Highligths dall’ASH 2020: Linfoma di Hodgkin
Il 2020 è stato sconvolto dall’ondata pandemica del SARS-CoV-19 che ha colpito di riflesso anche i grandi meeting internazionali come il congresso annuale dell’ASH, che per la prima volta è stato condotto interamente in modalità virtuale via web.
Questo non ha comunque impedito all’ASH di rappresentare la principale vetrina di novità e aggiornamenti nel campo ematologico anche con questa nuova modalità divulgativa.
Dal punto di vista del linfoma di Hodgkin (LH), interessanti sono state le presentazioni orali trasmesse nel pomeriggio del 6 dicembre e che vengono di seguito riportate.
SELEZIONE PRESENTAZIONI ORALI
La sessione dedicata alle presentazioni orali ha rilanciato alcuni dei filoni caldi di ricerca nel LH, ossia l’ottimizzazione della terapia di seconda linea nei pazienti R/R (con l’integrazione anche dei farmaci PD-1 inhibitors), il miglioramento della terapia nel paziente anziano e lo studio di nuovi farmaci in monoterapia o combinazione sempre per i pazienti R/R pluritrattati.
Questo studio nasce con l’obiettivo di migliore l’efficacia delle terapie di seconda linea nei pazienti R/R e allo stesso tempo di utilizzare un PD-1 inhibitor, dato il possibile futuro maggior utilizzo di brentuximab-vedotin (BV) nelle terapia di prima linea (vedi studio ECHELON presentato all’ ASH 2017).
Sono stati arruolati 39 pazienti R/R ad una prima linea di terapia e sono stati trattati con 2-4 cicli di pembrolizumab (200 mg al giorno 1) in associazione a gemcitabina (1.000 mg/m2 nei giorni 1 e 8), vinorelbina (20 mg/m2 nei giorni 1 e 8) e doxorubicina liposomiale (15 mg/m2 nei giorni 1 e 8), a cadenza di 21 giorni (Figura I).
Nel complesso il trattamento è stato ben tollerato con solo pochi casi di tossicità di grado 3 (rash, transaminite, neutropenia, mucosite).
Per quanto riguarda la risposta, di 34 pazienti valutabili il 91% ha ottenuto una remissione completa (RC) dopo 2 cicli e 3 pazienti una remissione parziale (RP). Un ulteriore paziente ha ottenuto la RC dopo 4 cicli portando il tasso globale di RC al 94%. 32 pazienti sono stati successivamente sottoposti a trapianto autologo e 10 pazienti hanno eseguito mantenimento con BV dopo la procedura trapiantologica. Con un follow-up mediano di 9 mesi post-trapianto tutti i pazienti rimangono in remissione di malattia.
Figura I. Patient flow.
Questo studio di fase II ha valutato la terapia con BV, in monoterapia o in associazione, nel trattamento di prima linea di pazienti di età superiore a 60 anni, suddivisi in questi gruppi:
- Parte A: pazienti trattati con BV in monoterapia ogni 21 giorni (26 pazienti)
- Parte B: pazienti trattati con BV in associazione a dacarbazina (375 mg/m2) (19 pazienti)
- Parte C: pazienti trattati con BV in associazione a bendamustina (70mg/m2) (20 pazienti)
- Parte D: pazienti trattati con BV in associazione a nivolumab (3 mg/Kg) (20 pazienti)
I dati di efficacia possono esser così rappresentati (rispetto alle parti dello studio):
- overall response rate (ORR): rispettivamente 92%, 100%, 100%, 95%
- PFS mediana: rispettivamente 10,5 mesi, 46,8 mesi, 40,3 mesi, e non raggiunta
- OS mediana: 77,5 mesi, 64 mesi, 46,9 mesi, e non raggiunta
- tossicità di Grado ≥3: 50%, 37%, 70%, 60%; in particolare neuropatia periferica
- discontinuazione del trattamento per effetti avversi: 42%, 42%, 40%, 30%.
Da segnalare che la parte C dello studio (BV+bendamustina) è stata chiusa precocemente per tossicità multiple.
Gli autori hanno indicato le combinazioni di BV-dacarbazina e BV-nivolumab come le più promettenti sulla base dei dati di questo studio.
Sebbene questo studio dimostri l’efficacia del BV come terapia di base nel trattamento del LH dell’anziano va comunque sottolineata ancora una volta l’elevato grado di tossicità che accompagna il trattamento di questa particolare tipologia di pazienti.
