolari siano alla base dell’insorgenza, l’evoluzione e la progressione delle LAL-T (La Starza R et al, 2020; Tavakoli Shirazi P et al, 2020).
L’identificazione di alcune di queste alterazioni molecolari sembra avere significato prognostico rilevante soprattutto nell’adulto. Il gruppo francese GRAAL ha proposto un modello prognostico che definisce a basso rischio i pazienti con mutazioni in NOTCH1 e FBXW7 e ad alto rischio i pazienti senza mutazioni in NOTCH1/FBXW7 o con concomitanti mutazioni in PTEN o K/NRAS (Trinquand A et al, 2013; Beldjord K et al, 2014). Controverso è invece l’impatto prognostico delle lesioni a carico della via del segnale di JAK/STAT, probabilmente dovuto a differenze negli schemi terapeutici ed alla cooperazione di lesioni aggiuntive (Flex E et al, 2008; Jeong EG et al, 2008; Asnafi V et al, 2010; Kleppe M et al, 2010; Shochat C et al, 2011; Bandapalli OR et al, 2014; Vicente C et al, 2015). Uno studio su pazienti trattati con schemi chemioterapici convenzionali ha recentemente dimostrato che le mutazioni a carico di JAK/STAT correlano con un maggior rischio di recidiva e con una OS più breve rispetto ai casi senza mutazioni (Gianfelici V et al, 2016).
Figura VIII. Distribuzione per età delle delezioni più frequenti nelle LAL-B senza trascritti molecolari comuni. *Lesioni la cui incidenza è statisticamente significativa rispetto al gruppo pediatrico (p<0.05) (Messina M et al, 2016)
Figura IX. Distribuzione per età delle lesioni a carico delle vie del segnale di RAS e JAK/STAT nelle LAL-B senza trascritti molecolari comuni (Messina M et al, 2016)
Lo studio della MMR consente una misurazione diretta della “quantità” di malattia residua durante e dopo il trattamento. Tale analisi ha assunto grande importanza poichè è ormai assodata la stretta correlazione tra la sopravvivenza libera da malattia (DFS) ed i livelli di MMR (Campana D, 2009; Bruggemann M et al, 2012a; Gökbuget N et al, 2012a; Ribera JM et al, 2014) (Figura X). Infatti, gli studi clinici, inizialmente pediatrici e successivamente riguardanti anche gli adulti, che hanno inserito la valutazione della MMR a tempi definiti durante il trattamento, hanno dimostrato come la sua riduzione, soprattutto se precoce, porti ad una migliore DFS e ad un minor rischio di recidiva (Bruggemann M et al, 2006; Borowitz MJ et al, 2008; Basso G et al, 2009; Bassan R et al, 2009; Stow P et al, 2010; Conter V et al, 2010; Gökbuget N et al, 2012a; Karsa M et al, 2013; Beldjord K et al, 2014). Va sottolineato che la clearance della MMR sembra verificarsi in modo più lento negli adulti rispetto ai bambini.
Figura X. Sopravvivenza a 5 anni nei pazienti adulti affetti da LAL (15-55 anni), BCR-ABL1-negativi, analizzati in base alla risposta molecolare al termine del consolidamento (Gökbuget N et al, 2012a)
Una delle più importanti sfide nel trattamento di una leucemia è rappresentata dalla possibilità di distinguere i pazienti che hanno necessità di un trattamento meno intensivo, e quindi meno tossico, da quelli che hanno invece necessità di trattamenti più aggressivi. La presenza o meno della MMR rappresenta un modo per poter definire queste due categorie di pazienti e di conseguenza somministrare il trattamento più adeguato. Alla luce di questo risultato ampiamente assodato, gli attuali protocolli clinici tanto pediatrici che adulti stratificano i pazienti sulla base del monitoraggio della MMR (Yeoh AE et al, 2012; Nagafuji K et al, 2013; Vora A et al, 2013; Ribera JM et al, 2014; Gandemer V et al, 2014; Bassan R et al, 2014; Berry DA et al, 2017 ).
Convenzionalmente, il criterio per definire un paziente con una leucemia in remissione completa (RC) si basa sull’esame morfologico al microscopio ottico del sangue midollare; un paziente è definito in RC quando la quota di cellule midollari leucemiche è inferiore al 5%. Questo dato, fondamentale nel passato, non è adeguato oggigiorno per le successive scelte terapeutiche che si avvalgono invece del monitoraggio della MMR durante il decorso clinico.
In generale, affinché la MMR abbia valore prognostico, deve essere “affidabile” e, perché questo sia vero, deve rispondere a requisiti di:
– Specificità: capacità di riconoscere le cellule normali da quelle leucemiche.
– Sensibilità: capacità di rilevare almeno una cellula leucemica in un contesto di ≥10.000 cellule normali.
– Riproducibilità: standardizzazione dei metodi.
– Applicabilità: eseguibile nella totalità, o almeno in una altissima percentuale, di casi.
Ad oggi, le tecniche più comunemente utilizzate per la quantificazione della MMR nelle LAL sono rappresentate dall’analisi immunofenotipica e dall’analisi molecolare per i geni delle Ig e del TR che, come già menzionato, sono paziente-specifici, e per i trascritti di fusione.
– La quantificazione fenotipica della MMR – eseguita mediante citofluorimetria a flusso – si avvale dell’identificazione della specifica espressione di antigeni e/o di combinazioni di essi, da parte delle cellule leucemiche al momento della diagnosi (Szczepanski T et al, 2006; Vidriales MB et al, 2003; Theunissen P et al, 2017). Benchè questa metodica consenta di monitorizzare praticamente tutti i pazienti e di fornire risultati nell’arco di poche ore, essa presenta dei limiti: 1) Utilizzando combinazioni di 4-6 marcatori al citofluorimetro, la sensibilità non è superiore a 10-4 (1 cellula leucemica su 10.000 eventi). L’impiego di combinazioni di un numero maggiore di fluorocromi (fino a 12) sta in ovviando a questo limite. 2) Necessità di un numero di cellule congruo, non sempre ottenibili in campioni prelevati dopo la chemioterapia. 3) Durante la fase rigenerativa post-chemioterapia, può essere difficile distinguere i cosiddetti “ematogoni” dalle cellule leucemiche. 4) Richiede una profonda conoscenza della metodica. 5) I costi sono relativamente elevati. 6) I risultati ottenuti da laboratori diversi non sono facilmente confrontabili in quanto non esiste a tutt’oggi una standardizzazione della metodica e del pannello di anticorpi da utilizzare. Al fine di minimizzare queste problematiche, l’EuroFlow Consortium ha ottimizzato e standardizzato i protocolli di immunotipizzazione per la diagnosi, la classificazione e la stratificazione prognostica delle neoplasie ematologiche, nonché per lo studio della MMR durante il follow-up clinico. Tuttavia, è necessario sottolineare che l’esperienza dell’operatore è una condizione imprescindibile, e quindi può rappresentare un limite, per la corretta valutazione dei risultati di MMR (Dworzak MN et al, 2010; Kalina T et al, 2012; Kalina T et l, 2019).
– L’analisi molecolare tramite real-time quantitative PCR (qPCR) rappresenta un metodo affidabile e preciso per il monitoraggio della MMR (Beillard E et al, 2003; van der Velden VH et al, 2007). L’ASO-qPCR consente di quantificare la malattia attraverso l’uso di sonde paziente-specifiche disegnate sui riarrangiamenti clonali dei geni delle Ig e/o del TR nel 90-95% dei casi, con una sensibilità molto alta, che raggiunge i livelli di 10-5-10-6. Si tratta di una metodica largamente standardizzata e sottoposta a continui controlli di qualità. E’ il metodo più applicato per lo studio della MMR ed è stato ampiamente standardizzato all’interno dell’EuroMRD Consortium (precedentemente noto come European Study Group-ESG-MRD-ALL) che ha stabilito linee guida per l’analisi e l’interpretazione dei dati di qPCR (van der Velden VH et al, 2007). L’ASO-qPCR è una metodica laboriosa, che richiede una profonda conoscenza ed esperienza; anche se applicabile alla maggior parte dei pazienti, vi è una piccola percentuale di casi (fino al 5-7%), generalmente a fenotipo più immaturo, in cui non è possibile identificare un riarrangiamento; inoltre, in alcuni casi problemi tecnici possono compromettere l’identificazione del target molecolare. Un altro limite di questo approccio è rappresentato dall’evoluzione clonale dei riarrangiamenti Ig/TR nel corso della malattia ed alla recidiva, che può verificarsi nei casi con riarrangiamenti oligoclonali, presenti già alla diagnosi e non identificati, diversi dal clone principale, che possono portare a risultati di MMR falsi negativi (Szczepański T et al, 2003). La quantità di DNA diagnostico è un altro fattore limitante, poiché la quantificazione della MMR durante il follow-up è espressa in relazione alla diagnosi e di conseguenza ogni esperimento prevede la simultanea quantificazione del materiale dell’esordio. Infine, la qPCR non è in grado di definire con precisione la quantità di malattia residua nei casi con livelli di MMR molto bassi. Questi casi vengono definiti “positivi-non quantificabili” (PNQ) e la loro quantificazione rappresenta oggi un problema aperto nella pratica clinica, soprattutto quando le decisioni di trattamento sono basate sul monitoraggio della MMR.
Inoltre, la “real-time quantitative reverse transcription PCR” (RT-qPCR) permette di monitorare i pazienti che all’esordio di malattia presentano un trascritto di fusione. È una metodica molto sensibile (10-5-10-6) e facile da eseguire. Complessivamente, oltre il 40% dei pazienti con LAL presenta traslocazioni cromosomiche che generano riarrangiamenti genici: questi sono target ideali per la valutazione della MMR poiché sono eventi drivers, sono espressi in tutte le cellule leucemiche e sono estremamente stabili durante il decorso della malattia. L’accuratezza di questo test può essere ostacolata dalla variabilità della quantità e dalla qualità dell’RNA ottenuta come conseguenza della cellularità del campione analizzato. Nel corso degli anni, grazie al lavoro del gruppo Europeo, EuroMRD Consortium, si è giunti ad un processo di standardizzazione del metodo di quantificazione dei diversi geni di fusione presenti nelle LAL (BCR/ABL1, KMT2A e SIL/TAL1, etc) che ha uniformato i criteri per lo studio della MMR (van Dongen JJ et al, 1999; Gabert J et al, 2003).
Le caratteristiche, i vantaggi e gli svantaggi di ogni singola metodologia, sono riassunti nella Tabella VII.
Tabella VII. Vantaggi e svantaggi nell’analisi della MMR
Il livello di cut-off di positività della MMR è 10-4 per l’immunofenotipo e 10-6 per le tecniche di biologia molecolare.La figura XI riassume l’importanza clinica della MMR.
Figura XI. Schematizzazione dei livelli della MMR e conseguenze funzionali; è inoltre riportato il confronto tra le varie metodiche (Brüggemann M et al, 2012b)
Le metodiche fino ad ora descritte presentano dei limiti; pertanto, la comunità scientifica sta valutando la fattibilità di tecniche alternative per la determinazione e quantificazione della MMR, come la citometria a flusso di nuova generazione (NGF), la NGS e la digital droplet PCR (ddPCR) (Tabella VIII).
Tabella VIII. Comparazione tecnica dei nuovi metodi per lo studio della MMR
La NGF si avvale di procedure innovative recentemente sviluppate dall’EuroFlowConsortium per la preparzione dei campioni, le combinazioni di anticorpi e l’identificazione delle cellule B precursor (BCP) nel midollo osseo, che consente di definire il grado di deviazione immunofenotipica delle cellule di LAL-BCP da quelle BCP normali (anche nel midollo osseo rigenerante). Anche per la LAL-T viene utilizzata una strategia comparabile per ottenere combinazioni anticorpali affidabili (basate sull’evidenza), al fine di discriminare il patologico da vari tipi di cellule T normali e da altre cellule (van Dongen JJ et al, 2012; Pedreira CE et al, 2013). In generale, la NGF può raggiungere una sensibilità vicina a 10-6, quindi maggiore di 2 logaritmi rispetto alla citometria convenzionale (10-4-10-5) (Flores-Montero J et al, 2017; Della Starza I et al, 2019).
Le tecniche di NGS utilizzano primers universali per amplificare i riarrangiamenti delle Ig e del TR, e si avvalgono di piattaforme ed analisi bioinformatiche per identificare e quantificare cellule T o B clonali (Wu D et al, 2012; Faham M et al, 2012; Ladetto M et al, 2013). Queste metodiche potrebbero rappresentare delle valide alternative in quanto: 1) non richiedono reagenti paziente-specifici; 2) permettono l’identificazione di un marcatore in tutti i casi; 3) presentano una sensibilità molto elevata, che raggiunge i livelli di 10-6 sebbene richiedano un quantitativo relativamente elevato di materiale (circa 1,5 milioni di cellule); 4) sono in grado di evidenziare la presenza di oligocloni e subcloni all’interno dello stesso campione. Al momento, non ci sono protocolli standardizzati ed applicabili di MMR basati su NGS; il consorzio Euroclonality-NGS sta lavorando per indicare le linee guida per l’analisi e l’interpretazione dei dati.
Infine, la ddPCR è considerata una PCR di terza generazione in grado di integrare la qPCR e di superare molti limiti dell’analisi per la MMR (Della Starza I et al, 2019). Infatti, è in grado di quantificare in maniera accurata e sensibile la presenza di cellule neoplastiche residue senza richiedere una curva standard di riferimento, ovviando qindi alla necessità di materiale dell’esordio, che in alcuni casi (midollo ipocellulare, punctio sicca, etc) può essre un elemento limitante. Inoltre, questa metodica sembra essere in grado di quantificare in maniera più precisa i livelli di MMR (Della Starza I et al, 2016). Studi recenti hanno stabilito parametri analitici per indagare l’applicabilità della ddPCR per lo studio della MMR e hanno concluso che la ddPCR ha una sensibilità, un’accuratezza ed una riproducibilità quantomeno comparabili a quelle della RQ-PCR (Drandi D et al, 2015; Della Starza I et al, 2016; Cavalli M et al, 2017, Drandi D et al, 2020). Per quanto riguarda le valutazioni della MMR, sono state osservate alcune discordanze a livelli molto bassi di malattia; in questo contesto, la ddPCR ha mostrato una buona efficenza analitica per quantificare i campioni PNQ in PCR quantitativa o per identificare i casi di MMR falsi positivi. Finora non sono state definite linee guida per l’analisi e l’interpretazione della MMR in ddPCR. Un importante sforzo di standardizzazione è in corso all’interno dell’EuroMRD Consortium.
Attraverso l’integrazione di queste innovazioni tecnologiche, nel futuro saremo in grado di integrare rapidamente tutte le informazioni necessarie per una valutazione più precisa della risposta al trattamento nei pazienti con LAL. La ddPCR e la NGS sembrano essere metodi promettenti per la valutazione della MMR, che possono aiutare a classificare i casi in cui la RQ-PCR non è in grado di rilevare o quantificare la malattia.
L’evoluzione continua delle tecnologie permette strategie sempre più raffinate per la caratterizzazione delle cellule leucemiche e, attraverso un approccio diagnostico integrato clinico-biologico, è possibile una stratificazione prognostica dei pazienti, con la possibilità di modificare il trattamento terapeutico sulla base del livello di rischio (Foà R, Vitale A, 2002; Schultz KR et al, 2007; Brüggemann M et al, 2012b; Hoelzer D et al, 2016).
