Complicanze infettive nella LLC inclusa l’infezione COVID-19

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INTRODUZIONE
Le complicanze infettive sono state da sempre tra le principali cause di morbidità e mortalità nei pazienti affetti da LLC (Montserrat E e Campo E, 2006; Kjellander C et al, 2016; Andersen MA et al, 2019; Eichhorst B et al, 2021). Gli studi effettuati tra gli anni ‘70 e ‘90 riportavano una mortalità complessiva per infezioni del 30-50%. Studi numericamente significativi su pazienti con diagnosi più recente di LLC hanno dimostrato che circa un terzo degli eventi fatali è causato da infezioni (Andersen MA et al, 2019). Le infezioni più comuni sono quelle delle vie urinarie, delle vie respiratorie e della cute; gli agenti più spesso implicati sono Staphylococcus spp., Streptococcus spp., Haemophilus influenzae, E. coli, con percentuali elevate di pazienti che sviluppano infezioni maggiori e sepsi (Francis et al, 2006; Randhawa JK e Ferrajoli A, 2016). Studi retrospettivi (Kjellander C et al, 2016; Andersen MA et al, 2019) hanno rilevato che i patogeni più frequentemente implicati nelle sepsi sono E. coli, S. pneumoniae, P. aeruginosa, S. aureus, e Viridans streptococci. Patogeni contaminanti sono Micrococcus spp., Corynebacterium spp., Bacillus spp., Proprionibacterium acnes (Kjellander C et al, 2016). Complicanze infettive frequenti nei pazienti con LLC in terapia con anticorpi monoclonali (mAb) sono l’Herpes zoster e le riattivazioni di HBV (Riedell P e Carson KR, 2014; Eichhorst B et al, 2021). Anche in epoca pre-ibrutinib, infezioni opportunistiche sono state descritte nei trial clinici, negli studi a singolo centro e nei case reports. Un recente studio nazionale svedese ha stimato l’incidenza e l’impatto delle infezioni opportunistiche in 8989 pazienti affetti da LLC diagnosticata tra il 1994-2013, rilevando una incidenza assai più elevata rispetto a controlli non affetti da LLC di infezioni opportunistiche rare e gravi in particolare polmonite da Pneumocystis jirovecii. La prognosi peggiore è risultata per i pazienti con aspergillosi (Steingrímsson V et al, 2021). Case report, case series e studi osservazionali rivelano un nuovo spettro di infezioni nei pazienti affetti da LLC trattati con i nuovi farmaci (Williams AM et al, 2018; Chamilos G et al, 2018; Brown JR, 2018) tra cui le infezioni opportunistiche da Aspergillus spp. (Williams AM et al, 2018; Chamilos G et al, 2018), Cryptococcus neoformans (Baron M et al, 2017), Mucor (Pouvaret A et al, 2019) e Fusarium spp. Polmoniti gravi da Pneumocystis jirovecii (Kreiniz N et al, 2018) e Citomegalovirus (CMV) sono un problema emergente, al pari delle infezioni fungine.
Negli ultimi due anni, la malattia da Coronavirus 2019 (COVID-19) ha avuto un enorme impatto nella gestione dei pazienti con LLC e sul loro outcome (Chatzikonstantinou T et al, 2021a).
