Highlights dall’ASH 2021 – Leucemia linfatica cronica
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La leucemia linfatica cronica (LLC) è stata oggetto di numerosi studi presentati al 63mo congresso dell’ASH 2021 tenutosi ad Atlanta dall’11 al 14 dicembre 2021.
Le novità di maggior rilievo sono riconducibili a 3 principali aree:
- Terapie di combinazione di prima linea di durata definita
- Efficacia e sicurezza delle terapie continuative con inibitori di BTK
- Efficacia dei vaccini anti-COVID-19
Terapie di combinazione di prima linea di durata definita
Riassumiamo i principali risultati relativi all’uso di Terapie di combinazione di prima linea di durata definita dell’inibitore di BCL2 venetoclax con l’inibitore di BTK ibrutinib e/o con anticorpi monoclonali anti-CD20.
Gli studi GAIA, CAPTIVATE, GLOW, e lo studio del gruppo FILO includevano, oltre alla sopravvivenza libera da progressione (PFS), la rilevazione della malattia minima residua (MRD) come misura di efficacia primaria o secondaria. Le principali caratteristiche di questi studi sono riassunte nella Tabella I.
Tabella I. Caratteristiche degli studi clinici
Poiché il follow-up di questi studi non è sufficiente per la valutazione dei risultati di PFS, riportiamo nella Figura I i dati della profondità della riposta, valutata con lo studio citofluorimetrico della MRD, oggi ritenuta un’importante misura surrogata di efficacia del trattamento.
Figura I. uMRD 10-4 al termine del trattamento (mese 15)
Questi risultati dimostrano che i regimi di durata definita (12 mesi) che combinano venetoclax, con o senza anti-CD20 e ibrutinib, sono di grande efficacia. L’aggiunta di obinutuzumab a venetoclax e la combinazione venetoclax e ibrutinib producono risposte profonde nel PB e nel BM in una percentuale di pazienti nettamente superiore a quella ottenuta con la chemioterapia (FCR, clorambucile e obinutuzumab). Questi dati possono quindi aprire la strada al futuro impiego di queste combinazioni in prima linea nella pratica clinica, soprattutto nei pazienti ad alto rischio. La comunità scientifica attende con grande interesse i dati di PFS e di tollerabilità dopo un adeguato periodo di osservazione dei pazienti arruolati in questi trial cinici.
Efficacia e sicurezza delle terapie continuative con inibitori di BTK
Riassumiamo i principali risultati relativi alla efficacia e sicurezza delle terapie continuative con ibrutinib, acalabrutinib, zanubrutinib, pirtobrutinib e MK-1026 (ARQ-531).
A) Ibrutinib
Due studi randomizzati hanno dimostrato il netto vantaggio in termini di PFS, sempre evidente nei pazienti con IGHV non mutato, utilizzando in prima linea ibrutinib rispetto alla chemioimmunoterapia, sia nel paziente giovane che nel paziente anziano.
Lo studio FLAIR (Hillmen P et al, Abs #642) ha paragonato ibrutinib somministrato in via continuativa fino ad un massimo di 6 anni + rituximab per 6 cicli (IR) con FCR somministrato per 6 cicli in pazienti di età <75 anni in buone condizioni e senza delezione 17p. Ad un follow-up mediano di 52,7 mesi, IR ha mostrato una PFS più lunga (mediana non raggiunta) rispetto a FCR (mediana 67 mesi con HR 0,44; p<0,001). La differenza era significativa nei pazienti con IGHV non mutato ma, al momento, non nei pazienti con IGHV mutato. Nessuna differenza è stata rilevata nei due bracci in termini di sopravvivenza. E’ importante rilevare come FCR in questo studio abbia prodotto risultati migliori rispetto a precedenti nuove esperienze condotte tra 2009 e 2012 dallo stesso gruppo cooperatore (sopravvivenza a 4 anni in questo trial pari a 94,5% rispetto a 84,2% nei trial ADMIRE and ARCTIC), probabilmente grazie alle terapia di salvataggio con nuovi farmaci. E’ da segnalare inoltre che nel braccio IR si sono registrati 8 eventi di morte improvvisa o per cause cardiache (in prevalenza in pazienti con precedenti patologie cardiovascolari) rispetto ad un solo analogo caso con FCR. Per contro sono stati rilevati 6 casi di mielodisplasia o leucemia secondaria con FCR contro un solo caso con IR.
