Nel corso degli ultimi anni vi è stato un progressivo incremento nella conoscenza della genetica molecolare della leucemia acuta mieloide (LAM) (Fig. I).
Figura I: Progressivo incremento della conoscenza delle differenti mutazioni nella LAM.
Fino al 2008, il modello patogenetico della malattia prevedeva l’interazione tra solo due classi di mutazioni: quelle correlate alla proliferazione cellulare (Classe 1) e quelle in grado di alterare la differenziazione (Classe 2). Come indicato in Figura II, vengono oggi considerate 9 classi di mutazioni e diverse tra queste sono potenzialmente in grado di costituire target per terapie sperimentali (Meyer SC et al, 2014).
Figura II: Classi mutazionali coinvolte nella patogenesi della LAM. Fino al 2008 venivano distinte 2 sole classi; la tecnologia del next-generation sequencing ha consentito di evidenziare nove classi e probabilmente ne saranno identificate altre in futuro.
Gran parte di queste acquisizioni più recenti derivano dall’implementazione della tecnologia del Next Generation Sequencing (NGS) che, a differenza del sequenziamento tradizionale col metodo Sanger, consente di sequenziare moltissimi frammenti di DNA in parallelo. Esistono diversi sistemi NGS, sviluppati da diverse produttori, ma tutti condividono almeno tre step fondamentali: la preparazione e immobilizzazione del DNA (cioè la preparazione della cosiddetta sequencing library), la reazione di amplificazione e la reazione di sequenziamento (Duncavage EJ, Tandon B, 2015). Proprio grazie a NGS, è stato possibile dimostrare che nella LAM la frequenza di mutazioni è notevolmente più bassa (Fig. III) rispetto ai più comuni tumori solidi (solo 0.28 mutazioni per megabase); ciononostante, a livello molecolare la malattia rimane estremamente eterogenea (Kandoth C, 2013).
Figura III: Distribuzione della frequenza mutazionale nei tumori più frequenti. Pur essendo la LAM una malattia notevolmente eterogenea, mostra la più bassa frequenza mutazionale.
In circa un terzo dei casi, la LAM è associata a traslocazioni cromosomiche bilanciate, t(8;21), inv(16) e t(16;16), t(15;17), che generano delle oncoproteine chimeriche in grado di agire come eventi inizianti la patogenesi (Fig. IV).
Figura IV: Formazione di trascritti ibridi nelle CBF-LAM e nella leucemia acuta promielocitica.
Inoltre, tali oncoproteine hanno la potenzialità di essere utilizzate come marker di malattia minima residua (MRD), come avviene nella corrente pratica clinica per la proteina ibrida PML/RARalpha nella leucemia acuta promielocitica (APL) (Sinha C et al, 2015). Le LAM con t(8;21) e inv(16), che a livello molecolare corrispondono rispettivamente ai riarrangiamenti RUNX1-RUNX1T1 (precedentemente denominato AML1/ETO) e CBFB-MYH11, vengono raggruppate come core-binding-factor (CBF) AMLs, in quanto RUNX1T1 e CBFB codificano per le subunità alpha e beta del complesso CBF, un fattore di trascrizione coinvolto nella differenziazione emopoietica (Fig. V).
Figura V: Ruolo patogenetico dei trascritti ibridi nelle CBF-LAM (severa compromissione della differenziazione emopoietica, per l’inibizione funzionale di geni critici).