Patogenesi del rischio infettivo
La patogenesi dell’aumentato rischio infettivo è multifattoriale: entrano in gioco fattori legati alla malattia, fattori legati all’ospite e alle terapie specifiche effettuate. La disfunzione immunitaria intrinseca, sia a carico dell’immunità innata che di quella adattativa, sia della via umorale che di quella cellulo-mediata, è potenziata dall’immunosoppressione indotta dalle terapie citotossiche che colpiscono anche le cellule non patologiche del sistema immunitario (Castoldi G e Liso V, 2013). La disfunzione immunitaria inizia molto prima della diagnosi di LLC: sembra infatti che il rischio di infezioni sia più elevato non solo nei pazienti con LLC, ma anche nei pazienti con linfocitosi B monoclonale, lo stadio di pre-malattia che precede la LLC (Vitale C et al, 2021; Niemann CU, 2021). Negli stadi avanzati di malattia, i pazienti sono soggetti ad infezioni recidivanti a causa della neutropenia in parte legata all’infiltrazione midollare e in parte alle terapie (Castoldi G e Liso V, 2013). La splenectomia o l’irradiazione splenica (oggi desueta) – talora effettuate per complicanze della LLC quali l’anemia emolitica autoimmune, la piastrinopenia, l’ipersplenismo o la splenomegalia sintomatica – si associano ad un aumentato rischio di infezioni da microrganismi capsulati (90% dei casi Streptococcus spp.) e da parassiti intraeritrocitari. La cosiddetta “overwhelming post-splenectomy infection” è una rara emergenza medica (Kjellander C et al, 2016).
I pazienti con LLC presentano inoltre una elevata prevalenza di comorbidità. Mancano informazioni dettagliate sull’associazione tra comorbidità specifiche e prognosi. Un registro nazionale danese ha seguito 9170 pazienti con LLC diagnosticata tra il 1997 e il 2018, con un follow up mediano di 5 anni. Tutte le comorbidità considerate risultavano associate a una aumentata mortalità, in particolare mortalità per infezioni. Le infezioni sono risultate la più comune causa di morte in tutti i pazienti, soprattutto nei pazienti con comorbidità singole o plurime, rispetto ai pazienti senza comorbidità (Rotbain EC et al, 2021).
Alterazioni intrinseche del sistema immunitario
La LLC è caratterizzata da una profonda disregolazione immunitaria. Nei prossimi paragrafi analizzeremo nel dettaglio le alterazioni che riguardano le cellule T, NK, le cellule mieloidi, le piastrine, il complemento, la risposta citochinica e l’ipogammaglobulinemia, che sono state descritte nei pazienti con LLC, facendo riferimento a molti research article e recenti review (Vitale C et al, 2021; Moreno C et al, 2021).
- Alterazioni dell’immunità cellulare: fin dagli anni ’60 nei pazienti affetti da LLC è stata evidenziata un’alterazione dell’immunità cellulare con una risposta ritardata al test cutaneo per la tubercolina (Miller DG et al, 1961). Le anomalie delle cellule T sono state evidenziate sia in modelli pre-clinici sia in campioni di cellule di pazienti ed è risultato evidente che le cellule T nel contesto della LLC sono responsabili di una disfunzione immunologica e di complicanze immuni (Maharaj K et al, 2017). Benché i pazienti presentino un aumento del numero delle cellule T CD4, T CD8 e Treg, sia negli stadi iniziali che avanzati queste cellule sono disfunzionanti, con fenotipo exhausted, non in grado di rispondere in modo ottimale; sono stati descritti inoltre una alterata distribuzione delle sottopopolazioni linfocitarie, un repertorio ridotto di TCR (skewed TCR repertoire), e una maggiore espressione di checkpoints immunologici (PD-1 e LAG3) (Palma M et al, 2017; Vitale C et al, 2021). La presenza di cellule T CD3+ esprimenti PD-1 e di cellule B esprimenti PD-1 sembrano essere fattori di rischio per la colonizzazione batterica delle alte vie aeree e per infezioni clinicamente significative nei pazienti con LLC alla diagnosi (Korona-Glowniak I et al, 2019). I linfociti B patologici, inoltre, sembrano inibire la normale interazione delle cellule B e T, entrando in competizione per il segnale da contatto con le cellule T helper e inibendo l’attivazione delle normali cellule B mediata dal CD40.
Foà e colleghi (Foà R et al, 1986; Foà R et al, 1990) hanno dimostrato che anche l’attivazione delle cellule NK è soppressa nei pazienti con LLC. Vi è un aumento numerico delle cellule NK, con una ridotta espressione di NKG2D (Vitale C et al, 2021).