Lo studio Alliance A041202 (Woyach J et al, Abs #639) ha confermato ad un follow-up mediano di 55 mesi il netto vantaggio di ibrutinib, con o senza rituximab, rispetto a bendamustina e rituximab (BR) in 547 pazienti randomizzati, che presentavano età ≥65 anni (età mediana 71 anni), IGHV non-mutato nel 61% dei casi e 17p- nel 6% dei casi. La PFS stimata a 48 mesi era pari al 47% con BR e al 76% nei due bracci con ibrutinib, con una sopravvivenza pari a 84% con BR e 85-86% nei due bracci con ibrutinib. Il vantaggio nei bracci ibrutinib rispetto a BR era evidente per tutti i sottogruppi di rischio, definiti dalle anomalie di TP53, della delezione 11q, dal cariotipo complesso e dallo stato mutazionale IGHV. E’ importante sottolineare che nei due bracci con ibrutinib, la PFS non era differente nei pazienti con senza 17p-, sottolineando la grande e duratura efficacia di questo inibitore BTKi in questo sottogruppo di pazienti ad alto rischio.
Questo dato è di grande interesse e trova ulteriore supporto in uno studio indipendente presentato da Cherng H e collaboratori (Abs #394) che hanno riportato l’efficacia degli inibitori di BTK, con o senza venetoclax e anti-CD20, in 140 pazienti di età mediana pari a 63,5 anni, con 17p-/TP53 mutato, trattati in prima linea tra il 2012 e il 2021 all’MDACC, con un follow-up mediano di 3,7 anni. In questa analisi (101 pazienti avevano ricevuto solo BTKi con o senza anti-CD20, i restanti avevano ricevuto anche venetoclax per un periodo di durata definita), è stata descritta una PFS stimata a 4 anni pari al 72,7% ed una sopravvivenza dell’87,2%. L’efficacia di ibrutinib si è mantenuta in tutti i sottogruppi di pazienti.
Infine è stata aggiornata (follow-up mediano di 40,3 mesi) l’efficacia dell’associazione di FCR x 6 cicli e ibrutinib per due anni, seguito da sospensione in caso di ottenimento di una MRD non rilevabile (Davids M et al, Abs #640). In 85 pazienti di età mediana di 55 anni, con IGHV non mutato nel 58,2% dei casi, 17p- e mutazione TP53 nel 4,8% e nel 3,7% dei casi una MRD non rilevabile è stata riportata nell’84% dei casi (71/85) con PFS e OS rispettivamente pari al 97% e al 99%. Il follow-up mediano era di 40,3 mesi
Complessivamente questi dati indicano una grande e durevole efficacia del BTKi ibrutinib, inclusi i sottogruppi ad alto rischio genetico. Il farmaco presenta complessivamente un’ottima tolleranza, seppur con i noti eventi avversi (aritmie e sanguinamenti minori), che si manifestano soprattutto nei pazienti con precedenti patologie cardiovascolari.
B) Acalabrutinib
L’efficacia di acalabrutinib è stata confermata nell’aggiornamento a 3 anni del trial Ascend che paragonava acalabrutinib vs rituximab con idelalisib (IdR) o con bendamustina (BR) nella LLC recidivata/refrattaria (Jurczak W et al, Abs #393). In questo studio è stata riportata una PFS a 3 anni pari al 63% con acalabrutinib rispetto al 21% con IdR/BR [HR: 0,25; P<0,0001]. La PFS non era influenzata dalla presenza di 17p- nel braccio acalabrutinib ed il vantaggio di PFS rispetto a IdR/BR si manteneva anche nel sottogruppo di pazienti con IGHV mutato, al pari di quanto già riportato in altri studi di confronto tra nuovi farmaci e chemioimmunoterapia nella LLC R/R (Asher Chanan-Khan A et al, Lancet Oncol 2015; Seymour J et al, N Engl J Med 2018). In questo studio la sopravvivenza era dell’80% nel braccio acalabrutinib rispetto a 73% nel braccio IdR/BR.