La suddivisione per “livello di rischio” si basa su: a) caratteristiche cliniche quali l’età, il numero dei globuli bianchi, il coinvolgimento di organi e/o sistemi (mediastino, fegato, milza, sistema nervoso centrale, ed altro), il tempo intercorso per ottenere la RC, e b) caratteristiche biologiche quali la presenza di alterazioni citogenetico/molecolari considerate a prognosi sfavorevole (es. BCR-ABL1 o riarrangiamenti a carico di KMT2A) e la presenza di un fenotipo a cellule più immature (pro-T/ETP, pro-B) o T-mature (Tabella IX). Dal punto di vista clinico, l’età ed i globuli bianchi rappresentano i fattori di rischio più importanti; i pazienti con oltre 60 anni di età sono considerati come un gruppo a prognosi sfavorevole, mentre gli adolescenti ed i giovani adulti (meno di 35-40 anni) hanno una prognosi più favorevole se trattati con protocolli ‘simil-pediatrici’ (vedi oltre). Per quanto riguarda i globuli bianchi, vengono considerati due valori diversi per le LAL-B (>30 x 109/l) e per le LAL-T (>100 x 109/l). Anche la risposta/non risposta alla pre-fase steroidea (vedi sotto), usata sia nei protocolli pediatrici che degli adulti, ha implicazioni prognostiche. Dal punto di vista biologico, la presenza di traslocazioni come la t(9;22) e t(4;11) e dei loro corrispettivi riarrangiamenti molecolari (BCR-ABL1 e riarrangiamenti a carico di KMT2A) rappresentano di per sè un fattore prognostico sfavorevole. Dal punto di vista citogenetico alterazioni come l’ipodiploidia (<30-39 cromosomi) o la del6q sono considerate anch’esse a prognosi sfavorevole. Anche l’ottenimento della remissione in tempi brevi (3-5 settimane), e cioè entro il primo ciclo di chemioterapia, è un fattore prognostico importante. I pazienti che vanno in remissione precocemente hanno una sopravvivenza migliore.
Pertanto, combinando le caratteristiche cliniche e biologiche, le LAL dell’adulto sono convenzionalmente divise in due gruppi: a) a rischio standard; b) ad alto rischio, ovvero con caratteristiche genetico/molecolari ed immunofenotipiche sfavorevoli, ed iperleucocitosi. Quest’ultima categoria comprende anche casi definiti “very high risk”, aventi un numero di globuli bianchi >100.000 x 109/l a prescindere dalla linea di appartenenza (LAL-B o LAL-T). Inoltre, come già ricordato, l’utilizzo di NGS e di tecniche molecolari integrate ha portato all’identificazione di specifici sottogruppi e di lesioni genetiche correlate con un andamento clinico sfavorevole, come ad esempio la presenza di uno stato Ph-like (vedi oltre) e le mutazioni a carico dei geni del pathway di RAS e di JAK/STAT.
La valutazione della risposta alla terapia sulla base del monitoraggio della MMR durante il decorso clinico (vedi sopra) in questi ultimi anni si è sempre più integrata nei protocolli di trattamento delle LAL degli adulti (oltre che dei bambini)in quanto la sua presenza/assenza rappresenta un importante indicatore prognostico e terapeutico. In generale, il cut-off attualmente utilizzato nei protocolli clinici è di 10-4, mentre il “time point” per definire la stratificazione prognostica è ancora oggetto di discussione: senza dubbio, una valutazione precoce alla fine dell’induzione/consolidamento consente di intervenire tempestivamente dal punto di vista terapeutico. Complessivamente quindi, tanto nel bambino che nell’adulto, una prognosi favorevole è associata ad una buona (e precoce) risposta alla terapia, documentabile mediante l’analisi della MMR (Patel B et al, 2010; Gökbuget N et al, 2012a; Ribera JM et al, 2014a; Berry DA et al, 2017; Bassan R et al, 2019; Gökbuget N et al, 2019). Lo studio della MMR eseguita a tempi ben definiti sulla base dell’accurata caratterizzazione biologica effettuata alla diagnosi, permette una valutazione individuale precoce della risposta al trattamento e una possibilità d’intervento quando la massa tumorale è ancora minima, consentendo quindi di modulare la terapia e di utilizzare, qualora necessarie, terapie specifiche. Di fatto, una mancata negativizzazione della MMR è un fattore prognostico altamente sfavorevole, al punto che l’endpoint primario dei protocolli clinici per pazienti di tutte le età è l’ottenimento di una negatività della MMR (vedi sotto).
Tabella IX. Fattori prognostici sfavorevoli nei pazienti adulti affetti da LAL secondo le linee guida ESMO (adattata da Hoelzer D et al, 2016)
È stato, infine, dimostrato che aumentando l’intensità della chemioterapia si migliorano le percentuali di sopravvivenza, sebbene l’età rimanga un fattore prognostico importante.
Negli anni si è osservato un netto miglioramento (Seibel NL et al, 2008; Pulte D et al, 2009) delle curve di DFS nella LAL in età pediatrica (Figura XII): ad oggi nei bambini le percentuali di guarigione sono nell’ordine dell’85%. Negli adulti, anche se l’intensificazione della chemioterapia ha portato ad un aumento delle percentuali di RC fino al 85-95% dei casi, la OS e la DFS a 5 anni rimangono intorno al 45-55% a seconda della fascia di rischio e della clearance della MMR (Goldstone AH et al, 2008; Bassan R et al, 2009; Huguet F et al, 2009; Gökbuget N et al, 2012a; Huguet F et al, 2018; Bassan R et al, 2020) (Figura XIII); migliore è la prognosi dei giovani adulti se trattati con schemi simil-pediatrici con ottenimento di percentuali di OS e DFS superiori al 60-65% (DeAngelo DJ et al, 2015; Toft N et al, 2018; Stock W et al, 2019; Ribera JM et al, 2020; Testi AM et al, 2021) (Figura XIV). I motivi che portano a questa diversità di risultati tra bambini ed adulti sono molteplici. I protocolli pediatrici si basano su regimi terapeutici più intensivi, mentre gli adulti – proprio per l’età e per la possibile presenza di comorbilità ad essa legate – ricevono generalmente trattamenti meno intensivi, e possono manifestare una minore tolleranza alla chemioterapia. Un altro motivo può essere dovuto ad una “aderenza” al trattamento più frequente nel gruppo pediatrico. Infine, alcuni fattori biologici potrebbero giustificare una minore risposta al trattamento. Infatti, come già menzionato, l’incidenza di lesioni considerate a prognosi sfavorevole (es. BCR/ABL1, KMT2A/AFF1 e lesioni a carico di JAK/STAT) aumenta con l’età, mentre altre, considerate a prognosi favorevole (come l’iperdiploidia ed ETV6-RUNX1) diminuiscono. Inoltre, un campo a tutt’oggi aperto è quello delle alterazioni ricorrenti nel guppo degli adolescenti/giovani adulti: sta chiaramente emergendo come sottogruppi a prognosi più sfavorevole (BCR/ABL1-like ed ETP) siano maggiormente rappresentati proprio in questa fascia d’età (Herold T et al, 2014, Ribera JM et al, 2014b).
Figura XII. Miglioramento della sopravvivenza a cinque anni nei pazienti pediatrici (<15 anni) e andamento clinico in base all’età (adattata da Siebel NL et al, 2008 e Chiaretti S et al, 2013a)
Figura XIII. OS a 5 anni nei pazienti adulti (16-65 anni) analizzati in base alla fascia di rischio (Bassan R et al, 2009). SR: rischio standard, HR: alto rischio; VHR: rischio molto alto
Figura XIV. OS e DFS a 4.5 anni nei giovani adulti (18-50 anni, età mediana 28 anni) trattati con schemi simil-pediatrici (adattata da DeAngelo DJ et al, 2015)
Il trattamento di una LAL è tipicamente suddiviso in più fasi: prefase steroidea, induzione, consolidamento, mantenimento e profilassi del SNC (Pui CH et al, 2006; Fielding A et al, 2008; Rowe JM, 2009). Nonostante l’eterogeneità dei vari protocolli clinici, dovuta alla variabilità dei fattori prognostici utilizzati, i principi generali sono finalizzati all’ eradicazione delle cellule leucemiche dal midollo osseo, preservando, laddove possibile, i progenitori normali. L’uso di farmaci attivi, con meccanismi d’azione diversi, somministrati alla dose massimale, e l’approccio terapeutico intensivo permette di ridurre rapidamente la massa tumorale e di evitare fenomeni di resistenza indotta. Al fine di eradicare il clone leucemico, viene utilizzato un trattamento precoce (di induzione), seguito da una fase di consolidamento. La fase di induzione ha lo scopo di ottenere una remissione completa morfologica in poche settimane, in altre parole una normalizzazione del mielogramma. Virtualmente in tutti i protocolli nazionali ed internazionali, tanto pediatrici che adulti, la fase di induzione è preceduta da una pre-fase steroidea di una settimana: gli steroidi più comunemente utilizzati sono il prednisone o il desametasone. Il loro impiego consente un “debulking” della malattia, poiché gli steroidi hanno un effetto linfotossico; inoltre, la settimana di trattamento con gli steroidi permette di completare l’inquadramento diagnostico-prognostico, indispensabile per un’adeguata scelta terapeutica, in particolar modo per i casi Ph+ che giovano di un trattamento personalizzato (vedi sotto). Infine, il grado di risposta alla pre-fase steroidea ha una valenza prognostica.
Successivamente, viene instaurata una terapia di mantenimento che permetta di limitare il rischio di recidiva, sebbene non ci sia ancora accordo fra i vari gruppi di studio internazionali sulle modalità e la durata del mantenimento. Viene inoltre attuata una profilassi cerebro-meningea durante la fase d’induzione, consolidamento e mantenimento. I protocolli vengono adattati ai fattori prognostici come, ad esempio, i pazienti con LAL di età inferiore ad 1 anno, con iperleucocitosi, o i pazienti ad alto rischio per caratteristiche citogenetiche e/o molecolari (ad es. la presenza del trascritto BCR-ABL1 o KMT2A-AFF1).
Alla luce di quanto detto sopra (vedi MMR), gli attuali protocolli clinici prevedono per i pazienti con persistenza della MMR una ulteriore intensificazione, e quindi l’indicazione alle procedure trapiantologiche (vedi sotto). E’ importante sottolineare come nella maggior parte dei protocolli clinici, la terapia è modulata/intensificata sulla base della MMR.
In linea generale, la “spina dorsale” della terapia d’induzione è classicamente costituita dall’associazione di più farmaci che include vincristina, prednisone ed antracicline (daunorubicina o idarubicina o adriamicina); è comune associare a questi farmaci anche l’uso di L-asparaginasi. Le dosi e la combinazione dei farmaci sono diverse in base ai protocolli di terapia che vengono utilizzati ed al fatto che si tratti di protocolli pediatrici o per adulti.
Nella terapia di consolidamento si utilizzano farmaci come la citosina-arabinoside e il methotrexate ad alto dosaggio sfruttandone anche la capacità di passare la barriera ematoencefalica per la profilassi del SNC. Inoltre, sebbene L-asparaginasi non possa passare la barriera ematoencefalica, è stato dimostrato che la sua somministrazione ripetuta durante l’induzione ed il consolidamento porta ad una temporanea deplezione dei livelli di asparagina – essenziale per il metabolismo e la vitalità dei blasti leucemici – non solo nel plasma ma anche nel liquido cefalorachidiano (Ahlke E et al, 1997).
La terapia di mantenimento standard è costituita dall’uso di farmaci come la 6-mercaptopurina ed il methotrexate associati a reinduzioni mensili con vincristina e prednisone per la durata complessiva di 2-3 anni.
La profilassi del SNC inizia già durante la fase di induzione con l’esecuzione di punture lombari che prevedono l’introduzione di farmaci come il methotrexate e/o la citosina-arabinoside e/o il prednisone nel canale vertebrale, e continua con l’esecuzione delle stesse durante la fase di consolidamento e mantenimento (vedi oltre).
Per i pazienti valutati ad alto rischio – ad esempio per la presenza alla diagnosi di un numero elevato di globuli bianchi, o di riarrangiamenti coinvolgenti KMT2A, per la mancata risposta alla terapia d’induzione e, soprattutto, per la persistenza della MMR molto spesso i pazienti sono avviati a procedure trapiantologiche con cellule staminali da donatore compatibile, da diverse fonti (fratello compatibile, donatore da registro, o più raramente da cordone ombelicale e da donatore aploidentico). Laddove non sia possibile effettuareun trapianto allogenico e qualora si ottenga una eradicazione della MMR, è auspicabile pianificare un trapianto di cellule staminali autologhe (Larson RA et al, 1995; Gökbuget N et al, 2000; Annino L et al, 2002; Takeuchi J et al, 2002; Thomas X et al, 2004; Kantarjian H et al, 2004; Rowe JM et al, 2005; Larson S, Stock W, 2008; Ribera JM, 2011; Bassan R, Hoelzer D, 2011; Kato H et al, 2014).
Sebbene quanto descritto valga in linea generale, alcune forme, come le LAL Ph+ e la LAL a cellule B mature richiedono trattamenti diversificati (vedere sotto e relativi approfondimenti) mentre è prevedibile che l’applicazione di terapie mirate e di studi clinici multicentrici definiranno quale sia il trattamento ottimale per particolari sottogruppi come la LAL BCR/ABL1 like e la LAL-ETP descritti nei successivi paragrafi.
Infine, particolare attenzione spetta alle leucemie bifenotipiche o MPAL. Infatti, il loro significato clinico non è ben definito e vi è una mancanza di uniformità nel trattamento; per esempio, non vi è accordo se la terapia d’induzione debba prevedere l’utilizzo di farmaci anti-blasti linfoidi e/o mieloidi. Alcuni studi suggeriscono che terapie basate su protocolli utilizzati nelle LAL diano risultati migliori rispetto a quelli utilizzati nelle LAM, comunque con percentuali di risposta a lungo termine globalmente insoddisfacenti. Data la prognosi sfavorevole di queste forme, è auspicabile l’utilizzo di chemioterapie intensive, utilizzando una combinazione di farmaci comunemente impiegati nel trattamento delle LAM e LAL, seguiti da un trapianto allogenico di cellule staminali (allo-SCT) quanto prima possibile (Weinberg OK, Arber DA, 2010; Yan L et al, 2012; Wolach O, Stone RM, 2017). È doveroso inoltre sottolineare che in circa il 30% dei casi di MPAL è possibile osservare un riarrangiamento BCR-ABL1, nel 18% mutazioni di WT1 e, più raramente, mutazioni di FLT3, che probabilmente possono beneficiare di terapie mirate (Heesch S et al, 2013). Infine, è stato recentemente riportato come i riarrangiamenti di ZNF384 siano le lesioni più frequenti nelle MPAL (Alexander TB et al, 2020). Solo l’ampliamento della casistica di queste rare forme, realizzabile tramite studi multicentrici, consentirà di definire quale sia il trattamento ottimale.