Anche le cellule dendritiche dei pazienti con LLC sono alterate: presentano processi dendritici più polarizzati, una maturazione incompleta, una minor espressione di antigeni HLA di classe I e II rispetto alla popolazione sana e assenza di espressione del CD38. Hanno una minor capacità di rilasciare IL-12 e inducono la differenziazione dei soli linfociti in grado di produrre IL-10 (Randhawa JK e Ferrajoli A, 2016). - Deficit della funzione fagocitaria: nei pazienti affetti da LLC è stato descritto un deficit nella funzione fagocitaria di neutrofili e monociti, che risultano carenti di lisozima, mieloperossidasi e beta-glucuronidasi (Randhawa JK e Ferrajoli A, 2016). I monociti presentano una polarizzazione M2 con funzione immunosoppressiva (Vitale C et al, 2021).
- Alterazioni del sistema del complemento: sono stati riscontrati livelli minori di componenti sieriche del complemento (C1-C4) rispetto a soggetti sani, sia nella via classica che nella via alternativa, soprattutto nelle fasi avanzate della malattia (Randhawa JK e Ferrajoli A, 2016).
- Ipogammaglobulinemia: è la manifestazione più frequente del deficit immunologico, presente in circa l’85% dei pazienti (deficit di IgG, di sottoclassi IgG, IgA e più raramente IgM). I livelli di Ig correlano inversamente con lo stadio e la durata di malattia. Bassi livelli di IgG sono presenti in circa il 20% dei pazienti alla diagnosi e un ulteriore 20% dei pazienti sviluppa ipogammaglobulinemia con la progressione della malattia (Forconi F et al, 2015; Mauro FR et al, 2017). Alcuni studi hanno dimostrato che il deficit anticorpale combinato (carenza di IgG e IgA o IgM) è associato a un rischio infettivo maggiore rispetto alla sola carenza di IgG. Inoltre, la necessità di iniziare un trattamento si associa a un rischio ulteriore di infezioni maggiori. La combinazione di entrambi i fattori comporta un rischio 4 volte maggiore si sviluppare infezioni severe (Visentin A et al, 2015). In generale, i pazienti con minori livelli di immunoglobuline IgG e IgA presentano sopravvivenza ridotta, ma non sempre è evidente una correlazione tra i livelli di immunoglobuline e l’incidenza di infezioni (Visentin A et al, 2015). Freeman e colleghi hanno rilevato che la prevalenza di deficit di IgG in 150 pazienti affetti da LLC era maggiore di quella di infezioni clinicamente significative. Il deficit delle sottoclassi IgG3 e IgG4 era l’unico che si associava ad un rischio di infezioni clinicamente significative (Freeman JA et al 2013). Uno studio retrospettivo di Ishdorj G et al (Ishdorj G et al, 2019) ha valutato la relazione tra livelli basali di immunoglobuline e andamento clinico. Alterati livelli di IgA risultavano correlati in modo significativo con livelli elevati di β2-microglobulina, mentre livelli alterati sia di IgG che di IgA si associavano all’uso dei subset IGHV1-69, 3-21 e 3-49. Livelli alterati di IgG e di IgA alla diagnosi risultavano fattori predittivi indipendenti di terapia sostitutiva con immunoglobuline, ma solo un alterato livello di IgA si associava ad un minor Time To First Treatment (TTFT) e ad un inferiore Overall Survival (OS). Questo studio sembra indicare che livelli alterati di IgG e di IgA alla diagnosi sono marcatori prognostici indipendenti per l’incidenza di infezioni, e che le IgA sono più rilevanti come marcatore di progressione di malattia e di sopravvivenza. Allo sviluppo dell’ipogammaglobulinemia contribuiscono molteplici meccanismi, non ancora del tutto chiari (Randhawa JK e Ferrajoli A, 2016; Friman V et al, 2016). Attraverso l’interazione Fas/Fas ligando le cellule leucemiche possono inibire la produzione anticorpale da parte delle plasmacellule midollari. Inoltre, nel sangue periferico dei pazienti, è presente una popolazione di cellule B in grado di produrre anticorpi numericamente ridotta rispetto ai controlli sani. In vitro le cellule T e NK dei pazienti con LLC determinano una diminuzione della secrezione anticorpale da parte delle cellule B attivate di donatori sani. Inoltre, una popolazione espansa di cellule T CD30+ comunemente riscontrata nei pazienti affetti da LLC inibisce lo switch di isotipo da IgG a IgA, anche nelle cellule B non clonali (Sun C et al, 2015).