La sicurezza di acalabrutinib è stata oggetto di due analisi, la prima condotta su 533 pazienti arruolati nello studio di confronto con ibrutinib (Seymour J et al, Abs #3721) e la seconda condotta su 289 pazienti seguiti presso la Ohio State University (Kumar P et al, Abs #3729). In questi studi, che hanno confermato quanto già noto in termini di una minore incidenza di eventi avversi di natura cardiovascolare (aritmia, ipertensione e sanguinamenti) e di una maggiore incidenza di cefalea e tosse di grado lieve con acalabrutinib, sono state rilevate le seguenti nuove informazioni:
- Acalabrutinib presenta un vantaggio in termini di “incidenza aggiustata per il tempo di esposizione” e di “tempo con l’evento aggiustato per l’esposizione” per sintomi quali diarrea, artralgie, dolore dorsale, spasmi muscolare e dispepsia.
- Il “tempo complessivo con eventi aggiustato per l’esposizione” per tutti gli eventi avversi di qualunque grado è risultato del 37% superiore con ibrutinib (234 giorni con acalabrutinib vs 320 giorni con ibrutinib/100 mesi/persona).
- In 289 pazienti, 18% dei quali aveva una precedente storia di sanguinamento e il 51% dei quali era in trattamento con farmaci che aumentano il rischio di sanguinamento, acalabrutinib è stato sospeso in 6 casi di sanguinamento maggiore e interrotto temporaneamente in 44 casi.
- In questi 289 pazienti la storia di un precedente sanguinamento e l’assunzione di farmaci che interferiscono con la coagulazione rappresentavano fattori di rischio per sanguinamento.
Questi dati mettono in evidenza l’efficacia e la maggior sicurezza di acalabrutinib in termini di eventi avversi cardiovascolari.
C) Zanubrutinib
Questi inibitore selettivo di BTK di seconda generazione, già approvato da FDA ed a EMA per il trattamento della macroglobulinemia di Waldenstrom e, al momento, solo da EMA per il linfoma mantellare recidivato o refrattario e per il linfoma della zona marginale recidivato o refrattario, è stato oggetto di due presentazioni orali. Sulla scia degli interessanti risultati dello studio ALPINE (NCT03734016), che all’EHA 2021 avevano documentato migliore tollerabilità e, seppur con un follow-up molto breve, una maggiore efficacia rispetto a ibrutinib nella LLC recidivata o refrattaria, Tam C et al (Abs #396) e Tedeschi A et al (Abs #67) hanno illustrato alcuni dati di efficacia e sicurezza del trial SEQUOIA (NCT03336333) rispettivamente in i) pazienti con LLC non precedentemente trattata e senza 17p-, randomizzati in un braccio con zanubrutinib in via continuativa o in un braccio con BR per 6 cicli; ii) pazienti con LLC e 17p-, trattati in prima linea con zanubrutinib per 3 mesi e a seguire con zanubrutinib e venetoclax per 12-24 cicli sino all’ottenimento di una malattia minima residua non rilevabile (uMRD) con una sensibilità di <10-4.
Nel primo studio sono stati randomizzati 479 pazienti senza 17p-, di età mediana pari a 70 anni, con IGHV non-mutato nel 53% dei casi. Con un follow-up mediano di 26,2 mesi, la PFS era nettamente a favore di zanubrutinib con HR 0,42, [95% CI 0,28–0,63]. Il vantaggio era mantenuto in tutti I sottogruppi, ma non raggiungeva la significatività statistica nei pazienti con IGHV mutato. Relativamente alla tollerabilità, sono state riportate sospensioni definitive della terapia per eventi avversi nell’8,3% dei pazienti nel braccio zanubrutinib e nel 13,7% dei pazienti nel braccio BR. Non sono emerse differenze significative nell’incidenza di fibrillazione atriale di qualunque grado nei due bracci del protocollo (3,3% con zanubrutinib vs 2,6% con BR), di ipertensione di qualunque grado (14,2% con zanubrutinib vs 10,6% con BR) e di infezioni di qualunque grado/grado ≥3 (62,1%/16,3% con zanubrutinib vs 55,9%/18,9% con BR. La frequenza di sanguinamenti di grado ≥3 è risultata pari al 3,8% con zanubrutinib vs 1,8% con BR, mentre i sanguinamenti di tutti i gradi inclusi quelli minori sono stati più frequenti nel braccio zanubrutinib (45,0%), rispetto a BR (11,0%).