L’allo-SCT è la forma più intensiva di terapia per una LAL. Quali siano i pazienti che possano maggiormente giovarsi del trapianto e quali siano i tempi giusti per eseguirlo sono importanti aspetti ancora in parte da definire. Il ruolo dell’allo-SCT in prima remissione nei sottogruppi di pazienti ad alto rischio e nei casi con scarsa risposta iniziale al trattamento è largamente accettato. Il trapianto migliora anche il risultato della LAL dell’adulto con la t(4;11), ma i suoi benefici nei bambini con questo genotipo sono controversi. Mentre nel passato un’indicazione indiscubitile all’effettuazione del trapianto era rappresentata dalla presenza del riarrangiamento BCR-ABL1+, con l’introduzione dei TKI, l’accurata valutazione della MMR e, più recentemente, l’impiego dell’immunoterapia, il ruolo di tale procedura è stato messo in discussione (Litzow MR, 2018). Un aiuto per definire meglio quali siano i pazienti che devono essere sottoposti ad allo-SCT può venire dalla valutazione della MMR: un paziente con MMR persistentemente positiva dovrebbe essere avviato ad allo-SCT in prima RC (Doney K et al, 2003; Bar M et al, 2014; Zhou Y et al, 2014; Dhédin N et al, 2015; Gökbuget N et al, 2019). Tuttavia, dato il tema tradizionalmente contenzioso del trapianto rispetto alla chemioterapia, i pareri continuano ad essere non uniformi (Popat U et al, 2003; Hahn T et al, 2006; Larson RA, 2008 ; Fielding AK, Goldstone AH, 2008; Goldston AH, Rowe JM, 2009; Bassan R et al, 2009; Forman SJ, 2009a; Paulson K et al, 2011; Ribera JM, 2011; Lussana F e Rambaldi A, 2014; Seftel MD, et al, 2016; Giebel S et al, 2019). Inoltre, in considerazione della morbilità e mortalità associati a tali procedure e all’ampliamento dell’armamentario terapeutico (vedi oltre), la necessità di un allo-SCT deve essere rivalutata in continuazione. Ciononostante, in un paziente con LAL, è indispensabile e doveroso effettuare la tipizzazione HLA con i familiari già alla diagnosi in modo da identificare rapidamente un possibile donatore o altrimenti avviare una ricerca da un donatore da registro, nel caso il paziente si dimostrasse per caratteristiche biologiche e/o cliniche ad alto rischio. Poiché circa il 60-70% dei pazienti non ha un donatore familiare compatibile, la ricerca ed il conseguente impiego di fonti alternative di cellule staminali è fortemente attiva: da donatore non-consanguineo (matched unrelated donors (MUD)), da sangue di cordone ombelicale (umbilical cord blood (UCB)), da familiare aploidentico (Valcárcel D et al, 2011; Wang Y et al, 2012; Wang L et al, 2013). Il trapianto aploidentico oggi consente risultati sovrapponibili a quello del trapianto da MUD, con ridotta incidenza di GVHD, tanto che alcuni autori ipotizzano questo tipo di procedura anche per LAL a rischio standard (Yan CH et al, 2014). Il vantaggio del trapianto aploidentico è la disponibilità del donatore. Ciò significa che il trapianto può essere effettuato nel momento più indicato, senza attese. Negli ultimi anni, sono stati pubblicati i risultati di allo-SCT con regimi di condizionamento ad intensità ridotta (RIC). Sono riportati bassi tassi di mortalità riguardante il trapianto e percentuali discrete di sopravvivenza globale a 3 anni, suggerendo che il RIC sia una modalità promettente per pazienti fragili, per i quali sono controindicati i regimi di condizionamento tradizionali (Stein AS et al, 2009; Forman SJ, 2009b; Marks DI et al, 2010b; Mohty M et al, 2010; Nishiwaki S et al, 2011; Eom KS et al, 2013; Wu X et al, 2013; El-Jawahri A et al, 2016; Rosko A et al, 2017; Leonard JT and Hayes-Lattin B, 2018).
Infine, il trapianto autologo nella terapia della LAL è stato recentemente riconsiderato in quanto la possibilità di valutare la MMR sta permettendo di riservare questa procedura a pazienti MMR negativi – tanto a livello del midollo osseo che nella raccolta aferetica – considerati ad alto rischio, ma che per età, morbilità o mancanza di un donatore compatibile non possono eseguire un trapianto allogenico (Doubek M et al, 2009; Giebel S et al, 2010; Wetzler M et al, 2014; Giebel S et al, 2014; Kato H et al, 2014; Gorin NC et al, 2015; Giebel et al, 2018; Capria S et al, 2019).
È ormai evidente che gli adolescenti e giovani adulti (AYA) rappresentano un sottogruppo distinto di pazienti affetti da LAL che ben risponde a trattamenti chemioterapici più intensivi, una volta definiti come “pediatric like”. L’idea di trattamenti più intensivi è nata inizialmente dal confronto in questo sottogruppo di pazienti tra i risultati ottenuti utilizzando protocolli pediatrici (in reparti pediatrici) oppure protocolli per gli adulti (in reparti per adulti). Tale analisi ha evidenziato una sopravvivenza migliore a vantaggio dei protocolli pediatrici (Boissel N et al, 2003; de Bont JM et al, 2004; Testi AM et al, 2004; Hallbook H et al, 2006; Ramanujachar R et al, 2007; Stock W et al, 2008; Ribera JM and Oriol A, 2009; McNeer J, Raetz EA, 2012; Pole JD et al, 2012; Lukenbill J, Advani AS, 2013), che è stata poi confermata in studi successivi e/o metanalisi della letteratura (Ribera JM and Oriol A, 2009; Huguet F et al, 2009; McNeer J, Raetz EA, 2012; Pole JD et al, 2012; Lukenbill J, Advani AS, 2013; Ribera JM et al, 2014b; Burke PW, Douer D, 2014). Il confronto tra le caratteristiche dei sottogruppi di pazienti adulti e pediatrici trattati con protocolli diversi non ha evidenziato differenze tali da giustificarne il diverso esito; le possibili ragioni che possono spiegare tale differenza sono verosimilmente dovute al tipo di approccio terapeutico. Gli schemi pediatrici sono più intensivi, utilizzano dosi più elevate di chemioterapici non-mieloablativi, una profilassi del SNC più precoce e frequente, una terapia di mantenimento più prolungata, con sistemi di supporto e “compliance” familiare molto più presente (Schiffer CA, 2003). Sebbene vi sia accordo tra i vari gruppi di studio internazionali nel definire come AYA la fascia di età che parte dai 15 anni, resta aperto il quesito di quale sia il limite di età (40-55 anni) fino al quale poter estendere tale approccio simil-pediatrico. Infatti, mentre alcuni studi hanno mostrato come una maggiore tossicità si ha nei pazienti con più di 40 anni trattati con un protocollo simil-pediatrico (Haïat S et al, 2011; Dombret H et al, 2014; Ribera JM et al, 2014b); il Dana Farber Cancer Institute (DFCI) ha applicato l’approccio pediatrico fino a 50 anni con risultati molto promettenti, anche se va sottolineato che in quest’ultimo studio l’età mediana era di 28 anni (DeAngelo DJ et al, 2015).
Studi più recenti hanno evidenziato, inoltre, come questo sottogruppo di pazienti mostri caratteristiche biologiche distinte che riguardano sia alterazioni citogenetico-molecolari che immunofenotipiche: infatti è presente una maggiore frequenza del fenotipo a cellule T, di cariotipi complessi, ipoploidie e riarrangiamenti cromosomici a prognosi sfavorevole (BCR-ABL1 e KMT2A-AFF1) che si osservano con l’avanzare dell’età (Harvey RC et al, 2010a; Chiaretti S et al, 2013a; Advani AS, 2013a). È stata documentata un’aumentata incidenza di ETP e di casi BCR/ABL-like (Herold T et al, 2014, Ribera JM et al, 2014b). Tali caratteristiche si associano ad una prognosi meno favorevole rispetto a quanto osservato nei bambini; oltre a ciò si è osservata anche una diversa clearance e un differente metabolismo dei farmaci, che possono contribuire ad una maggiore tossicità legata al trattamento (McNeer J, Raetz EA, 2012). Il trattamento degli adolescenti e dei giovani adulti con protocolli “pediatric-like” ha permesso un aumento delle percentuali di remissione, della sopravvivenza, con tassi di OS variabili tra il 60-70% ed una tossicità indotta dai chemioterapici accettabile (Barry E et al, 2007; DeAngelo DJ et al, 2007b ; Ribera JM et al, 2008; Huguet F et al, 2009; Haïat S et al, 2011; Ram R et al, 2012; Advani AS et al, 2013b; Toft N et al, 2018; Ribera JM et al, 2020; Testi AM et al, 2021).
La gestione dei pazienti anziani affetti da LAL resta una sfida terapeutica assai difficile. La prima sfida è rappresentata dalla definizione stessa di “anziani”, il range di età cansiderato varia nei diversi studi così come il performance status è variabile tra individui della stesa età. La presenza di comorbidità, di alterazioni citogenetiche e caratteristiche biologiche sfavorevoli, pone notevoli sfide per il successo del trattamento utilizzando i programmi di chemioterapia convenzionale. I pazienti anziani, definiti come tali con età >55 o >60 o >65 anni – a seconda dei protocolli e dei gruppi di studio – hanno una prognosi più sfavorevole rispetto ai pazienti più giovani quando sottoposti alle stesse terapie intensive. Sebbene le percentuali di remissione varino notevolmente, la loro probabilità di sopravvivenza a lungo termine è <20% considerando che l’intensificazione della chemioterapia da una parte riduce l’incidenza di resistenza, ma dall’altra aumenta la mortalità in RC per le complicazioni legate alla mielosoppressione (Figura XV) (Larson RA, 2005; Hoelzer D, Gökbuget N, 2005; Marks DI et al, 2010b; Gokbuget N, 2013). In questo sottogruppo di pazienti, le terapie devono essere poco intensive e, a volte, sono raccomandati approcci di chemioterapia palliativa per la presenza di patologie concomitanti come il diabete, le patologie cardiache, l’insufficienza renale o altro. Poichè le frequenti comorbidità, la più alta tossicità, il ritardo del trattamento sono spesso causa di un fallimento terapeutico, è necessaria un’attenta valutazione del performance status e della scala geriatrica prima di pianificare una chemioterapia ed è inoltre indispensabile un’adeguata terapia di supporto, comprensiva dell’uso di fattori di crescita (Chiaretti et al, 2019b). I fattori prognostici generalmente applicati alla LAL sono validi anche per gli anziani: la conta dei globuli bianchi, il tempo necessario per ottenere la RC, la persistenza della MMR e le aberrazioni genetiche. Quindi è importante eseguire anche una attenta valutazione biologica, comprendente le analisi dell’immunofenotipo, della citogenetica e della biologia molecolare, al fine di consentire non solo un migliore inquadramento diagnostico, ma anche una migliore scelta terapeutica (Gokbuget N, 2013). Infatti, nei pazienti anziani il riarrangiamento BCR-ABL1 si riscontra in in circa il 50% delle forme a cellule B (Figure XVI e XVII) (Burmeister T et al, 2008; Chiaretti S et al, 2013a). Nel passato, il riscontro di tale riarragiamento, costituiva un fattore prognostico nettamente sfavorevole per la sopravvivenza. L’introduzione dei TKI ha completamente rivoluzionato la terapia e la prognosi di questi pazienti in tutte le fasce di età (vedi oltre) (Vignetti M et al, 2007; Ottmann OG et al, 2007; Foà R et al, 2011; Rousselot P et al, 2016; Chiaretti S et al 2016b; Martinelli G et al, 2017b; Foà R et al, 2020). Paradossalmente, oggigiorno la presenza del cromosoma Ph non ha più un impatto prognostico negativo ed i pazienti BCR-ABL1-positivi ottengono percentuali di OS e sopravvivenza libera dall’evento (EFS) simili o migliori di quelle osservate nei pazienti Ph-negativi (Ribera JM, Garcıa O et al, 2012, Miller KC et al, 2019), soprattutto negli anziani. È quindi imperativo in un paziente anziano affetto da LAL eseguire un’immediata ricerca del riarrangiamento per BCR-ABL1.
La gestione degli anziani con LAL Ph-negativa si basa su un backbone simile a quello della LAL degli adulti, con riduzioni della dose per evitare tossicità eccessive: tuttavia, i decessi in induzione correlati al trattamento rappresentano un evento frequente, compreso tra il 7 % e il 40% e sono per lo piu da ascrivere a complicanze infettive.
Pochi sono gli studi pubblicati che trattano specificamente di questa categoria di pazienti (Robak T et al, 2004; Sancho JM et al, 2006a; O’Brien S et al, 2008; Shin D-Y et al, 2011; Sive JI et al, 2012; Ribera JM et al, 2016; Gokbuget N, 2016). Uno studio randomizzato (Hunault-Berger M et al, 2011) sull’utilizzo della daunorubicina liposomiale ha mostrato un miglioramento della fase di citopenia con una minore incidenza di infezioni, ma non ha dimostrato differenze riguardo alla sopravvivenza nei confronti del braccio che utilizzava la daunorubicina non liposomiale. È stato altresì osservato come l’utilizzo dell’asparaginasi in induzione nei pazienti anziani provochi un aumento della tossicità senza aumentare le percentuali di remissione (Schwartz P et al, 2013). Da questi studi si evidenzia l’importanza di una terapia d’induzione modulata sulle caratteristiche biologiche del paziente, con un aggiustamento della dose di antracicline, se necessario, seguiti da una terapia di consolidamento più intensiva ed una terapia di mantenimento, ed è anche consigliabile un utilizzo non eccessivamente prolungato di corticosteroidi (Landsburg DJ et al, 2013; Gokbuget N, 2013).
Infatti, l’obiettivo deve essere non solo il raggiungimento di una RC, ma anche un grado di tossicità accettabile che possa consentire a questi pazienti una discreta qualità di vita. Inoltre un’attenta ed omogenea caratterizzazione clinico-biologica alla diagnosi ed una valutazione della MMR nel follow-up; potrebbe consentire di considerare la possibilità di un allo-SCT in casi selezionati (Barba P et al, 2015). L’MD Anderson Cancer Center (MDACC) ha riportato un’analisi retrospettiva monocentrica su 122 pazienti anziani (>60 anni) con LAL trattati secondo schema hyper-CVAD, e 34 pazienti che avevano ricevuto regimi di trattamento meno intensivi, mostrando un miglioramento dei tassi di sopravvivenza e di risposta nella coorte trattata in maniera piu intensiva, ma con un alto tasso di decessi in RC, per lo più legati a infezioni (34%) (O’Brien S et al, 2008); risultati simili sono stati ottenuti nello studio MRC UKALL XII/ECOG2993 che ha arruolato 100 pazienti anziani (Sive JI et al, 2012). Il GMALL (German Multicenter Study Group for Adult ALL) ha trattato 268 casi con un regime di ispirazione pediatrica dose-adjusted e ha riportato un tasso di remissione del 76% con un tasso di mortalità precoce del 14%, e il fattore predittivo più importante per l’outcome è risultato essere la fascia di età del paziente (Gokbuget N et al, 2012c).
Lo sviluppo di nuove formulazioni farmacologiche, quali la vincristina e la citarabina liposomiali, ed ancora più l’uso clinico di anticorpi monoclonali – blinatumomab, inotuzumab, rituximab (vedi sotto) – rappresentano nuovi armamentari terapeutici promettenti, data la buona efficacia e la scarsa tossicità (Jabbour E et al, 2014; Jabbour E et al, 2015a; Jabbour EJ et al, 2019). Sebbene gli studi volti a valutare l’efficacia di questi farmaci nella popolazione anziana siano pochi, è stato recentemente riportato, come l’impiego dell’inotuzumab in prima linea, in combinazione con uno schema di mini-hyperCVAD, sia efficace, con una PFS a due anni del 59% (95% CI 43-72) (Kantarjian H et al, 2018) in assenza di decessi in induzione. L’MDACC ha anche valutato l’utilizzo dell’inotuzumab con il mini-hyperCVAD in associazione o meno a blinatumomab (Jabbour EJ et al, 2019), i risultati aggiornati di questo studio sono stati recentemente riportati sotto forma di abstract mostrando un tasso di risposta globale del 98% e una OS a 4 anni del 50%: tuttavia, il tasso di mortalità in RC per i pazienti al di sopra dei 70 anni si è mantenuto alto, ed è stato necessario un emendamento al protocollo per togliere la chemioterapia in questa vategoria piú fragile (Short NJ et al, 2020).