Effetto delle terapie sul sistema immunitario
Il deficit immunitario intrinseco della LLC è potenziato dalle terapie. Il tasso di infezioni successive a un trattamento può essere utilizzato per valutare l’effetto immunosoppressivo del trattamento stesso. L’eziologia di una infezione dovrebbe essere riportata e categorizzata in base all’agente eziologico (batterica, virale, fungina) e come provata o probabile. La gravità dell’infezione dovrebbe essere quantificata come minore (richiedente una terapia antimicrobica orale o una sola cura sintomatica), maggiore (richiedente l’ospedalizzazione e una terapia antimicrobica sistemica) o fatale (morte come risultato di una infezione) (Hallek M et al, 2018). Il monitoraggio delle infezioni legate ai trattamenti è un importante obiettivo nel miglioramento della gestione clinica del paziente con LLC (Kjellander C et al, 2016).
- Agenti alchilanti e analoghi delle purine: il clorambucile, utilizzato per anni nella terapia della LLC, si associava prevalentemente ad infezioni batteriche, soprattutto respiratorie, meno comunemente ad infezioni fungine, soprattutto nei pazienti pre-trattati. La riattivazione di una epatite B è stata riconosciuta come potenziale complicanza della terapia con clorambucile, steroidi e antracicline (Riedell P e Carson KR, 2014). La fludarabina, la cladribina e la pentostatina sono agenti noti per indurre anomalie nelle cellule T. I regimi a base di fludarabina determinano una diminuzione profonda delle cellule T CD4 e T CD8. Inoltre, gli analoghi delle purine inducono neutropenia. Le infezioni più comuni associate a tali farmaci sono batteriche (Micobatteri, Nocardia, Listeria), fungine (Candida e Aspergillo), P. jirovecii, Cryptococcus e infezioni virali (CMV, VZV, HSV). Il rischio è aumentato dalla concomitante terapia steroidea. Il declino dei T CD4 avviene precocemente e può durare fino a 2 anni dal completamento della chemioterapia. Il tasso di infezione da HBV sembra basso nei pazienti con età inferiore ai 65 anni trattati in prima linea con regimi a base di fludarabina, per i quali non è necessario un monitoraggio o una profilassi di routine (Eichhorst BF et al, 2007; Hallek M et al, 2018; Eichhorst B et al, 2021).