Nel secondo studio sono stati riportati i dati di sicurezza su 35 pazienti con del(17p), con un follow-up mediano di 9,7 mesi. Eventi avversi di tutti i gradi, riportati in ≥10% dei pazienti, erano rappresentati da diarrea (n=5), neutropenia (n=5), astenia (n=4), nausea (n=4) e petecchie (n=4). Eventi avversi di grado ≥3 sono stati registrati nel 37,1% dei pazienti. Non è stato osservato alcun caso di sindrome da lisi tumorale. Al completamento del 3 mese di terapia con zanubrutinib è stata osservata una risposta globale nel 96,8% dei pazienti con un solo caso di progressione dopo l’inizio della terapia di combinazione.
I dati suggeriscono quindi che zanubrutinib rappresenti un nuovo BTKi ben tollerato anche sul versante cardiovascolare, che conferma la maggiore efficacia di questa classe di agenti biologici rispetto alla chemioimmunoterapia nei pazienti con IGHV non mutato. Mentre questi interessanti risultati attendono conferma con un follow-up più lungo, i dati di combinazione con venetoclax dimostrano che questa combinazione è tollerata e promettente
D) Pirtobrutinib
Mato A ha presentato i dati aggiornati rispetto a quanto riportato nell’Abs #391 sull’efficacia di questo inibitore reversibile non-covalente, tratti dallo studio multicentrico di fase 1/2 BRUIN (NCT03740529) che ha incluso, tra l’altro, 261 pazienti valutabili con LLC con età mediana pari a 69 anni trattati con >2 precedenti terapie (mediana 3). Tutti i pazienti avevano ricevuto un precedente trattamento con un altro BTKi, l’88% un anticorpo anti-CD20 o il 70% una chemioterapia ed il 41% un inibitore di BCL2. Il 36% dei pazienti aveva 17p- e/o mutazione TP53, il 43% presentava la mutazione BTK C481 ed il 16% la mutazione di PLCG2. Ad un follow-up mediano di 9,4 mesi è stata riportata una risposta globale del 68% (95% CI: 62-74) e non si sono osservavate differenze significative nei diversi sottogruppi, inclusi i pazienti con mutazioni di BTK e PLCG2. La PFS mediana non era raggiunta ed il 74% dei pazienti era ancora in terapia. La PFS mediana in 108 pazienti che avevano ricevuto una mediana di 5 precedenti terapie includenti un BTKi e un inibitore di BCL2 era pari a 18 mesi. La tollerabilità in questo studio, valutata su 618 pazienti con varie neoplasie B-linfocitarie inclusa la LLC è risultata molto buona, con ecchimosi di grado 1-2 nel 22% dei pazienti, altri tipi di sanguinamento nell’8% dei pazienti, ipertensione nel 7% e fibrillazione atriale nel 2%.
Pirtobrutinib ha quindi dimostrato un’efficacia molto promettente in tutti i sottogruppi di malattia in una popolazione di pazienti pluritrattata e sono attivi protocolli di fase 3 sia in prima linea che nella LLC recidivata/refrattaria.
E) MK-1026 (ARQ-531)
Woyach J ha descritto i risultati di uno studio di fase 2 (Abs #392) che ha utilizzato l’inibitore BTK (BTKi) non-covalente MK-1026 in 118 pazienti tra i quali figuravano 68 pazienti con LLC, con mutazione BTK C481S nel 62,7% dei casi, una mediana di 4 precedenti linee di terapia incluso un BTKi nell’84% dei casi. La risposta globale è stata del 57,8%. Sono stati registrati durante il trattamento eventi aversi di grado ≥3 nel 68% dei pazienti, con sospensione per eventi avversi nell’8% dei casi. Tra gli eventi aversi di grado ≥3 è stata osservata ipertensione nel 9,3% dei casi, astenia nel 3,4% dei casi e disturbi gastrointestinali (diarrea, stipsi, nausea) nel 2,4% dei casi. Questo farmaco ha quindi dimostrato, alla dose di 65 mg/die, un’efficacia promettente anche nei pazienti che erano progrediti associata ad una tossicità gestibile. Sono in corso ulteriori studi nelle neoplasie B-linfocitarie con diversi dosaggi.