Anche il blinatumomab è stato testato frontline in questo setting di pazienti: risultati preliminari di uno studio di fase II dello SWOG (Southwest Oncology Group) pubblicato sotto forma di abstract hanno evidenziato una buona tollerabilità e un alto tasso di risposta (Advani AS et al, 2018).
L’impiego sistematico e in prima linea di questo gruppo di farmaci porterà probabilmente ad un netto miglioramento della prognosi di questi pazienti.
Figura XV. Confronto dell’outcome tra tre fasce di età (Larson RA, 2005)
Figura XVI. Frequenza per età delle LAL Ph+ (Burmeister T et al, 2008)
Figura XVII. Distribuzione per età delle maggiori anomalie citogenetico-molecolari (Chiaretti S et al, 2013a)
La recidiva di malattia rappresenta un evento frequente nella LAL, soprattutto in età adulta; infatti, nonostante le percentuali di RC raggiungano ormai l’85-95%, la DFS è ancora relativamente bassa. Circa un terzo dei pazienti adulti con LAL a rischio standard e due terzi ad alto rischio vanno incontro a recidiva. Inoltre, la possibilità di cura per i pazienti R/R, specie se precocemente, è scarsa. Quindi, la recidiva rappresenta ancor oggi la principale problematica terapeutica e una LAL in recidiva è spesso considerata come una malattia difficilmente curabile. Possiamo trovarci di fronte a recidive ematologiche (o midollari) o extramidollarI (i.e SNC, gonadi) o entrambe.
Diversi possono essere i fattori predittivi del fallimento di un trattamento terapeutico, sia clinici che biologici. Tra questi:
• il numero di globuli bianchi alla diagnosi
• l’età alla diagnosi
• l’estensione della malattia
• l’interessamento del sistema nervoso centrale
• la presenza di un fenotipo a cellule più immature
• il tempo per ottenere la RC (>di 4 settimane)
• il ritardo nell’esecuzione della terapie legato a problemi di tossicità
• la presenza di un’alterazione citogenetica/molecolare considerata sfavorevole (ad es. KMT2A-AFF1) e, in parte, del riarrangiamento BCR/ABL1 o anomalie aggiuntive
• la persistenza di MMR
Tra le cause sottostanti la recidiva vanno annoverate:
• la comparsa di resistenza ai farmaci per selezione di una sottopopolazione resistente, conseguente all’eliminazione con le terapie delle cellule leucemiche sensibili, oppure per l’induzione di mutazioni somatiche che rendono la cellula neoplastica resistente alle terapie stesse
• l’ eccessivo ritardo nell’esecuzione delle terapie legato a problemi di tossicità
Si può ottenere una seconda remissione, ma raramente il trattamento post-recidiva dà buoni risultati in termini di sopravvivenza a lungo termine (Fielding AK et al, 2007; Tavernier E et al, 2007; Oriol A et al, 2010; Faderl S et al, 2011; Gökbuget N et al, 2012b). L’utilizzo di nuovi e vecchi farmaci con nuove formulazioni può contribuire ad aumentare le percentuali di ottenimento di una seconda remissione (Faderl S et al, 2005; DeAngelo DJ et al, 2007a; Topp MS et al, 2011; Faderl S et al, 2013; Kebriaei P et al, 2013; Pathak P et al, 2014; Frey NV et al, 2015) (Figura XVIII). Come discusso oltre, le terapie basate su anticorpi monoclonali e/o su approcci di immunoterapia, stanno fornendo risultati promettenti. In ogni caso, non vi è dubbio che la migliore opzione terapeutica per una LAL in recidiva, dopo il conseguimento di una seconda remissione e a prescindere dai fattori di rischio al momento della diagnosi, è rappresentata dall’allo-SCT se l’età del paziente, il performance status e la disponibilità di un donatore lo permettono (Popat U et al, 2003; Doney K, 2003; Gökbuget N et al, 2012a; Gökbuget N et al, 2012b). Tuttavia, anche dopo un trapianto la sopravvivenza a lungo termine si aggira intorno al 20% (Duval M et al, 2010; Gökbuget N et al, 2012b). Pertanto, al fine di scongiurare l’eventualità di una ricaduta, è necessario attuare un trattamento intensivo, sia in fase d’induzione che post-remissionale. Inoltre, come già menzionato, è necessario effettuare uno stretto monitoraggio della MMR. In considerazione di ciò, è attualmente in uso il termine di “recidiva molecolare” come indicazione per un intervento terapeutico precoce.
L’interessamento del SNC è un evento che deve essere preso sempre in considerazione, tanto all’esordio che alla recidiva di malattia; al momento della diagnosi di LAL ha un’incidenza variabile dal 5 all’ 8% (Fiere D et al, 1993; Cortes J et al, 1995; Kantarjian HM et al, 2000; Lazarus HM et al, 2006; Jabbour E et al, 2010). Un recente report (Del Principe MI et al, 2021) ha evidenziato come lo studio immunofenotipico eseguito sul liquor alla diagnosi può dimostrare la presenza di malattia nel SNC non rilevabile morfologicamente ed è indice di prognosi sfavorevole. La maggioranza dei protocolli delle LAL prevede la valutazione di una compromissione del SNC tramite l’esecuzione della rachicentesi diagnostica. Si dimostra l’interessamento del SNC dalla presenza nel liquor dei blasti linfoidi e dalla presenza di disfunzioni neurologiche a carico dei nervi cranici (isolate o in combinazione). La profilassi e il trattamento dell’interessamento del SNC possono consistere nella terapia intratecale (punture lombari medicate) con methotrexate da solo o in associazione con citarabina e prednisone, in un trattamento sistemico con alte dosi di citarabina e/o methotrexate e nella radioterapia craniale. Una volta che i pazienti hanno raggiunto la sterilizzazione del coinvolgimento del SNC, non vi è alcuna prova che ci siano regimi terapeutici superiori alla terapia standard delle LAL (Thomas X et al, 2004; Lazarus HM et al, 2006); peraltro, questi pazienti sono spesso considerati ad alto rischio ed avviati a procedure trapiantologiche. In ogni caso, i pazienti con positività del SNC hanno una prognosi leggermente inferiore rispetto a quelli senza coinvolgimento del SNC.
Poiché la recidiva nel SNC continua ad essere una importante complicazione nel trattamento di pazienti con LAL, una adeguata profilassi del SNC fin dalla diagnosi è sicuramente un aspetto importante nel trattamento di una LAL. Inoltre, prevenire nuovi episodi di coinvolgimento del SNC è una sfida terapeutica importante (Sancho JM et al, 2006b; Gökbuget N et al, 2011a). Le terapie degli adulti sono state mutuate sul modello delle terapie pediatriche, che utilizzano modalità di trattamento multiple, comprese la radioterapia, la terapia sistemica, la terapia intratecale e le loro combinazioni. La radioterapia cranica è efficace, ma è controbilanciata da una notevole tossicità e anche da sequele neurologiche ed è al momento, in tutti i protocolli, limitata ai casi di coinvolgimento del SNC fin dalla diagnosi. La chemioterapia sistemica, soprattutto con citarabina e methotrexate, ha dimostrato di essere in grado di ridurre le recidive nel SNC, ma i livelli terapeutici dei farmaci nel liquido cerebrospinale non vengono mantenuti. La chemioterapia intratecale con o senza alte dosi di terapia sistemica è l’approccio più comune per la profilassi del SNC. La citarabina liposomiale, disponibile oggi per utilizzo clinico, conferisce prolungati livelli di citarabina libera nel liquor, un requisito fondamentale per la profilassi del SNC (Jabbour E et al, 2007; Valentin A et al, 2013).
Fig XVIII. Possibili opzioni terapeutiche per le LAL Ph neg (Frey NV et al, Blood 2015)
La LAL Ph+ è un sottotipo particolare di leucemia acuta , con una prognosi storicamente sfavorevole. La frequenza del cromosoma Ph aumenta con l’età, da circa il 2-5% nei bambini/adolescenti, al 22% tra i pazienti adulti di età compresa tra 21-50 anni ed intorno al 50% nei pazienti di età superiore a 50 anni, rappresentando quindi la più comune anomalia genetica tra le LAL dell’adulto (Figure XV e XVI) (Secker-Walker LM et al, 1991; Uckun FM et al, 1998; Burmeister T et al, 2008; Chiaretti S et al, 2013b). Prima dell’avvento dei TKI, solo il 10% dei pazienti con LAL Ph+ sottoposti alla sola chemioterapia standard aveva una sopravvivenza a lungo termine. Poichè le percentuali di recidiva erano elevate ed era frequente lo sviluppo di resistenza ai farmaci, (Dombret H et al, 2002; Gleissner B, 2002; Kantarjian H et al, 2004), l’unica reale probabilità di guarigione era legata alla possibilità di effettuare un allo-SCT (Avivi I & Goldstone AH, 2003; Laport GG et al, 2008; Fielding AK et al, 2009).
Negli ultimi anni, in seguito allo sviluppo delle terapie mirate, le possibilità terapeutiche nella LAL Ph + si sono evolute rapidamente e hanno migliorato i risultati in questo particolare sottogruppo di pazienti (vedere anche al link). Gli inbitori delle tirosi chinasi (TKI) rappresentano probabilmente l’evento terapeutico più importante in oncologia e certamente nella terapia delle LAL di tutto l’ultimo decennio (Gruber F et al, 2009; Vignetti M et al, 2007; Ottmann OG et al, 2009; Fielding AK, 2010; Foà R et al, 2011; Chiaretti S et al, 2016b). Il primo inibitore utilizzato in clinica è stato l’imatinib (Glivec®), che inibisce la TK associata al gene di fusione BCR-ABL1 e non solo (inibisce anche il c-Kit ed il PDGF-R); inibitori di seconda generazione, come il dasatinib (Sprycel®) o il nilotinib (Tasigna®) sono approvati per il trattemento di seconda linea (resistenza e/o intolleranza all’imatinib) e nell’ambito di protocolli clinici. Molti gruppi cooperativi utilizzano la somministrazione di un inibitore di TKI (di prima o seconda generazione) nel trattamento d’induzione in associazione alla chemioterapia convenzionale. Tuttavia, questa associazione non è priva di tossicità ed i vari studi riportano percentuali di morti in induzione intorno al 5% (Wassmann B et al, 2006; Yanada M et al, 2006; de Labarthe A et al, 2007; Bassan R et al, 2010; Ravandi F et al, 2013; Fielding AK et al, 2014; Ravandi F et al, 2015). Il gruppo GIMEMA, utilizzando l’imatinib in associazione con i soli steroidi, ha ottenuto una RC in tutti i pazienti anziani (>60 anni), senza il riscontro di tossicità maggiori (Vignetti M et al, 2007); dato confermato anche da altri gruppi (Ottmann OG et al, 2007).
La somministrazione in induzione di imatinib in associazione con i soli steroidi e punture lombari terapeutiche si è dimostrata efficace anche negli adulti più giovani (<60 anni) (Chiaretti S et al, 2016a). Tuttavia, un trattamento di consolidamento è necessario per ridurre e, possibilmente, eradicare la MMR (Chiaretti S, Foà R, 2015a; Chiaretti S et al, 2016b). Lo studio sequenziale GIMEMA LAL0904 con imatinib (più steroidi) seguito da chemioterapia per adulti fino a 60 anni ha dimostrato una DFS e una OS a 5 anni del 45.8% e del 48.8%, rispettivamente (Chiaretti S et al, 2016a).
Il gruppo PETHEMA utilizzando in induzione imatinib in associazione ad una chemioterapia ad intensità ridotta rispetto al precedente protocollo che associava una chemioterapia intensiva ha riportato il 100% di RC in una coorte di 29 pazienti ed un miglioramento dell’EFS a 2 anni (63% vs. 37%) (Ribera JM et al, 2012). Il gruppo GRAALL ha pubblicato i risultati di uno studio randomizzato su 268 pazienti adulti trattati con imatinib in associazione a chemioterapia ad intensità ridotta o intensiva riportando percentuali di RC migliori nel braccio ad intensità ridotta per il minor numero di morti in induzione, senza differenze significative in termini di risposte molecolari maggiori, EFS ed OS a 5 anni (Chalandon Y et al, 2015).
Il dasatinib, inibitore di seconda generazione, è stato utilizzato in diversi studi cooperativi con buoni risultati, anche se l’associazione con la chemioterapia ha provocato una maggiore tossicità ed importanti effetti collaterali (Ravandi F et al 2010; Rousselot P et al, 2016). Nella nostra esperienza (GIMEMA) utilizzando il dasatinib da solo con gli steroidi come trattamento di prima linea dei pazienti adulti con LAL Ph + (inclusi gli anziani) si possono ottenere percentuali di RC nel 100% dei pazienti valutabili, con una buona tollerabilità e nessun decesso in induzione (Foà R et al, 2011; Chiaretti S et al, 2021). Sebbene non vi siano confronti diretti tra l’imatinib ed il dasatinib, è doveroso notare che una percentuale di pazienti può ottenere negativizzazioni molecolari persistenti con il solo impiego del dasatinib.
Infine è stato dimostrato che il TKI di terza generazione ponatinib (Iclusig®) è in grado di indurre ottime percentuali di risposta nei pazienti BCR-ABL1+, incluse le leucemie mieloidi croniche, che hanno sviluppato resistenza agli altri TKI, o presentano la mutazione di ABL1 T315I (Cortes JE et al, 2012; Cortes JE et al, 2013; Shamroe CL et al, 2013). Il gruppo dell’MD Anderson Cancer Center ha riportato i dati relativi all’impiego del ponatinib in prima linea, in associazione con chemioterapia intensiva in una coorte di 37 casi (Jabbour E et al, 2015b). Complessivamente, i risultati sono stati molto promettenti, considerando che l’EFS e l’OS a 2 anni sono dell’81% e dell’80%, rispettivamente, con solo 2 pazienti recidivati. Inoltre, nei pazienti rispondenti, l’allo-SCT (eseguito in 9 pazienti) non ha migliorato l’OS. Tuttavia, va sottolineato che si sono verificati 6 decessi in remissione per cui sono necessari ulteriori studi per valutare l’incidenza e la severità degli eventi avversi riscontrati (in particolare eventi tromboembolici). I successivi aggiornamenti pubblicati di questo studio confermano i risultati sopradescritti (EFS a 3 anni del 70%, OS a 3 anni del 76%) (Jabbour E et al, 2018). Il GIMEMA ha completato uno studio con ponatinib e steroidi, senza chemioterapia sistemica, per pazienti >60 anni o unfit: dopo 6 settimane di trattamento, il 95% dei pazienti era in remissione ematologica e dopo 24 settimane il 60% di pazienti era in remissione molecolare. L’OS a un anno è dell’80% (Martinelli G et al, 2017). Tuttavia, va ricordato che il ponatinib, avendo diversi target, non è scevro da importanti effetti collaterali, rappresentati soprattutto da eventi trombotici e cardiovascolari che richiedono un’attenta ed accurata gestione del paziente. In ogni caso, bisognerà considerare i risultati dopo un periodo più lungo di valutazione.