La bendamustina è un altro agente che causa prolungata deplezione delle cellule T CD4 e T CD8 aumentando il rischio di infezioni opportunistiche nei pazienti con LLC (Randhawa JK e Ferrajoli A, 2016). Una Nota Informativa Importante AIFA di Giugno 2017 ha richiamato l’attenzione sull’incremento di mortalità verificatosi in alcuni studi clinici in cui la bendamustina era utilizzata in associazione con altri farmaci (in particolare rituximab) o al di fuori delle indicazioni autorizzate. Gli eventi tossici gravi e fatali sono stati causati principalmente da infezioni batteriche (sepsi, polmoniti), opportunistiche (P. jirovecii), VZV e CMV; si sono verificate riattivazioni di HBV, alcune con insufficienza epatica acuta ed esito fatale. - Terapia con anticorpi monoclonali (mAb): rituximab, ofatumumab e obinutuzumab sono i mAb anti-CD20 disponibili in commercio (Korycka-Wołowiec A et al, 2017). Il rituximab causa una deplezione delle cellule B con un aumento del rischio di infezioni virali già dopo 3 giorni dalla somministrazione e un recupero lento in 9-12 mesi. Il rischio di infezioni gravi rimane elevato durante i primi 2 anni di remissione ed è maggiore se il rituximab è stato somministrato in regimi contenenti fludarabina come FCR (fludarabina, ciclofosfamide, rituximab) (Tam CS et al, 2008). Sono stati riportati anche casi di neutropenia severa tardiva, di natura verosimilmente autoimmune, più difficilmente dovuta ad un effetto di tossicità diretta (Randhawa JK e Ferrajoli A, 2016). La riattivazione di una epatite B è stata riconosciuta come potenziale complicanza della terapia con rituximab. Si tratta di riattivazioni che frequentemente richiedono l’interruzione della terapia e possono comportare un ricovero in terapia intensiva, risultando anche fatali. Le riattivazioni si sono verificate per lo più in pazienti non sottoposti a screening per i virus epatitici prima della terapia e che non hanno effettuato profilassi antivirale (Randhawa JK e Ferrajoli A, 2016). Sono state descritte anche riattivazioni tardive di epatite B occulta, dopo più di un anno dal completamento della terapia (Dominguez N et al, 2015). La terapia con rituximab e con i nuovi mAb anti-CD20 è stata associata anche a leucoencefalopatia multifocale progressiva (PML), una rara infezione demielinizzante del sistema nervoso centrale causata da JC-virus (Friman V et al, 2016); le infezioni da JC-virus dovrebbero sempre essere escluse in presenza di sintomi neurologici non chiari (Hallek M et al, 2018).
Effetto dei nuovi farmaci sul sistema immunitario
Il regime FCR è stato per lungo tempo considerato il gold standard di trattamento nei pazienti giovani e fit in presenza di geni IGHV mutati. La maggior parte dei pazienti con LLC ha però più di 60 anni, non è fit e presenta una o più comorbidità. Per questi pazienti, particolarmente a rischio di infezioni, i nuovi farmaci, che agiscono su vie chiave per la sopravvivenza delle cellule patologiche, si sono rivelati superiori alla chemio-immunoterapia (CIT), grazie ad una loro maggiore specificità, ad una verosimile minore tossicità anche a lungo termine, e ad un miglioramento della qualità di vita (Chamilos G et al, 2018; Brown JR et al, 2016; Piggin A et al, 2017; Vitale C et al, 2017; de Weerdt I et al, 2017). In realtà, l’uso di tali farmaci non ha ridotto in modo significativo il tasso di infezioni, che rimane alto in tutti gli stadi di malattia, compresi i periodi liberi da trattamento (Williams AM et al, 2018). Inoltre, gli inibitori orali sono associati ad un rischio infettivo soprattutto nel paziente recidivato/refrattario (R/R), precedentemente esposto a CIT.
- Ibrutinib: ibrutinib è stato il primo inibitore di chinasi (appartenente alla classe small molecule kinase inhibitors, SMKIs) approvato dalla FDA (a Febbraio 2014) per la LLC (Lamanna N et al, 2016). E’ un inibitore orale irreversibile della Bruton Tyrosine Kinase (BTK), proteina che agisce a valle del B-cell Receptor (BCR), e della IL-2-inducible Kinase (ITK) (Giridhar KV et al, 2017). Presenta pertanto effetti off target sulle cellule del sistema immunitario (Estupinan HY et al, 2021; Svanberg R et al, 2021). L’inibizione di ITK attenua le risposte Th2 a seguito della stimolazione del T Cell Receptor (TCR). Ciò sembra potenziare la risposta immunitaria antitumorale con aumento della proporzione dei Th1 e diminuzione delle cellule Treg, già durante i primi sei mesi di trattamento (Niemann CU et al, 2016; Podhorecka M et al, 2017; Maharaj K et al, 2017). Sembra che ibrutinib riduca lo sbilanciamento dei linfociti Th2/Th1 soprattutto nei pazienti con U-IGHV (Puzzolo MC et al, 2021; Cassin R et al, 2021).