Efficacia dei vaccini anti-COVID-19
Riassumiamo qui i principali risultati relativi all’efficacia dei vaccini anti-COVID-19 nei pazienti con LLC.
Bagacean C (Abs #637) ha riportato i dati della risposta immunitaria al vaccino a mRNA, studiando gli anticorpi IgG anti-Spike 4-6 settimane dopo ogni dose del programma vaccinale in 530 pazienti di età mediana pari a 71 anni, seguiti in 17 centri aderenti alla French Innovative Leukemia Organization (FILO). Duecento diciotto (40%) pazienti non erano mai stati trattati, 176 (34%) erano in terapia per la LLC e 136 (26%) avevano terminato un precedentemente trattamento. La percentuale di soggetti che hanno risposto positivamente al completamento del primo ciclo vaccinale (due dosi) era pari al 52%. Nei pazienti senza risposta alle prime due dosi si è registrata la sieroconversione nel 42% dei casi dopo la terza dose di vaccino.
Nella Figura II sono riportate le % di pazienti che hanno risposto alla vaccinazione in rapporto allo stato del trattamento della malattia.
Figura II. % immunizzazione dopo due dosi
In analisi multivariata, un età >65 anni (OR 0,55, 95% CI 0,33-0,92, P=0,02), un trattamento anti-LLC in corso (OR 0,13, 95% CI 0,07-0,23, P<0,001) ed un livello di gamma-globuline ≤6g/L (OR 0,41, 95% CI 0,19-0,88, P=0,03) erano significativamente associati ad una più bassa probabilità di ottenere la sieroconversione.
Nella Figura III sono riportate le % di pazienti rispondenti alle due dosi di vaccino in rapporto al tipo di trattamento anti-LLC in corso (n. 156 pazienti in terapia).
Figura III. % immunizzazioni in rapporto al tipo di terapia in corso
Nella Figura IV sono riportate le % di pazienti non rispondenti a due dosi di vaccino che hanno ottenuto la sieroconversione con la terza dose (n. 56 pazienti) in rapporto allo stato del trattamento.
Figura IV. % sieroconversioni dopo la terza dose in rapporto allo stato della terapia
In un altro interessante studio, Itchaki G e collaboratori (Abs #638) hanno valutato la risposta cellulare al vaccino a mRNA, mettendola in relazione alla risposta anticorpale in 83 pazienti seguiti in 3 centri israeliani. L’età mediana era di 68 anni, il 28% dei pazienti non era precedentemente trattato, il 46% dei pazienti era in terapia con un inibitore di BTK o con un regime contenente venetoclax ed il 42% aveva ricevuto un anticorpo anti-CD20. Una risposta immunitaria T-cellulare è stata rilevata in 22 (32%) pazienti. La risposta non era influenzata dal trattamento. Un CIRS score >6 e la presenza di ipertensione erano associati con una bassa risposta T-cellulare (analisi univariata, p<0,05). La presenza di una risposta T-cellulare correlava strettamente con la presenza di anticorpi IgG anti-spike dopo la seconda dose (p=0,0239). Inoltre, i livelli di risposta T-cellulare correlavano in maniera lineare con i titoli di anticorpi IgG anti-spike (r=0,26 and p=0,026 con la correlazione di Pearson).
E’ infine interessante osservare che in questo studio
- il 50% dei pazienti che aveva sviluppato una risposta umorale al vaccino aveva anche sviluppato una risposta T-cellulare;
- il 17% dei pazienti che non aveva sviluppato una risposta T-cellulare, aveva sviluppato anticorpi anti-IgG;
il 24% dei pazienti che risultava negativo per gli anticorpi IgG anti-spike aveva sviluppato una risposta T-cellulare.