Un altro approccio può essere basato sulla combinazione di TKI con strategie immunoterapeutiche, in particolare il blinatumomab. L’anticorpo bispecifico è stato testato in pazienti con LAL-B Ph+ R/R (studio ALCANTARA), con risultati promettenti (Martinelli G et al, 2017a). Il GIMEMA ha disegnato e portato a termine un protocollo terapeutico che contempla l’uso del blinatumomab come terapia di consolidamento in prima linea: lo studio D-ALBA (GIMEMA LAL 2116), per pazienti adulti (>18 anni, senza limite d’età) con LAL Ph+ di nuova diagnosi, in cui, dopo una fase di induzione con dasatinib e steroidi, i pazienti ricevono almeno 2 cicli di blinatumomab, a prescindere dalla risposta alla terapia d’induzione. All’endpoint primario (fine del 2° ciclo), il 60,4% aveva ottenuto una risposta molecolare. Ad un follow-up mediano di 18 mesi, l’OS e la DFS sono state del 95% and 88%, rispettivamente (Foà R et al, 2020); i dati aggiornati (follow-up mediano: 27,8 mesi) confermano i risultati preliminari, con un OS e DFS dell’87,8% e 79,8%, rispettivamente (Chiaretti S et al, 2021). I risultati a lungo termine di questo studio verranno valutati nello studio ancillare osservazionale attualmente in corso GIMEMA LAL 2217.
Come nella LAL Ph-, nella LAL Ph+ la MMR ha un ruolo importante nella gestione di questa malattia. Il GIMEMA ha chiaramente dimostrato che il grado di riduzione della MMR è correlato ad una migliore DFS, indipendentemente dall’inibitore utilizzato (Foà R et al, 2011; Chiaretti S et al, 2016b; Foà R et al, 2020). Lee e colleghi (2012) hanno dimostrato che anche la tempistica della clearance della MMR è importante per la stratificazione dei pazienti: i pazienti che presentano una clearance molto precoce hanno una prognosi significativamente migliore. È pertanto indispensabile valutare attentamente la MMR durante il follow-up, per eventuali decisioni terapeutiche; una persistente positività e/o la sua ricomparsa può essere sostenuta dalla presenza di mutazioni esistenti già alla diagnosi (Soverini S et al, 2011) o insorgenza di nuove mutazioni resistenti alla terapia con TKI; tra queste, le più deleterie sono la mutazione T315I e le cosiddette “compound mutations” (Zabriskie MS et al, 2014). Quindi, l’aumento della MMR deve essere seguito obbligatoriamente dalla ricerca di cloni mutati, mediante Sanger sequencing – che ad oggi rappresenta la metodica standard – o in alternativa mediante metodiche di NGS (Soverini S et al, 2019).
Complessivamente questi dati indicano che: 1) la terapia di induzione deve includere un TKI, da solo o in associazione a trattamenti chemioterapici ad intensità ridotta per ridurre le tossicità maggiori; 2) dopo l’ottenimento della RC, è necessario un trattamento di consolidamento che varia a seconda dei gruppi ma che generalmente include alte dosi di chemioterapia, al fine di ridurre ulteriormente, e, possibilmente, eradicare la MMR; 3) la terapia con TKI può rappresentare un “ponte” al trapianto per i pazienti idonei (Ottmann OG et al, 2009; Fielding AK, 2010; Fielding AK et al, 2014; Yoon JH et al, 2016). 4) l’utilizzo del blinatumomab in associazione ai TKI sembra essere una strategia estremamente efficace ed il prossimo studio GIMEMA valuterà se alcuni pazienti con LAL Ph+ potranno giovarsi in futuro di un approccio del tutto chemo-free.
L’ allo-SCT è spesso considerato l’unico trattamento curativo per i pazienti, soprattutto se giovani (Brissot E, et al 2015). Tuttavia, è sempre più dibattuto il ruolo del trapianto nei pazienti che ottengono una risposta molecolare completa, soprattutto se precoce, e persistente (Chiaretti S, Foà R, 2015a).
Inoltre, l’efficacia della terapia con TKI sta consentendo di rivalutare anche il ruolo del trapianto autologo, soprattutto nei pazienti con comorbidità e che ottengono delle risposte molecolari complete (Wetzler M et al, 2014; Giebel S et al, 2014; Giebel S et al, 2018). Restano comunque aperte alcune problematiche come l’insorgenza di una resistenza primaria agli inibitori o la comparsa di mutazioni, quale sia l’approccio migliore alla profilassi del SNC considerando anche la scarsa penetrabilità dei TKI nel SNC, e quando e per quanto tempo proseguire la terapia di mantenimento con TKI post-trapianto.
Infine, la presenza di alterazioni genomiche aggiuntive può avere un impatto sulla prognosi. Come già menzionato, le delezioni di IKZF1 sono state associate ad una maggior tasso di recidive (Martinelli G et al, 2009); tuttavia, sta emergendo che la concomitante presenza di più lesioni genomiche, comprendenti IKZF1, abbia un impatto sulla sopravvivenza a lungo termine (Ribera J et al, 2015; ; Motlló C et al 2017; Pfeiffer H et al, 2018: Fedullo AL et al, 2019; Foà R et al, 2020). Due studi (Pfeiffer H et al, 2018; Fedullo AL et al, 2019) hanno chiaramente dimostrato come la presenza di lesioni a carico di IKZF1, CDKN2A e/o PAX5 si associ ad una prognosi significativamente peggiore rispetto a pazienti senza le suddette alterazioni; l’impatto prognostico di queste lesioni non è abrogato dal trapianto e pertanto questi pazienti rappresentano un sottogruppo per cui è necessario disegnare nuove strategie terapeutiche.
Come per altri sottogruppi di LAL, quando si verifica una recidiva, la prognosi è decisamente sfavorevole. Anche se si ottiene una seconda remissione, non vi è consenso su quale sia il trattamento più appropriato nei pazienti con LAL Ph+ resistenti ai TKI. L’impiego degli anticorpi monoclonali, i.e blinatumomab e inotuzumab ozogamicin, ha permesso di ottenere nel 36% di casi la RC, aprendo la possibilità a procedure trapiantologiche (Martinelli G et al, 2017a; Kantarjian H et al, 2017).
In conclusione, un’ottimale gestione del paziente con LAL Ph+ deve ad oggi comprendere la valutazione di lesioni genomiche aggiuntive alla diagnosi, la valutazione della MMR e la ricerca di mutazioni in caso di incremento dei livelli di MMR, associate all’impiego di TKI con terapie target (i.e. immunoterapia) al fine di garantire una corretta stratificazione terapeutica. Questi principi si applicano tanto all’adulto che all’anziano.
La LAL a cellule B-mature (FAB L3) o linfoma “Burkitt type (BL)” (LAL-B/BL) è un’entità rara che rappresenta tra l’1 e il 5% delle LAL o dei linfomi linfoblastici dei bambini e degli adulti. La classificazione WHO (Jaffe ES et al, 2001) riconosce le fasi di linfoma e di leucemia come una singola entità, ovvero come sottotipo di linfoma di Burkitt/leucemia a cellule di Burkitt. Questo sottogruppo di LAL mostra caratteristiche cliniche e biologiche definite: a) clinicamente, sono presenti importanti masse tumorali e, spesso, coinvolgimento del SNC; b) dal punto di vista biologico, hanno un aspetto morfologico caratteristico, un immunofenotipo a cellule B mature e nell’80% dei casi circa sono presenti le traslocazioni che coinvolgono la regione 8q24 ed il locus delle IgH nella regione 14q32, o, più raramente, il locus delle catene leggere (2p12 o 22q11) (Blum KA et al, 2004; Burmeister T et al, 2005). Tali riarrangiamenti determinano una deregolazione ed una iperespressione del protooncogene c-MYC che influenza la trascrizione di numerose proteine coinvolte nella regolazione del ciclo cellulare, apoptosi, crescita cellulare, adesione cellulare e differenziazione. Un approfondito inquadramento alla diagnosi è essenziale per una valutazione uniforme della MMR; la citogenetica e la FISH, consentono di identificare la traslocazione t(8;14) e le sua varianti, e la long distance PCR (LD-PCR) identifica il riarrangiamento c-myc/IgH, ma ciò è possibile solo per quei pazienti che presentano tale alterazione. Nella quota di pazienti (20-25%) che non presenta la traslocazione t(8;14) si può studiare la MMR mediante l’analisi del riarrangiamento delle Ig. Utilizzando queste tre metodiche è pertanto possibile valutare la MMR in tutti i pazienti con LAL-B/BL. La prognosi della LAL- B/BL era, nel passato, sfavorevole. Infatti, l’alta frazione di crescita è responsabile dello sviluppo di resistenza alle terapie convenzionali. L’applicazione di regimi terapeutici composti da cicli di chemioterapia intensiva e di una importante profilassi intratecale hanno reso questo tipo di LAL una neoplasia curabile (Patte C et al, 2002; Thomas DA et al, 2006; Kenkre VP et al, 2009; Barnes JA et al, 2011). L’estrema chemiosensibilità di queste forme aggressive, con massa bulky, può determinare in coincidenza con l’inizio del trattamento, l’insorgenza di una sindrome da lisi tumorale, conseguenza della citolisi massiva; pertanto è indicato eseguire un trattamento preventivo mediante iper-idratazione con diuresi forzata, alcalinizzazione delle urine e somministrazione di farmaci uricosurici. La terapia di mantenimento non ha dimostrato benefici e non viene pertanto consigliata/utilizzata. Il ruolo del trapianto allogenico o autologo in questa patologia è ancora da definire (Linch DC, 2012). Un ulteriore miglioramento è stato ottenuto grazie all’aggiunta dell’anticorpo monoclonale anti-CD20 (rituximab) in combinazione alla chemioterapia (Hoelzer D et al, 2014; Ribrag V et al, 2016) (vedi approfondimentoLAL B-mature )
La LAL BCR-ABL1-like è stata inizialmente evidenziata mediante il profilo di espressione genica (vedi approfondimentoLAL BCR-ABL1-like ). Infatti, in due lavori (Haferlach T et al, 2005; Chiaretti S et al, 2005) che analizzavano le LAL-B dell’adulto, si era identificato un piccolo numero di casi (circa il 15% di tutte le LAL-B) che, pur non presentando il trascritto BCR-ABL1, avevano un profilo di espressione simile. In seguito, in ambito pediatrico è stato possibile evidenziare lo stesso fenomeno, con un’incidenza simile anche nei piccoli pazienti (Mullighan CG et al, 2009a; Den Boer ML et al, 2009; Harvey RC et al, 2010a). La successiva caratterizzazione, mediante SNP arrays inizialmente, e più recentemente mediante NGS, ha consentito di definire meglio questo sottogruppo. Le caratteristiche genetiche tipiche di questi casi sono rappresentate dal profilo trascrizionale simil-BCR-ABL1, dalla presenza di alterazioni a carico di chinasi e recettori di citochine e di anomalie numeriche a carico del cromosoma 9 e del cromosoma 7 (Den Boer ML et al, 2009), dove è localizzato IKZF1, (deleto nel 40% circa di questi casi), dalla frequente – ma non univoca – deregolazione di CRLF2 (16% dei casi) (Van der Veer A et al, 2013). Tra i riarrangiamenti più comuni ricordiamo quelli a carico di ABL1, EPOR, JAK2, PDGFRB, NTRK3 e CSF1R (i.e. NUP214-ABL1, RANBP2-ABL1, BCR-JAK2, STRN3-JAK2, EBF1-PDGFRB) (Roberts KG et al, 2013; Iacobucci I et al, 2016). Sono, inoltre, frequenti le mutazioni a carico dei geni delle vie della trasduzione del segnale JAK/STAT (JAK1, JAK2, IL7R, CRLF2, SH2B3, IL2RB) e RAS (FLT3, K/N-RAS).
La definizione delle lesioni sottostanti questo fenotipo, e la produzione di modelli murini, ha consentito di chiarire che questo sottogruppo di pazienti potrebbe beneficiare, alla stregua dei casi BCR-ABL1+, dell’impiego clinico di inibitori delle TK (Roberts et al, 2012; Maude SL et al, 2012; Roberts KG et al, 2014; Chiaretti S et al, 2019a).
Le LAL Ph-like rappresentano circa il 20% di tutti i casi di LAL-B, e sono riscontrate esclusivamente nei casi che non presentano riarriangiamenti moleculari noti (i.e. BCR/ABL1, KT2MA-r e TCF3/PBX1). In generale, l’incidenza di questo sottogruppo è maggiore nell’adolescente piuttosto che nel bambino, e si attesta intorno al 25%.
Sebbene questo dato circa l’incidenza sia ormai assodato, è altresì vero che, con il crescente numero di studi su questi pazienti, vi sono evidenze che suggeriscono un incremento dell’incidenza con il progredire dell’età, alla stregua di quanto osservato nelle LAL Ph+ (Herold T et al, 2014 e 2017; Roberts KG et al, 2017; Jain N et al, 2017; Chiaretti S et al, 2018; Chiaretti S et al, 2021). Le LAL Ph-like sono di difficile gestione clinica, per diverse ragioni; il background genetico è estremamente eterogeneo e variabile e, in virtù dell’eterogenità genetica di questi pazienti, non esiste un test diagnostico unico. Infatti la diagnosi necessita dell’integrazione di numerose metodiche: per sopperire a questa difficoltà oggettiva, è stata riportata la validità del “BCR/ABL1-like predictor”, un test basato sulla valutazione in PCR di 10 geni, che vengono utilizzati per definire in maniera rapida (entro 7 giorni dalla diagnosi) se il paziente è Ph-like (Chiaretti S et al, 2018).
Clinicamente, questi pazienti sono spesso adolescenti, di sesso maschile, e presentano quadri caratterizzati da iperleucocitosi, scarsa risposta alla terapia di induzione, alta incidenza di recidive che si traduce in ridotte percentuali di OS (Herold T et al, 2014 e 2017; Roberts KG et al, 2017; Jain N et al, 2017; Chiaretti S et al, 2018, Chiaretti S et al, 2019a; Stock W et al, 2019). Da un recente lavoro che ha utilizzato il “BCR/ABL1-like predictor” per l’identificazione dei pazienti Ph-like, è emerso come questi ultimi presentino un tasso di RC significativamente più basso, una EFS e DFS peggiori, così come una maggiore persistenza della MMR anche quando trattati con protocolli terapeutici intensivi pediatric-like e guidati dalla MMR, sottolineando come il riconoscimento precoce di una LAL Ph-like sia cruciale per una migliore stratificazione del rischio e per migliorare le strategie terapeutiche (Chiaretti S et al, 2021).
Riconoscere questi pazienti il prima possibile permette di instaurare terapie alternative che possono includere trattamenti mirati, per esempio TKI. Diversi sono gli approcci proposti (Tasian Sk et al, 2017; Maese L et al, 2017; Boer Jm et al, 2017; Chiaretti S et al, 2019a): il primo è basato sul targeting della lesione genetica sottostante ed include il trattamento con TKI per i pazienti con lesioni che coinvolgono geni della classe di ABL e con inibitori di JAK2, in particolare il ruxolitinib, nei casi che presentano lesioni del pathway di JAK/STAT. Purtroppo, il trattamento con ruxolitinib si è dimostrato inefficace nel setting clinico. Un secondo approccio si basa sull’impiego del ponatinib in tutti i pazienti: il razionale per questo approccio risiede nell’evidenza in vitro dell’efficacia del ponatinib in tutti i casi Ph-like, a prescindere dalla lesione sottostante e da casi sporadici riportati presenti in letteratura (Colette Y et al, 2015; Lunghi M et al, 2020). Sono stati recentemente riportati i risultati di una esperienza real-life in una coorte di pazienti Ph-like con riarrangiamento della chinasi della classe di ABL trattati con TKI in prima linea o in recidiva, che ha evidenziato tassi di risposte ematologiche e molecolari promettenti (Tanasi I et al, 2019).