Il ruolo essenziale di BTK nella maturazione delle cellule B e nella produzione delle immunoglobuline è dimostrato dalle mutazioni germinali con perdita di funzione di BTK che causano l’immunodeficienza primitiva Agammaglobulinemia X-linked (XLA), caratterizzata da assenza di cellule B, profonda ipogammaglobulinemia e aumentata suscettibilità a infezioni batteriche ed enterovirali, ma non infezioni fungine (Baron M et al, 2017). Dai primi studi con ibrutinib, è stato ipotizzato che l’inattivazione acquisita di BTK durante il trattamento con ibrutinib risultasse in una immunodeficienza meno grave di quella della XLA (Byrd JC et al, 2013). Data la rilevanza clinica della ipogammaglobulinemia nella LLC, alcuni trial clinici hanno monitorato i livelli di immunoglobuline nei pazienti in trattamento con ibrutinib (Sun C et al, 2015). E’ stato osservato un incremento delle IgA, un livello stabile di IgG nei primi 6 mesi e successivamente una loro diminuzione (Brown JR, 2018), e un aumento transitorio delle IgM (Yel L, 2010). La diminuzione delle IgG che emerge solo dopo trattamenti prolungati, al momento, non sembra avere un impatto negativo, ma poiché ibrutinib può essere somministrato indefinitamente è necessario un maggiore follow-up per determinare le conseguenze a lungo termine dell’inibizione di una via chiave della maturazione B cellulare. Durante il trattamento con ibrutinib è stato osservato inoltre un incremento degli anticorpi policlonali, che suggerisce una ricostituzione dell’immunità B cellulare (Brown JR, 2018). Questo fenomeno potrebbe essere analogo all’emergenza di cellule B policlonali nei soggetti affetti da XLA (Sun C et al, 2015). In generale sembra che il rischio infettivo legato a ibrutinib si riduca nel tempo (Sun C et al, 2015).
BTK è espressa non solo nei linfociti B ma anche nei monociti-macrofagi e nei neutrofili. La via del segnale di BTK regola lo sviluppo di una serie di funzioni delle cellule mieloidi, tra cui la chemotassi, l’adesione, la migrazione, la produzione di specie reattive dell’ossigeno, la risposta citochinica e l’attivazione dell’inflammasoma. E’ stato dimostrato che BTK gioca un ruolo importante nella funzione dei macrofagi, compresa la fagocitosi e il killing fungino (Baron M et al, 2017), attraverso l’attivazione della via del segnale calcineurina-NFAT per il reclutamento dei neutrofili nel sito di infezione (Herbst S et al, 2015; Bercusson A et al, 2018). L’immunità nei confronti di Aspergillo è in parte mediata dal Toll signaling, e TLR9 attiva BTK. BTK è parte dell’inflammasoma, a sua volta implicato nell’immunità anti-Aspergillo (Fiorcari S et al, 2020). In uno studio di Lionakis et al. (Lionakis MS et al, 2017), topi BTK knockout o BTK wild-type venivano infettati con Aspergillo: i primi presentavano una maggiore mortalità, suggerendo che BTK è necessaria per il controllo immune nei confronti di Aspergillo. Durante la terapia con ibrutinib, la via NFAT e la risposta di NFκB sono alterate e questo si traduce in una mancanza di reclutamento dei netrofili (Herbst S et al, 2015; Bercusson A et al, 2018). Inoltre, nei pazienti trattati con ibrutinib durante una infezione da Aspergillo si verifica una ridotta funzione dei neutrofili con ridotta produzione di specie reattive dell’ossigeno e una ridotta secrezione di IL-8. Come conseguenza, l’infezione da Aspergillo si sviluppa più rapidamente (Blez D et al, 2020). L’inibizione che ibrutinib esercita sui macrofagi e sulle cellule della microglia a causa della sua penetrazione nel sistema nervoso centrale (SNC) fa sì che i macrofagi possano consentire il passaggio di Aspergillo attraverso la barriera emato-encefalica permettendo più facilmente una estensione dell’infezione a livello del SNC (Bedier H et al, 2021; Fiorcari S et al, 2020; Reynolds G et al, 2020).