Lo studio AETHERA (BV come mantenimento post-trapianto autologo) ha dimostrato l’efficacia di BV come mantenimento nei pazienti con LH ad alto rischio. In tale studio erano però esclusi i pazienti con precedente esposizione a BV, situazione potenzialmente sempre più frequente data la sua introduzione nella terapia di prima linea (vedasi studio ECHELON).
Questo studio di fase II si è quindi proposto di valutare la combinazione di BV e nivolumab quale mantenimento nei pazienti ad alto rischio sottoposti a trapianto autologo.
I 59 pazienti sono stati trattati dopo il trapianto autologo (a distanza di 30-75 giorni) con BV (1,8 mg/Kg) e nivolumab (3 mg/Kg) ogni 21 giorni per 8 cicli.
I principali effetti avversi di tale combinazione sono stati la neuropatia periferica (51%, 3% di grado 3), la neutropenia (42%), l’astenia (37%), la diarrea (29%), la nausea (25%) e l’aumento delle transaminasi (24%).
I risultati in termini di PFS e OS a 18 mesi sono stati rispettivamente del 95% e 98% (vedi Figura II).
Figura II. Caratteristiche dei pazienti, OS e PFS.
Questo studio rappresenta un promettente approccio per questa categoria di pazienti ad alto rischio sebbene sia da sottolineare la problematica della tossicità neurologica.
Questo studio si rivolge ai pazienti R/R (già sottoposti a trapianto autologo o ineleggibili ad esso e già trattati con BV/PD-1 inhibitors o ineleggibili ad essi) e prevede l’associazione di un farmaco inibitore di mTOR (everolimus) con un farmaco inibitore di JAK (itacitinib) sulla base di studi pre-clinici in vitro che hanno dimostrato l’efficacia di questa combinazione su linee cellulari.
I pazienti sono stati trattati con everolimus 5 mg/die in combinazione a itacitinib 300 mg/die con possibilità di aumentare quest’ultimo a 400 mg/die o ridurlo a 200 mg/die, con cicli di 28 giorni per un massimo di 24 cicli (=2 anni).
Sono stati arruolati 15 pazienti di cui 14 valutabili,con una mediana di precedenti terapie pari a 5.
La parte di fase I dello studio ha identificato in everolimus 5 mg + itacitinib 400 mg la dose raccomandata per la fase II.
La ORR complessiva (fase I+II) è stata del 79%, con il 14% di RC. Con un follow-up mediano di circa 7 mesi, la OS è stata del 92% mentre la PFS mediana è stata di 3,8 mesi (vedi Figura III).
Per quanto riguarda la tossicità, i principali effetti avversi ematologici sono stati la piastrinopenia, la neutropenia e l’anemia mentre gli effetti extra-ematologici più frequenti sono stati l’iperlipidemia, il rash e la stomatite.
Figura III. Risultati dello studio EVITA.
Anche questo studio si è rivolto ai pazienti R/R (con più di 3 linee di terapia e già sottoposti a BV e PD-1 inhibitors) e prevede la somministrazione di camidanlumab teserine (Cami), un anticorpo monoclonale anti-CD25 coniugato con una pirrolobenzodiazepina in grado di indurre la morte cellulare attraverso danno del DNA.
Sono stati arruolati 47 pazienti, trattati con Cami al dosaggio di 45 mcg/Kg (al giorno 1 di cicli di 21 giorni) per 2 cicli, per poi passare a 30 mcg/Kg a ciclo fino ad un anno di terapia o a discontinuazione per tossicità/progressione.
I risultati dello studio hanno evidenziato una ORR del 80,9% con il 38% di RC, il 42,6% di RP e il 12% di malattia stabile (SD).
Dal punto di vista della tossicità, gli effetti avversi più comuni sono stati astenia, nausea, febbre, rash, prurito, artralgie, stipsi, diarrea, alterazioni delle transaminasi, ipofosfatemia.
Da segnalare, come già evidenziato dallo studio di fase I, l’insorgenza nel 6,4% dei casi di sindrome di Guillan-Barré/poliradicolneuropatia.
Il 6,4% dei pazienti ha ridotto il dosaggio per tossicità, mentre il 12,8% ha interrotto la terapia sempre per tossicità.