Infine, il ruolo degli anticorpi monoclonali, i.e. blinatumomab e inotuzumab, è in corso di valutazione. Ad oggi, la migliore strategia terapeutica dovrebbe basarsi su un trattamento combinato di chemioterapia e trattamento targeted, seguito quanto prima da trapianto.
Possiamo dire che l’identificazione dei casi di LAL Ph-like può essere considerata come un successo delle applicazioni di genomica avanzata.
La LAL-ETP è un sottotipo di LAL-T definito da un immunofenotipo (vedi sopra) e da un profilo di espressione genica caratteristico (Chiaretti S et al, 2010; Neumann M et al, 2012; Haydu JE and Ferrando AA, 2013). Questa forma di leucemia deriva da un precursore delle cellule T, un timocita che migra dal midollo osseo al timo e presenta caratteristiche simili ad una cellula staminale, potenzialmente in grado di differenziarsi sia in senso mieloide che linfoide T. L’immunofenotipo è caratterizzato dall’assenza del CD1a ed CD8, dalla debole espressione del CD5 e dall’espressione di almeno un marcatore della linea mieloide o della cellula staminale quali: CD117, CD34, HLA-DR, CD13, CD33, CD11b, e CD65. L’incidenza delle LAL-ETP varia tra il 5-16% di tutte le LAL-T; dal punto di vista clinico sembrano essere molto poco responsive alle terapie, con una scarsa risposta alla pre-fase steroidea, un basso di tasso di RC ed alti livelli di MMR. I pazienti affetti da LAL-ETP hanno una prognosi sfavorevole, sia nell’ambito adulto che pediatrico (Coustan-Smith E et al, 2009; Inukai T et al, 2012; Ma M et al, 2012; Haydu JE and Ferrando AA, 2013; Jain N et al, 2016). Il profilo di espressione genica delle LAL-ETP, nell’adulto inizialmente definito myeloid-like (Chiaretti S et al, 2010), è caratterizzato dall’iperespressione di numerosi fattori di trascrizione della linea mieloide (inclusi CEBPA, CEBPB, CEBPD), e dall’iperespressione del miR-221, -222, e -223 (Chiaretti S et al, 2010; Coskun E et al, 2013). Inoltre, questi casi sono caratterizzati da un’elevata instabilità genetica. Infatti, gli studi di NGS hanno rivelato la presenza di diversi riarrangiamenti intracromosomici, delezioni ed inserzioni, ed un’alta frequenza di mutazioni che attivano geni che regolano i recettori delle citochine e la via del segnale di RAS (NRAS, KRAS, FLT3, IL7R, JAK3, JAK1, SH2B3 e BRAF), mutazioni inattivanti fattori di trascrizione coinvolti nello sviluppo ematopoietico (GATA3, ETV6, RUNX1 ed IKZF1) e geni che modificano l’istone (EZH2, EED, SUZ12, SETD2 e EP300) (Van Vlierberghe P et al, 2011; Zhang J et al, 2012; Neumann M et al, 2013). Si riscontrano spesso mutazioni tipiche delle LAM (IDH1, IDH2, DNMT3A, FLT3 e NRAS), mentre sono meno frequenti quelle tipiche delle LAL-T (delezione di CDKN2A/B, mutazioni di NOTCH1).
Complessivamente, la somiglianza del profilo di espressione genica con la cellula staminale, l’iperespressione di fattori di trascrizione mieloidi e di mutazioni tipiche delle LAM suggeriscono come le LAL-ETP si trovino in una sorta di zona grigia tra le LAL-T e le LAM. Neumann M et al (Neumann M et al, 2012) hanno mostrato in questo sottogruppo un’alta percentuale (35% circa) di casi con mutazioni di FLT3 (sia ITD che TKD) e DNMT3A, ipotizzando un ruolo degli inibitori di FLT3 in queste forme di LAL.
Maude et al. (Maude SL et al, 2015) hanno dimostrato che le cellule di pazienti con LAL-ETP presentano una attivazione aberrante della via del segnale di JAK/STAT che è indipendente dalla presenza di mutazioni, dimostrando altresì l’efficacia in modelli murini del ruxolitinib nel ridurre la massa leucemica. Alla luce di questi risultati, gli inibitori della via del segnale di JAK/STAT e RAS potrebbero rappresentare delle interessanti opzioni terapeutiche per questo sottogruppo di pazienti.
Inoltre, il gruppo GRAALL ha descritto nei pazienti con LAL-ETP un’alta incidenza di casi con iperespressione dei geni della famiglia HOXA (Bond J, et al. 2016) dimostrando che la prognosi peggiore si riscontra nei – ed è confinata ai – casi con fenotipo ETP e concomitante iperespressione degli HOXA per i quali sarebbe necessario un trattamento più intensivo, che contempli un allo-SCT (Bond J et al, 2017).
Infine, due gruppi di ricerca hanno riportato in modo indipendente che le LAL-ETP sembrano esprimere alti livelli della proteina BCL2 rispetto ai casi non-ETP, con conseguente maggiore suscettibilità alla soppressione di Bcl2 con farmaci target come l’ABT-199 (venetoclax) (Peirs S et al, 2014; Chonghaile TN et al, 2014). In una piccola casistica è stata riportata l’esperienza di 3 pazienti con LAL-ETP R/R trattati con venetoclax-bortezomib, con risposte in tutti e 3 i pazienti, e ha permesso di indirizzare 2 pazienti eleggibili ad allo-SCT (La Starza R et al, 2019).
È fin troppo evidente l’importanza di sviluppare nuove strategie terapeutiche al fine di migliorare la prognosi a lungo termine delle LAL, soprattutto nell’ambito della popolazione adulta (Thomas DA et al, 2002; Pui CH et al, 2007; Bassan R, Hoelzer D, 2011; Bassan R et al, 2018). Una nuova generazione di “targeted therapies” (oltre a quanto fino ad ora fatto nelle LAL Ph+), dirette verso “pathways” di segnale che controllano il ciclo cellulare, la trascrizione del gene, la mobilità cellulare, l’apoptosi ed il metabolismo cellulare, sta emergendo (Figura XIX). Da valutare altresì l’uso di nuovi farmaci in ulteriori sottogruppi di LAL definiti sulla base delle caratteristiche genetiche.
Figura XIX. Schema semplificato dei potenziali siti “bersaglio” per nuovi agenti terapeutici (Pui CH et al, 2007)
Inoltre, esistono delle nuove formulazioni di farmaci già noti che ne hanno migliorato l’efficacia e ridotta la tossicità. Di seguito sono riassunti gli sviluppi in corso.
A) Farmaci cosiddetti “standard” in nuove formulazioni con aumentata tollerabilità e attività farmacologica. Esempi di tali farmaci sono rappresentati da:
– Pegylated asparaginase (PEG-L-asparaginase, Oncaspar®): è una preparazione dell’asparaginasi derivata dall’E. Coli, che ha una ridotta immunogenicità ed una emivita di eliminazione più lunga; ciò consente il suo uso come singola dose durante la chemioterapia di induzione ed è ormai stabilmente inserita nei nuovi protocolli di chemioterapia. Il farmaco, efficace nel migliorare la sopravvivenza, è tuttavia gravato da tossicità soprattutto a livello epatico, pancreatico e coagulativo. Un’attenta valutazione del performance status dei pazienti nonché la valutazione del cosiddetto body-mass index (BMI) e della stenosi epatica sono utili per una migliore gestione del farmaco (Balsat M et al, EHA 2016; Kamal N et al, 2019).
– Agenti liposomiali: le preparazioni liposomiali di composti chemioterapici alterano le proprietà farmacologiche e la tossicità della parte attiva del composto, aumentandone l’efficacia e riducendone la tossicità. Esempi di tali farmaci sono rappresentati dalla vincristina liposomiale (O’Brien S et al, 2013; Shah NN et al, 2016; Douer D, 2016; Schiller GJ et al, 2018), dalla daunorubicina liposomiale e dalla citarabina liposomiale (Depocyte®).
La vincristina liposomiale è stata impiegata in casistiche comprendenti LAL pediatriche ed adulte già sottoposte a numerose linee di trattamento: nell’adulto, sono state ottenute remissioni cliniche nel 20% di casi e una piccola frazione di pazienti è stata sottoposta a procedure trapiantologiche (O’Brien S et al, 2013). Nelle coorti pediatriche, uno studio di fase I, condotto su 23 pazienti, ha indicato che la dose di 2,25 mg/m2 è ben tollerata, e ha messo in evidenza un’efficacia del farmaco con negativizzazione della MMR in 1 caso e malattia steabile in 9 casi (Shah NN et al, 2016).
Più recentemente, lo stesso farmaco è stato testato singolarmente o in associazione ai corticosteroidi in uno studio di fase II nel setting degli adolescenti e giovani adulti con LAL R/R, mostrando un tasso di ORR del 39% e con un profilo di sicurezza comparabile a quello della vincristina standard (Schiller GJ et al, 2018).
La daunorubicina liposomiale è stata impiegata in combinazione con la fludarabina e a la citarabina (FLAD) in uno studio comprendente 79 pazienti affetti da LAL o da LAM: tale approccio, ben tollerato, ha indotto una percentuale complessiva di RC del 59% (De Astis E et al, 2014).
Infine, diversi studi hanno dimostrato l’efficacia della somministrazione intratecale in caso di recidive a carico del SNC (Phuphanich S et al. 2007; Gökbuget N et al, 2011a; Parasole R et al, 2015). Tuttavia, la frequente ed importante neurotossicità, in parte ridotta dall’aggiunta di desametasone intratecale, ne limita la sua applicazione nella profilassi primaria del SNC (Jabbour E et al, 2007). Inoltre, due diversi studi randomizzati non hanno dimostrato un miglioramento della sopravvivenza a lungo termine nel gruppo di pazienti che avevano ricevuto citarabina liposomiale intratecale rispetto al gruppo di pazienti che aveva ricevuto citarabina e metotrexate intratecali (Bassan R et al, 2015; Levinsen M et al, 2016). Attualmente alcuni studi stanno valutando l’efficacia del CPX-351, una formulazione liposomiale di una associazione fissa di daunorubicina e citarabina in rapporto molare 1:5, già approvato nel trattamento della leucemia mieloide acuta ad alto rischio (NCT03575325).
B) Chemioterapici con meccanismi di azione diversi da quelli in uso. Ne esistono diversi ed alcuni, dopo una prima fase di studio, sono già utilizzati nella pratica clinica.
– Nelarabina (2-amino-9-B-D-arabinosyl-6-methoxy-9H-guanione; GW Compound 506U78): inibitore dell’enzima PNP (purine-nucleoside-phosphorylase), metabolizzata in ara-G (9-B-D-arabinofuranosilguanina), e dopo fosforilazione tramite la deossicitidina-chinasi, induce apoptosi mediante l’accumulo di dGPT nei linfoblasti a fenotipo T, attualmente è approvata per il trattamento delle recidive delle LAL-T, ma recentemente diversi studi stanno valutando la sua efficacia anche in prima linea (DeAngelo DJ et al, 2007b; Cooper TM et al, 2007; Gökbuget N et al, 2011b; Jain P et al, 2014; Abaza Y et al, 2018). In prima linea, la nelarabina è stata valutata in combinazione con Hyper-CVAD dal gruppo dell’MD Anderson Cancer Center: in questo studio non è stato trovato alcun miglioramento significativo nel tasso di RC o in di OS rispetto al confronto con i controlli storici che avevano ricevuto solo Hyper-CVAD (Abaza Y et al, 2018). Diversamente, il Children Oncology Group (COG) nello studio AALL0434, ha aggiunto la nelarabina allo standard di trattamento con miglioramento della DFS a 4 anni rispetto a chi faceva solo chemioterapia dall’83,3% all’88,9% (Dunsmore KP et al, 2018).
Nel setting dei R/R, un recente studio in un’ampia coorte di pazienti con LAL T R/R ha dimostrato che la nelarabina rappresenta un trattamento di salvataggio efficace con una ORR del 50% e un tasso di RC del 36%; inoltre, il 40% dei pazienti dopo la terapia di salvataggio ha potuto eseguire un allo-SCT (Candoni et al, 2020).
– Clofarabina (2-chloro-2’fluoro-deoxy-9-beta-D-arabinofuranosyladenine): il meccanismo d’azione comprende sia l’inibizione della ribonucleotide-reduttasi (RnR) che della DNA polimerasi, con importanti effetti anti-tumorali; si è dimostrata attiva sia singolarmente sia in modulazione con altri farmaci come la citarabina o la ciclofosfamide (Faderl S et al, 2005; Jeha S et al, 2006; Vitale A et al, 2009; Faderl S et al, 2013; Shukla N et al, 2014). Nelle LAL R/R, il GIMEMA ha recentemente dimostrato come la clofarabina sia attiva nel reindurre risposte ematologiche nel 57,6% dei casi permettendo di avviare a trapianto il 47% dei pazienti rispondenti (Bassan R et al, 2019).
C) Terapie “mirate” capaci di inibire uno specifico elemento molecolare o cellulare biologicamente importante per un definito sottogruppo di pazienti (Thomas DA et al, 2002; Pui CH, Jeha S, 2007; Mathisen MS et al, 2014; Portell CA, Advani AS, 2014). Sono molteplici e interessano meccanismi di azione differenti coinvolti nella patogenesi della leucemia:
– TKI ed inibitori delle chinasi: oltre alle LAL BCR-ABL1+ (vedi sopra), i TKI potrebbero essere efficaci anche in altri sottogruppi – sia di LAL-B che di LAL-T – caratterizzati da mutazioni o riarrangiamenti a carico di TK. Studi in vitro e in modelli di xenograft hanno infatti dimostrato l’efficacia del dasatinib o dell’imatinib su cellule primarie provenienti da pazienti BCR-ABL1-like con fusioni di ABL1, ABL2, CSF1R, e PDGFRB o su linee cellulari di LAL-T NUP214-ABL1 o EML1-ABL1 positive (De Keersmaecker K et al, 2005; Quintás-Cardama A et al, 2008; Roberts KG et al, 2017, Chiaretti S et al, 2019a). Diversi sono gli approcci proposti per le LAL BCR-ABL1-like (Tasian Sk et al, 2017; Maese L et al, 2017; Boer Jm et al, 2017; Chiaretti S et al, 2019a): il primo è basato sul targeting della lesione genetica sottostante con dasatinib o imatibi per i pazienti con mutazioni dei geni della classe di ABL o con inibitori di JAK2, in particolare il ruxolitinib, nei casi che presentano lesioni del pathway di JAK/STAT. Un secondo approccio si basa sull’impiego dell’inibitore pan-TKI, ponatinib, in tutti i pazienti a prescindere dalla lesione sottostante (Colette Y et al, 2015; Lunghi M et al, 2020).
Gli inibitori di MEK (come selumetinib), di mTOR (i.e. rapamicina ed i suoi derivati) o di mTOR/PI3K (come BEZ235) potrebbero essere efficaci in pazienti con mutazioni a carico di K/N-RAS o PTEN, come dimostrato da studi in vitro (Irving J et al, 2014; Messina M et al, 2016; Gianfelici V et al, 2016).