Entrambe le traslocazioni determinano una perdita di funzione del complesso CBF con grave compromissione della differenziazione e hanno un ruolo nello sviluppo della LAM (Ustun C, Marcucci G, 2015). Globalmente, le CBF-LAM rappresentano circa il 15% delle LAM, sono più frequenti nei giovani adulti e vengono considerate a prognosi favorevole con percentuali di remissione completa (RC) superiori al 90% e sopravvivenza mediana intorno 4-5 anni (Ustun C, Marcucci G, 2015). Diversi studi hanno segnalato che mutazioni del gene KIT, un gene coinvolto nel pathway regolatorio delle tirosina chinasi (TK) e quindi nella differenziazione e controllo della crescita cellulare, occorrono nel 15-45% dei pazienti con CBF-LAM. Queste mutazioni non sono correlate all’ottenimento della RC, ma determinano un tasso di recidive significativamente più elevato per cui lo screening mutazionale di KIT viene ormai considerato irrinunciabile nel work-up diagnostico delle CBF-LAM ed i pazienti con mutazione di KIT potrebbero essere avviati a trapianto allogenico oppure a trial sperimentali, basati su combinazione di inibitori di tirosina-chinasi + chemioterapia (Chen W et al, 2016). Un altro aspetto rilevante nell’ambito delle CBF-LAM è rappresentato dalla possibile utilità del monitoraggio molecolare dei trascritti ibridi RUNX1-RUNX1T1 e CBFB-MYH11 come marcatori di MRD. Nel corso degli anni, si è molto discusso sulla utilità di questo approccio, in quanto la persistenza di trascritti ibridi è stata dimostrata in pazienti con persistente remissione completa (Duployez N et al, 2014). Più recentemente, dati di studi prospettici hanno dimostrato che la remissione molecolare valutata a livello del midollo osseo, osservata in circa il 30% dei pazienti, non ha valore prognostico perché associata a un tasso di recidiva di malattia non diverso dai pazienti molecolarmente positivi; al contrario, la stessa indagine eseguita sul sangue periferico è molto più informativa in quanto la negatività molecolare si associa a una percentuale di recidiva del 4% a 4 anni, mentre oltre l’80% dei pazienti con malattia molecolare ancora evidenziabile va incontro a recidiva nello stesso intervallo di tempo (Willekens C et al, 2016).
Infine, mediante analisi del profilo mutazionale con high-throughput sequencing è stato definitivamente dimostrata che esistono significative differenza tra i pazienti con LAM t(8;21) e LAM inv(16), t(16;16). In particolare, mutazioni dei geni attivanti il signaling TK (KIT, N/KRAS e FLT3) sono presenti con frequenza simile nei due sottotipi di CBF-LAM, mentre geni coinvolti nella regolazione della conformazione della cromatina o codificanti per il complesso delle coesine sono molto più frequenti nelle t(8;21), 42% vs 18%. Per quanto concerne il significato prognostico, i dati di sequencing confermano che le mutazioni di KIT, particolarmente se ad alta carica allelica, si associano ad outcome negativo e sono mutualmente esclusive con mutazioni di K/NRAS che determinano invece una prognosi migliore. Infine le mutazioni epigenetiche del complesso coesinico, spesso associate a quelle di KIT, definiscono un ulteriore sottogruppo a prognosi negativa (Duployez N et al, 2016).
Sulla base di analisi condotte su ampie coorti di pazienti, si è dimostrato che esistono pattern di mutua esclusività tra determinate anomalie citogenetiche e molecolari, per cui gran parte delle LAM possono essere segregate in sottogruppi ben distinti dal punto di vista biologico e prognostico (Fig. VI).
Figura VI: Interazioni delle diverse mutazioni nei pazienti con LAM e cariotipo normale.