E’ stato inoltre dimostrato che topi immunodeficienti con mutazione di BTK erano incapaci di contenere l’infezione di Criptococco nei polmoni, con ridotta fagocitosi da parte dei macrofagi, infezione polmonare progressiva e disseminazione al SNC (Baron M et al, 2017).
Inoltre, una aumentata suscettibilità a Pneumocystis jirovecii è stata osservata nei topi con deficit di BTK. E’ plausibile che ibrutinib, con il suo effetto diretto su BTK e altri suoi possibili effetti off-target su chinasi importanti anche per la funzione dei linfociti T CD4 (Maharaj K et al, 2017), influenzi l’asse cellule T-macrofagi importante nella patogenesi della criptococcosi e delle infezioni da P. jirovecii (Chamilos G et al, 2018), ma sono necessarie ulteriori valutazioni precliniche, cross-validazione su modelli murini knockout e studi sull’uomo.
Recentemente è emerso che ibrutinib può inibire le risposte piastriniche FcγRIIA-mediate alle infezioni batteriche nei pazienti con LLC (Naylor-Adamson L et al, 2021) E’ noto infatti che ibrutinib esercita un ruolo off target anche a livello delle piastrine e si associa infatti a complicanze emorragiche. FcγRIIA è un recettore tirosin chinasi-dipendente importante per l’attivazione piastrinica in risposta ai patogeni opsonizzati dalle IgG. Il crosslinking di questo recettore con gli anticorpi causa un’attivazione di BTK e TEC nelle piastrine. L’aggregazione piastrinica, la secrezione di α-granuli e la rimozione dei batteri rilevata nei pazienti con LLC è risultata compromessa nelle piastrine dei pazienti trattati con ibrutinib. Dati preliminari suggeriscono che l’effetto di ibrutinib sull’attivazione piastrinica FcγRIIA-mediata da parte dei batteri dipenda da un’inibizione combinata di BTK e TEC, ma non si possono escludere effetti off-target anche su altre chinasi. Queste osservazioni sono rilevanti per il rischio infettivo nei pazienti con LLC (Naylor-Adamson L et al, 2021).
Nei principali trial clinici di fase III (RESONATE, RESONATE-2, ILLUMINATE) ibrutinib è risultato ben tollerato con una percentuale non elevata di eventi avversi infettivi (Brown JR, 2018; O’Brien SM et al, 2021). Con la diffusione dell’utilizzo di ibrutinib su larga scala, sta emergendo un profilo di eventi avversi più complesso di quello inizialmente previsto. Per quanto riguarda le infezioni, l’incidenza sembra ridursi progressivamente dopo 6 mesi di terapia, ma quello che potrà succedere dopo molti anni di trattamento rimane ignoto (Brown JR, 2018). Il rischio infettivo è maggiore per i pazienti R/R dopo CIT trattati con ibrutinib, per la persistenza dell’effetto immunosoppressivo della CIT e per una limitata capacità di ibrutinib di migliorare l’immunodeficienza intrinseca e legata alla terapia dei pazienti affetti da LLC (Williams AM et al, 2018).