– Gli antagonisti di BCL2 potrebbero rappresentare una valida opzione terapeutica per specifici sottogruppi. Infatti, diversi lavori hanno dimostrato l’efficacia dell’ABT-199 (venetoclax) su cellule primarie di LAL-T iperesprimenti TLX3 o HOXA e, più in generale, nelle forme più immature (Peirs S et al, 2014), mentre, nell’ambito delle LAL-B, un recente lavoro ne ha dimostrato l’efficacia su linee cellulari e modelli murini con t(4;11) (Benito JM et al, 2015). Inoltre, studi in vitro hanno evidenziato che l’ABT-263 (navitoclax) è in grado di inibire la proliferazione cellulare di cellule con mutazioni a carico di STAT5B (Bandapalli OR et al, 2014).
– Inibitori di NOTCH1. L’elevata frequenza delle mutazioni a carico di NOTCH1 ed il loro ruolo nella patogenesi delle LAL-T hanno portato allo sviluppo di diversi farmaci bersaglio; tuttavia la tossicità, soprattutto a livello intestinale ne hanno limitato l’impiego. Recentemenre, è in corso uno studio clinico di fase I/IIa, con l’inibitore CB-103 (NCT03422679), che sta attualmente reclutando pazienti.
D) Anticorpi monoclonali: la superficie delle cellule leucemiche esprime una varietà di antigeni come CD20, CD19, CD22, CD33 e CD52 che possono servire come “bersaglio” per un trattamento con anticorpi monoclonali. Tali agenti possono essere utilizzati come singolo farmaco o in combinazione con chemioterapici, come “purging” pre-trapianto e come terapia post-trapianto, e possono risultare particolarmente efficaci in casi con evidenza di MMR (Gokbuget N, Hoelzer D, 2003; Castillo J et al, 2008; D’Argouges S et al, 2009; Hoelzer D et al, 2011; Hoelzer D, 2013; Kochuparambil TS and Litzow RM, 2014; Ai J and Advani A, 2015; Jabbour E et al, 2015b). Diversi sono gli anticorpi monoclonali disponibili per l’uso clinico. Tra questi:
– Anti-CD20 (rituximab, ofatumumab), anticorpo chimerico il cui utilizzo è inserito ormai nei protocolli per il trattamento all’esordio della LAL-Burkitt type con eccellenti risultati. Si è dimostrato altrettanto efficace nelle forme di LAL pre-B non Burkitt, anche se in alcuni studi ne viene indicato l’utilizzo solo nei casi con espressione del CD20 maggiore del 20%. Uno studio dell’MD Anderson Cancer Center ha dimostrato l’efficacia dell’aggiunta del rituximab in associazione alla chemioterapia nei pazienti adolescenti ed adulti (età ≤60 anni) CD20-positivi con LAL-B de novo. La OS a 3 anni è risultata significativamente superiore nei pazienti che avevano ricevuto il rituximab rispetto a coloro che avevano ricevuto la sola chemioterapia (75% vs 47%, p=0,003), con negativizzazioni della MMR nell’81% dei casi (Thomas DA et al, 2010). Il gruppo GRAALL (CT.gov:NCT00327678) ha Il dimostrato – nell’ambito di uno studio randomizzato che paragonava la combinazione immunochemioterapica vs la sola chemioterapia – che l’aggiunta del rituximab durante tutto l’iter terapeutico in pazienti affetti da LAL-B CD20+ di età compresa tra 18 e 59 anni è in grado di incrementare il tasso di casi che effettuano un allo-SCT, migliorare l’EFS (65% vs 52%, p=0,038) e l’OS a 2 anni, quest’ultima solo censorizzando per trapianto (74% vs 63%, p=0,018) (Maury S et al, 2016).
Recentemente sono stati pubblicati i risultati di uno studio di fase 2 che ha utilizzato l’ofatumumab, un anti-CD20 con maggiore attività citotossica mediata da complemento, in associazione all’hyper-CVAD in pazienti con LAL B CD20+ di nuova diagnosi, dimostrandosi efficace e sicuro con un tasso di ORR del 98%, un’EFS e OS a 4 anni del 59% e 88%, rispettivamente (Jabbour E et al, 2020).
— L’anticorpo bispecifico CD19-CD3 (blinatumomab, Blincyto®) di cui già abbiamo parlato, è un farmaco che “lega” i linfociti B CD19+ ai linfociti T, attivando questi ultimi ed inducendo in ultimo, una lisi selettiva delle cellule CD19+. Il blinatumomab ha dato buoni risultati sia nelle LAL-B in RC ematologica con persistenza o ricomparsa della MMR, che in pazienti con recidiva morfologica e questo è stato osservato sia negli adulti – inclusi pazienti anziani – che nei bambini (Topp MS et al, 2011; Handgretinger R et al, 2011; Bassan R, 2012; Topp MS et al, 2012; Zugmaier G et al, 2013; Topp MS et al, 2014; Topp MS et al, 2015; Zugmaier G et al, 2015; Kantarjian H et al, 2016a; von Stackelberg A, 2016) che ha portato all’approvazione del farmaco per i pazienti con LAL B R/R è stato il TOWER che ha paragonato il blinatumomab alla chemioterapia di salvataggio standard (SOC). I risultati conclusivi dello studio hanno riportato un’OS mediana di 7,7 mesi nel braccio blinatumomab vs 4,0 mesi nel braccio chemioterapia, confermato anche dopo censorizzazione per allo-SCT. Nei pazienti arruolati in primo salvataggio, l’OS mediana è stata di 11,1 mesi nel gruppo blinatumomab vs 5,3 mesi nel braccio di controllo. Tra i pazienti che avevano raggiunto la RC, la negatività della MMR è stata ottenuta nel 76% dei pazienti nel braccio blinatumomab vs il 48% nel braccio standard di cura (Kantarjian H et al, 2017).
Complessivamente, quindi, il blinatumomab può essere considerato un’ottima terapia “ponte” per i pazienti in recidiva ematologica candidati ad un allo-SCT (Portell CA et al, 2013); più controverso è il ruolo di un successivo allo-SCT nei pazienti trattati in prima recidiva molecolare, dove apparentemente non vi sono vantaggi significativi (Topp MS et al, 2012), anche nel follow-up a lungo termine (Gökbuget N et al, 2017).
Il blinatumomab è stato inoltre testato in pazienti affetti da LAL-B Ph+ R/R (studio ALCANTARA) con risultati promettenti (Martinelli G et al, 2017). Infatti, il 36% dei pazienti trattati – inclusi 4 pazienti con la mutazione T315I – hanno ottenuto una CR o CRh (con recupero parziale dei valori emocromocitometrici) entro i primi due cicli di trattamento. Nell’88% dei casi si è ottenuta una negativizzazione molecolare della MMR ed il 55% è stato successivamente sotto¬posto ad allo-SCT. La PFS e la OS sono risultate di 6,7 e 7,1 mesi, rispettivamente. Nell’ambito delle LAL dell’adulto (>18 anni senza limite di età) il blinatumomab è stato inizialmente testato in pazienti con MMR persistente o in incremento, un sottogruppo ad alto rischio di recidiva (Topp MS et al, 2011). Il blinatumomab, somministrato in infusione continua per 4 settimane ha indotto una negativizzazione molecolare della MMR nell’80% dei pazienti entro i 4 cicli, nella maggior parte dei casi dopo il primo ciclo, ed una DFS a 33 mesi del 61%, all’ultimo aggiornamento. Il 45% dei pazienti è stato successivamente sottoposto ad allo-SCT. Alla luce dei risultati ottenuti con questo primo studio, è stato disegnato e pubblicato uno studio multicentrico (BLAST trial, NCT01207388): il 78% dei casi ha ottenuto la negativizzazione della MMR dopo il 1° ciclo di trattamento, a conferma dei dati già riportati; inoltre ha confermato l’importanza della negativizzazione della MMR dopo il 1° ciclo di blinatumomab. La RFS mediana non è stata raggiunta per i pazienti trattati in prima RC che hanno ottenuto la negatività delle MMR, a suggerire che questo sia il setting migliore per l’impiego del blinatumomab (Gökbuget N et al, 2017). L’ultimo update dello studio ha evidenziato come siano possibili risposte durature in pazienti che hanno negativizzato la MMR durante il trattamento con blinatumomab con una OS mediana non raggiunta dopo 5 anni di follow up (Gökbuget N et al, 2020). Di particolare interesse è la remissione a 5 anni ottenuta dopo blinatumomab da 7/36 pazienti su 36 che non hanno eseguito allo-SCT di consolidamento; tutti e 7 i pazienti sono in vita e in remissione. Sulla base dei risultati di questo studio, il blinatumomab, è stato approvato da FDA per il trattamento della LAL dell’adulto e del bambino in remissione ma ancora positivi per MMR, e più recentemente anche da EMA (2019) per il trattamento dei pazienti adulti con LAL MMR+.
Recentemente sono state riportate diverse esperienze di real-world sull’uso del blinatumomab nei pazienti con LAL B R/R con dati di efficacia e sicurezza sovrapponibili a quelli degli studi clinici (Apel A et al, 2020; Badar T et al, 2020, Boissel N et al, 2019).
Sono stati recentemente chiusi all’arruolamento due studi di associazione con la chemioterapia come trattamento di prima linea. Il primo è lo studio D-ALBA (GIMEMA LAL2116), disegnato per pazienti adulti con LAL Ph+ di nuova diagnosi (senza limiti di età), in cui, dopo una fase di induzione con dasatinib e steroidi, era prevista la somministrazione di almeno 2 cicli di blinatumomab (vedi sopra) (Foà R et al, 2020). Il secondo studio (GIMEMA LAL2317) è rivolto a pazienti adulti affetti da LAL-B Ph- (età: 18-65 anni), in cui ad uno schema chemioterapico pediatric-oriented e MRD-driven, vengono somministrati 2 cicli di blinatumomab. I risultati preliminari sembrano molto promettenti, soprattutto in termini di MMR (Bassan R et al, 2021). Sono stati recentemente riportati sotto forma di abstract i primi risultati di uno studio di fase II che prevedeva l’uso sequenziale di hyper-CVAD e blinatumomab in pazienti adulti con LAL-B Ph- di nuova diagnosi. Dei 27 pazienti trattati, tutti hanno raggiunto la RC ed il 96% presentava una MMR negativa (in citofluorimetria), con un tasso di RFS e di OS ad un anno del 76% e del 89%, rispettivamente (Richard-Carpentier G et al, 2019). Uno studio di fase III dell’NCI volto a valutare la chemioterapia con o senza blinatumomab nella LAL B Ph- di nuova diagnosi è attualmente in corso (NCT02003222).
Altri anticorpi anti-CD19 come SAR3419 e SGN-CD19A, sono in fase di studio per l’utilizzo nelle forme recidivate/refrattarie di LAL-B R/R.
– Inotuzumab ozogamicin (InO), è un anticorpo monoclonale anti-CD22 coniugato a calicheamicina, in grado di legarsi ai linfociti B negli stati precoci dello sviluppo, causando danni al DNA e apoptosi. Fra i chemioimmunoterapici, l’InO è il più ampiamente impiegato. L’InO è stato inizialmente impiegato in monoterapia, in pazienti con LAL-B R/R (Kantarjian HM et al, 2012b): i tassi di risposta globale sono stati del 57% (28/49 pazienti), i pazienti rispondenti hanno ottenuto la risposta precocemente, entro i primi due cicli di terapia. La MMR è stata valutata in 27 pazienti ed il 63% è risultato negativo (17/27); il 45% (22/49) dei pazienti è stato sottoposto ad allo-SCT. Sebbene questo studio abbia dimostrato come il farmaco sia efficace anche come bridge al trapianto, il 59% dei pazienti trapiantati è deceduto per infezione o malattia veno-occlusiva epatica (VOD: 30% dei decessi). Alla luce dell’alta incidenza di VOD, la dose di InO è stata successivamente ridotta ed è ormai assodato che il numero massimo di cicli per i pazienti per i quali è previsto un allo-SCT non deve essere superiore a due (Jabbour E et al, 2015; Kantarjan HM et al, 2017b). Lo studio che ha portato all’approvazione dell’InO per il trattamento delle LAL R/R è quello di fase III INO-VATE (NCT 01564784), volto a paragonare l’efficacia di InO vs SOC (Kantarjan HM et al, 2016b). Lo studio ha dimostrato un tasso di remissioni complete dell’80,7% nei pazienti trattati con InO, associate ad una negatività della MMR, valutata in citofluorimeteria, nel 78,4% dei rispondenti, compresi pazienti con LAL Ph+, ma non in quelli con riarriangiamento di KMT2A. La durata della RC è risultata significativamente più lunga per i pazienti trattati con InO (4,6 vs 3,1 mesi, p=0,03) così come la PFS (5 vs 1,8 mesi, p=0,001). Inoltre, un numero maggiore di pazienti trattati con InO ha effettuato un allo-SCT (41% vs 11%). Il beneficio sulla OS è stato invece meno evidente (7,7 mesi vs 6,7, p=0,04). È doveroso sottolineare che la maggiore efficacia osservata nei pazienti che hanno ricevuto InO è verosimilmente sostenuta dell’anticorpo stesso e dalla possibilità di effettuare un allo-SCT. Infatti, le maggiori differenze nella OS tra i due regimi terapeutici sono stati evidenti dal quindicesimo mese in avanti. Come già osservato, la tossicità epatica di grado III o IV è stata più frequente nei pazienti trattati con InO. In particolare, è stata descritta una maggiore incidenza di VOD durante o subito dopo la sospensione del trattamento con InO rispetto ai casi trattati con la chemioterapia (11% vs 1%); la VOD è stata particolarmente frequente (21%) dopo allo-SCT. L’ultimo follow-up dello studio ha riportato tassi di OS a 2 anni del 22,8% per i pazionti trattati con InO vs 10% per i pazienti SOC (Kantarjian HM et al, 2019). Il farmaco è attualmente approvato da FDA ed EMA per il trattamento dei pazienti con LAL B R/R Ph+ e Ph-. I dati sull’efficacia nella pratica clinica globalmente risultano non dissimili da quelli degli studi clinici effettuati per quanto riguarda il tasso di risposte, ma non è stato osservato alcunun beneficio in termini di sopravvivenza dal consolidamento con l’allo-SCT, probabilmente a causa della coorte in esame che risultava più pesantemente pre-trattata rispetto a quella considerata per lo studio INO-VATE (Badar T et al, 2020). Infine, uno studio del GIMEMA (LAL 2418, NCT03610438) sta valutando l’efficacia dell’InO in pazienti, sia Ph+ che Ph-, con MMR: lo studio è in corso di reclutamento.
L’InO è stato utilizzato in uno studio di fase 2 in combinazione con il mini hyper-CVAD in pazienti R/R al fini di migliorare l’outcome e ridurre gli eventi avversi (Jabbour E et al, 2018).
Attualmente i dati disponibili in termini di sicurezza ed efficacia per l’utilizzo di InO nei pazienti pediatrici sono scarsi. Recentemente sono stati pubblicati i risultati del trattamento di 51 bambini con LAL R/R trattati con InO in uso compassionevole. In questa coorte fortemente pretrattata (66% aveva eseguito 4-6 linee di terapia), la RC è stata raggiunta nel 67% dei pazienti. La maggioranza (71%) dei pazienti responsivi presentava una MMR negativa. Le risposte sono state osservate indipendentemente dal sottotipo citogenetico o dal numero o dal tipo di regimi di trattamento precedenti. InO complessivamente è stato ben tollerato. Nessun paziente ha sviluppato una VOD durante la terapia con InO; tuttavia, 11 dei 21 (52%) pazienti sottoposti ad allo-SCT ha sviluppato una VOD (Bhojwani D et al, 2019). Risultati simili sono stati ottenuti dal gruppo francese in una casistica piu piccola (Calvo C et al, 2020).