Le LAM con t(8;21) e inv(16) sono mutualmente esclusive con la mutazione del gene della nucleofosmina (NPM1) e con la mutazione biallelica del gene CEBPA (biCEBPA); queste ultime due mutazioni si associano a prognosi favorevole nell’ambito del cariotipo normale. La mutazione NPM1 è la più frequente in assoluto (30% dei casi totali ed oltre il 50% nel cariotipo normale) e induce l’espressione citoplasmatica della proteina, normalmente presente nel nucleo. Si può associare con diverse mutazioni, ma le comutazioni più frequenti sono NPM1/FLT3, NPM1/FLT3/DNMT3A, NPM1/DMT3A (Fig. VI). NPM1 è anche un marker di notevole utilità nella valutazione della malattia minima residua (Ivey A et al, 2016). La mutazione di FLT3 determina invece outcome sfavorevole, non per effetto sull’ottenimento della RC, ma sulla sua durata. I pazienti con cariotipo complex e/o monosomico mostrano frequentemente mutazioni del gene Tp53 e vanno incontro a prognosi sfavorevole. Infine, più recentemente è stato identificato un profilo mutazionale caratterizzato da alterazioni del gene ASLX1 e dai geni del complesso dello spliceosoma, associato nella maggior parte dei casi a LAM secondaria spesso insorgente dopo sindrome mielodisplastica (Grimwade D et al, 2016; Hou HA et al, 2012; Eriksson A et al, 2013). Numerose interazioni possono avvenire tra differenti mutazioni come indicato nella Fig. VI. Nella Tabella I, vengono illustrate la prevalenza, le più frequenti associazioni ed il significato prognostico delle mutazioni di maggior rilievo nelle LAM del paziente giovane adulto.
Tab. I:
Numerose mutazioni hanno un ruolo nella patogenesi della LAM, ma esiste una ormai definita gerarchia mutazionale. Il modello oggi condiviso postula la presenza di diversi step (Fig. VII), che prevedono un primo evento a livello di cellula staminale emopoietica non sufficiente nella maggior parte dei casi al definitivo sviluppo fenotipico della malattia.
Figura VII: Genetica molecolare della LAM del giovane adulto: mutazioni più frequenti, loro interazioni preferenziali ed associazione a distinti pattern citogenetici.
In altre parole, viene a definirsi una condizione di “preleucemia” caratterizzata da mutazioni precoci (es. DNMT3A) mentre l’insorgenza clinica di LAM si osserva solo dopo la comparsa di mutazioni successive (NPM1 e/o FLT3). Vengono così a determinarsi 3 cloni (preleucemico o ancestrale, founding e dominante), nell’ambito dei quali sussiste una notevole eterogeneità intraclonale con cellule che possono ospitare una, due o tre mutazioni (Fig. VIII).
Figura VIII: Evoluzione clonale ed eterogeneità intraclonale delle LAM: clone ancestrale, clone founding e clone dominante.
Ancor più complessa è la situazione quando la malattia va incontro a recidiva, in quanto la popolazione cellulare può derivare dal clone ancestrale, dal clone founding, dal clone dominante o, meno frequentemente, da un clone “unrelated”, caratterizzato da un nuovo profilo mutazionale probabilmente selezionato dalla chemioterapia (Fig. IX).
Figura XI: Pattern delle recidive nelle LAM.
Il modello esposto è sintetizzato nella Figura X, nella quale viene evidenziato come anche in pazienti in duratura remissione ematologica, il clone preleucemico può persistere configurando il quadro della remissione “clonale”, tipico delle LAM secondarie (Wong TN et al, 2016; Lindsley RC et al, 2015).
Figura X: Esistenza di clone preleucemico e sua persistenza in remissione ematologica.
Va anche sottolineato che esiste una evidente correlazione tra clearance di distinte mutazioni dopo la terapia di induzione e outcome clinico. In particolare, al giorno +30 dall’inizio della terapia cloni ospitanti DNMT3A, TET2 e IDH1 o 2 si dimostrano più spesso resistenti, mentre quelli positivi per NPM1, FLT3 e KRAS o NRAS sono in prevalenza sensibili alla chemioterapia (Fig. XI) ( Klco JM et al, 2015).
Figura XI: Differente sensibilità alla terapia di induzione di distinte mutazioni nelle LAM.
Pur non essendo ancora del tutto integrabili nella pratica clinica, queste informazioni rappresentano la base per la futura ricerca clinica nell’ambito della LAM e sta già emergendo la possibilità di molecole potenzialmente utili, come sintetizzato nella Tabella II.
Tab. II:
BIBLIOGRAFIA
Divisione di Ematologia, Ospedale Cardarelli, Napoli
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