Un altro anticorpo monoclonale diretto contro il CD22 è l’epratuzumab del quale di cui è stato studiato l’utilizzo da solo ed in associazione a chemioterapici nelle forme di LAL-B R/R con risultati parziali.
Altri anticorpi monoclonali sono potenzialmente utilizzabili in clinica, come ad esempio:
– Anti-CD38 daratumumab è stato approvato per il trattamento di pazienti affetti da mieloma multiplo mentre altri anti-CD38 come isatuximab e MOR202 sono in fase di studio (van de Donk NW et al, 2016). Studi preclinici hanno dimostrato l’efficacia degli anti-CD38 nel ridurre sia la crescita di linee cellulari di LAL-B e LAL-T con alta espressione di CD38, sia la massa tumorale in modelli murini (Deckert J et al, 2014; Doshi P et al, EHA 2014; Bride KL et al, 2018); sono in corso studi di fase II per valutarne l’efficacia. Alcuni case reports in pazienti con LAL R/R ne testimoniano l’efficacia anche in recidive post allo-SCT in assenza di effetti collaterali gravi (Ofran Y et al, 2020; Zhang Y et al, 2020).
Oggigiorno le stesse cellule di un paziente possono essere modificate in modo da esprimere un TR manipolato contro uno specifico antigene tumore-associato, dando luogo ai cosidetti CAR (chimeric antigen receptor). Infatti, i linfociti T del paziente, prelevati attraverso una procedura di leucaferesi, possono essere ingegnerizzati tramite l’utilizzo di vettori oncoretrovirali o lentivirali, con recettori chimerici per l’antigene (CAR), costituiti da un dominio di riconoscimento antigenico fuso a domini di trasduzione del segnale derivati dal complesso TR. Questo tipo di struttura combina la specificità del riconoscimento anticorpale MHC-indipendente con le potenzialità anti-tumorali dei linfociti T, che vengono in questo modo “armati” contro uno specifico antigene espresso dalle cellule tumorali. Nel contesto delle LAL-B, sono stati sviluppati linfociti T autologhi ingegnerizzati con recettori CAR diretti contro l’antigene CD19, fortemente espresso dalle cellule leucemiche, e contro l’antigene CD22. Tali linfociti una volta espansi in vitro vengono reinfusi nel paziente previo trattamento di linfodeplezione mediante la somministrazione di ciclofosfamide in associazione o meno a fludarabina.
Il primo studio di fase II, denominato ELIANA, ha utilizzato un CAR-T anti-CD19 di II generazione in quanto il costrutto CAR comprendeva anche il dominio co-stimolatorio 41BB, definito CLT019 o tisagenlecleucel. Nello studio sono stati arruolati pazienti pediatrici e giovani adulti fino a 25 anni con LAL-B R/R dopo allo-SCT o dopo almeno due linee di chemioterapia. A 3 mesi di follow-up il tasso di remissioni cliniche è stato dell’81% e tutti coloro che avevano ottenuto una remissione clinica risultavano anche con MMR negativa (Maude SL et al, 2014). L’EFS e l’OS a 6 mesi sono state, rispettivamente, del 73% e del 90%, e del 50% e 76% a 12 mesi, e la durata mediana della remissione non è stata raggiunta (Maude SL et al, 2018). Tali risultati hanno permesso la rapida approvazione da parte di FDA, prima, e di EMA, dopo, della terapia cellulare con tisagenlecleucel nei pazienti pediatrici e giovani adulti fino a 25 anni di età affetti da LAL-B R/R dopo allo-SCT o dopo almeno due linee di chemioterapia.
Anche negli adulti con LAL R/R è stato riportato uno studio sull’efficacia e la sicurezza delle CAR-T anti-CD19 (Park JH et al, 2018). Ottantatre pazienti sono stati arruolati: di questi, 53 sono stati trattati. Il tasso di RC è stato dell’83%. Dei 48 valutabili per la MMR, il 67% risultava negativo. Ad un follow-up di 29 mesi, l’EFS e l’OS mediana sono state di 6,1 mesi e di 12,9 mesi. I pazienti con una bassa quota di malattia (<5% di blasti nel midollo osseo) prima del trattamento hanno avuto una durata della remissione e una sopravvivenza notevolmente superiori, con una EFS di 10,6 mesi e OS di 20,1 mesi. I pazienti con un maggiore carico di malattia (> 5% di blasti nel midollo osseo o malattia extramidollare) hanno avuto una maggiore incidenza di CRS e di eventi neurotossici, e risposte a lungo termine e sopravvivenza inferiori rispetto ai pazienti con un basso tumor burden.
Nonostante l’iniziale elevato tasso di risposte complete, anche molecolari, il 30-60% dei pazienti recidivano dopo le CAR-T e tra queste il 10-20% sono recidive CD19-negative, quindi diventa fondamentale comprendere i meccanismi di resistenza a questo trattamento. Le recidive più precoci sono per la maggior parte dei casi CD19-positive e sono soprattutto dovute alla clearance precoce del clone CAR-T: in tal senso, un rapido recupero del compartimento cellulare B è suggestivo di una probabile recidiva. È quindi essenziale cercare di migliorare l’efficacia del trattamento che si associ ad una espansione e persistenza più duratura del clone CAR-T; infatti, le nuove generazioni di CAR-T e le CAR-T totalmente umanizzate sono caratterizzate da una più lunga persistenza in vivo delle CAR-T infuse. Inoltre, studi finalizzati a caratterizzare lo studio sulla qualità dei linfociti T raccolti potrebbero migliorare l’efficacia del prodotto CAR-T.
Per le recidive CD19-negative, numerosi trial clinici in corso stanno sperimentando nuovi prodotti CAR-T disegnati contro due o più target contemporaneamente (i.e. dual o multitarget CAR-T) (Ruella M et al, 2016; Gardner RA et al, 2018, Dai H et al, 2020), oppure sviluppando nuove tecnologie di ingegnerizzazione per aiutare a prevenire la perdita dell’antigene o la resistenza.
Il ruolo del trapianto allogenico come consolidamento post-CAR-T rimane ancora un punto dibattuto. In alcuni studi, i pazienti che hanno eseguito un trapianto allogenico dopo CAR-T hanno presentato una risposta piu duratura nel tempo rispetto a chi non lo ha eseguito; tuttavia, non si sono osservate differenze statisticamente significative in termini di OS soprattutto perché il follow-up di molti pazienti è ancora limitato, così come le casistiche (Davila ML et al, 2014; Graham C et al, 2018; Park JH et al, 2018). Mentre nei pazienti pediatrici sembra che le CAR-T possano dare risposte durature nel tempo, i pazienti adulti vanno piu frequentemente andare incontro ad una recidiva (Park JH et al, 2018). Per tale motivo per molti pazienti adulti la strategia di utilizzare le CAR-T come bridge ad un allo-SCT sembra indicata.
Va, infine, sottolineato come gli effetti collaterali piu tipici del trattamento con CAR-T, la sindrome da rilascio di citochine e la neurotossicità, siano strettamente dipendenti dal “tumor burden”; pertanto, l’utilizzo delle CAR-T potrebbe avere uno sviluppo soprattutto nei casi di LAL con MMR positiva (Grupp SA et al, 2013; Maude SL et al, 2014). È stato ipotizzato come ripetute infusioni di CAR-T potrebbero essere utilizzate in quei pazienti che presentano controindicazioni ad un trapianto allogenico; tuttavia, sono stati recentemente pubblicati risultati contrastanti riguardo questa ipotesi. Saranno pertanto necessari studi ulteriori per chiarire questo punto (Brentjens RJ and Curran KJ, 2012; Brentjens RJ et al, 2013; Grupp SA et al, 2013; Maude SL et al, 2014; Lee DW et al, 2015; Lorentzen CL et al, 2015).
Recentemente, è stata pubblicata una esperienza di real-life derivante dai dati del registro post-marketing del Center for International Blood and Marrow Transplant Research (CIBMTR) in 96 pazienti pediatrici/giovani adulti con LAL R/R che riporta risultati paragonabili a quelli dei precedenti studi clinici, con l’89% di pazienti che ha raggiunto una RC e la negatività della MMR in tutti i pazienti rispondenti (82% dei pazienti) (Pasquini M et al, 2020); il tasso di sopravvivenza libera da leucemia è del 66% e l’OS dell’89% a 6 mesi.
Attualmente, sono in corso studi volti a valutare la fattibilità di tale procedura impiegando linfociti prelevati da donatori sani ingenierizzati per esprimere il recettore CAR, e ulteriormente modificati per ridurne l’alloreattività. Le CAR-T allogeniche rappresenterebbero un prodotto “pronto all’uso” e supererebbero il problema dell’attesa della manifattura dei prodotti autologhi (Graham C et al, 2017; Qasim W et al, 2017, Graham C et al, 2018). Recentemente sono stati pubblicati i risultati del trattamento della LAL B R/R del bambino e dell’adulto con UCART19, un particolare prodotto CAR-T allogenico con specificità anti-CD19 knock out per il TCR, al fine di ridurre il rischio di graft versus host disease, e per il CD52, per indurre resistenza all’alemtuzumab, anticorpo monoclonale anti CD-52, utilizzato nel regime di linfodeplezione (Benjiamin R et al, 2020). Dei 21 pazienti trattati, 14 (67%) hanno ottenuto una RC, con una MMR negativa nel 71% dei rispondenti. Tuttavia, questo prodotto ha una ridotta persistenza e alto tasso di recidiva, potrebbe quindi essere utile considerare le CAR-T allogeniche come terapia cellulare di pronto utilizzo da impiagare come bridge per un allo-SCT. Altri gruppi stanno esplorando le cellule CAR-NK nelle LAL B come strategie di trattamento cellulare efficace ma non alloreattivo (Mehta RS et al, 2018) (vedi approfondimento “CAR-T “).
Con questo termine sono indicati tutti i tipi di terapia diversi da quella somministrata con l’intento di curare la malattia, ma non per questo risultano meno importanti. Comprende le trasfusioni di emazie concentrate (per migliorare l’anemia), di piastrine (per prevenire o curare emorragie), gli antibiotici, i farmaci anti-fungini ed anti-virali somministrati per prevenire o curare infezioni in atto; i farmaci somministrati per ridurre la leucopenia; la nutrizione parenterale in caso di impossibilità a nutrirsi spontaneamente, spesso a causa delle complicanze della chemioterapia; la terapia antidolorifica; il supporto psicologico, ecc.
Nei più recenti protocolli di cura la terapia di supporto farmacologica è sempre più integrata negli schemi di terapia. Ad esempio il fattore di crescita è inserito in modo preciso, tale da indicare sia il momento per iniziarlo che quello per sospenderlo. Anche per la profilassi anti-infettiva (anti-virale, anti-batterica e anti-fungina) viene indicato il momento dell’inizio della stessa, le modalità di somministrazione ed il momento della sospensione.
Ovviamente tutto ciò comporta e comporterà una sempre più attenta valutazione delle possibili interazioni tra farmaci sia intesa come potenziamento dell’efficacia che come riduzione della stessa.
La terapia di supporto consente quindi un migliore uso dei farmaci anti-neoplastici e consente di attenuare o prevenire alcuni degli effetti collaterali più gravi, rendendo possibile la continuazione a cicli periodici della terapia vera e propria e l’applicazione di trattamenti intensivi.
In molti centri l’assistenza domiciliare garantisce una serie di interventi medici, infermieristici, psico-sociali e riabilitativi utili per il benessere del paziente durante le varie fasi della malattia. Infatti, offre la continuità assistenziale ai pazienti più giovani che hanno eseguito una chemioterapia intensiva permettendo di anticipare le dimissioni, evitare ricoveri impropri ed il rischio di sviluppare infezioni opportunistiche mentre consente ai pazienti anziani e/o con una fase di malattia avanzata di essere trattati a domicilio migliorando la qualità di vita degli stessi e dei familiari che se ne prendono cura.
Infine, l’ottimizzazione delle terapie deve tener conto anche delle tossicità a lungo termine in modo da assicurare ai lungo sopravviventi una qualità di vita ottimale. Ciò è importante soprattutto nei bambini e nei giovani pazienti guariti da una LAL in cui l’allungamento della sopravvivenza pone la necessità di un allungamento dei follow-up al fine di controllare e curare eventuali tossicità tardive.
Oggi, un approccio diagnostico combinato che unisce le analisi di citomorfologia alla citometria a flusso multiparametrica, le analisi cromosomiche a quelle molecolari, è indispensabile per la diagnosi di una LAL: obbligatoria è la ricerca immediata – in pazienti di ogni età – del cromosoma Ph+ e/o del relativo trascritto BCR-ABL1, in quanto questa alterazione porta ad un approccio terapeutico completamente diverso e mirato, fin dall’inizio del trattamento. Una diagnosi corretta è essenziale non solo per la classificazione di questo eterogeneo insieme di disordini, ma anche per la stratificazione del rischio individuale e per le decisioni terapeutiche. Infatti, una diagnosi corretta è essenziale non solo per la classificazione di questo eterogeneo insieme di disordini, ma, in aggiunta, svolge un ruolo centrale per la stratificazione del rischio individuale e per le decisioni terapeutiche. L’intensificazione del consolidamento, l’impiego di terapie mieloablative associate alla infusione di precursori emopoietici, le migliorate terapie di supporto hanno permesso negli anni un progressivo miglioramento dei risultati. Si stanno evidenziando nuove possibilità terapeutiche grazie all’impiego non solo di terapie mirate e di anticorpi monoclonali, ma anche della migliore stratificazione dei pazienti in fasce di rischio basate sia sulle caratteristiche clinico-biologiche della malattia che sulla valutazione precoce della risposta al trattamento con studi di MMR.
Negli anni abbiamo acquisito una profonda conoscenza degli eventi genetici che conducono alla trasformazione tumorale e delle peculiari vie metaboliche attivate nelle cellule neoplastiche in confronto alla loro controparte normale. Questi geni ed i loro prodotti proteici costituiscono adesso bersagli potenziali per lo sviluppo di strategie terapeutiche tese a colpire specificamente la cellula tumorale trasformata. Pertanto, le strategie terapeutiche future dovrebbero prevedere lo sviluppo di protocolli di trattamento della LAL comprendenti l’uso di nuovi farmaci, agenti biologici ed altro ancora, tutti diretti ad aumentare la percentuale di cura di tale patologia. Sicuramente le sempre più sofisticate tecniche di NGS oggi disponibili, ed in via di costante miglioramento, permetteranno di identificare nuove alterazioni genetiche che potranno avere implicazioni sia prognostiche che terapeutiche; è. È, infine, auspicabile che il disegno di strategie sempre più personalizzate porti non solo ad un incremento dell’aspettativa di vita ma anche ad un miglioramento della sua qualità. In quest’ottica, e alla luce degli avanzamenti discussi sopra, sono verosimilmente ipotizzabili in un futuro prossimo per alcuni sottogruppi di LAL stategie terapeutiche chemo- e transplant-free basate sull’impiego di terapie targeted, anticorpi monoclonali e terapie cellulari.
Ematologia, Dipartimento di Medicina Traslazionale e di Precisione, Università Sapienza, Roma
Ematologia, Dipartimento di Medicina Traslazionale e di Precisione, Università Sapienza, Roma
Ematologia, Dipartimento di Medicina Traslazionale e di Precisione, Università Sapienza, Roma
Professore Emerito di Ematologia, Università Sapienza, Roma
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