Varughese et al. (Varughese T et al, 2018) ha cercato di definire lo spettro delle infezioni gravi associate ad ibrutinib, prendendo in considerazione le cartelle cliniche elettroniche di quasi 400 pazienti con neoplasie linfoproliferative che avevano ricevuto ibrutinib per un periodo di 5 anni tra il 2012 e il 2016 al Memorial Sloan Kettering Cancer Center. Infezioni gravi si sono verificate nell’11,4% dei pazienti, soprattutto nel primo anno di terapia. Infezioni batteriche invasive si sono verificate nel 53,5% dei pazienti e infezioni fungine invasive (invasive fungal infections, IFI) nel 37,2% dei pazienti. La maggior parte dei pazienti che sviluppava una IFI durante il trattamento con ibrutinib (62,5%) non presentava i classici fattori di rischio per le infezioni fungine (trapianto di cellule staminali emopoietiche, neutropenia profonda prolungata, linfopenia, terapia steroidea). Le infezioni sono risultate fatali nel 14% dei pazienti. Le infezioni opportunistiche spesso si sono presentate con manifestazioni atipiche associate ad una aumentata mortalità (Chamilos G et al, 2018; Brown JR, 2018).
In un case report di Peri et al. (Peri AM et al, 2018) è stato descritto un caso di un paziente giovane (57 anni), fumatore, affetto da LLC plurirecidivata, già trattato con chemioterapia (FCR e successivamente ciclofosfamide e rituximab) e terapia steroidea prolungata per una piastrinopenia immune; dopo 4 settimane di terapia con ibrutinib il paziente ha sviluppato una aspergillosi invasiva con coinvolgimento polmonare e del SNC. La terapia steroidea è fortemente associata allo sviluppo di micosi invasive, ma con un effetto dose dipendente e, in particolare, al dosaggio di prednisone 1mg/kg/die utilizzato per le complicanze autoimmuni il rischio di aspergillosi invasiva dovrebbe essere minore. E’ possibile quindi che proprio la terapia con ibrutinib aumenti il rischio di IFI, in considerazione del ruolo di BTK nella risposta innata ad Aspergillo (Lionakis MS et al, 2017; Peri AM et al, 2018). Un altro case report (Arthurs B et al, 2017) ha descritto un caso di aspergillosi polmonare invasiva in un paziente in terapia con ibrutinib in assenza di neutropenia o di altre terapie concomitanti quali steroidi o rituximab. Una valutazione retrospettiva (Ghez D et al, 2018) ha permesso di concludere che ibrutinib può essere associato a IFI precoci (mediana di trattamento 3 mesi) con frequente localizzazione al SNC. E’ stato descritto un caso di aspergillosi del SNC in un paziente con LLC in terapia con ibrutinib in prima linea, dopo solo 1 mese dall’inizio della terapia (Eichenberger EM et al, 2019). Ibrutinib è stato sospeso e il paziente è stato trattato con voriconazolo e successivamente mantenuto in isavuconazolo, con il proposito di iniziare in futuro venetoclax come seconda linea terapeutica. Recentemente un case report ha descritto un paziente di 67 anni con pancitopenia prolungata dopo un primo ciclo di FCR, trattato con ibrutinib in monoterapia. Poco dopo l’inizio di ibrutinib sviluppava un ascesso cerebrale e malattia polmonare in un quadro di aspergillosi invasiva. Il paziente è stato trattato con drenaggio dell’ascesso e terapia con voriconazolo. Successivamente ibrutinib veniva ripreso a dosaggio ridotto mantenendo la terapia con voriconazolo (moderato inibitore di CYP3A4) (Bedier H et al, 2021).
Una review del 2019 (Maffei R et al, 2019) ha riassunto le caratteristiche cliniche delle IFI nei pazienti in terapia con ibrutinib, generalmente caratterizzate da una insorgenza precoce, localizzazione polmonare asintomatica o poco sintomatica ed elevata incidenza di coinvolgimento del SNC. Una complessa immunodeficienza riguardante sia il sistema immunitario innato che adattativo può essere all’origine della propensione per le IFI associate ad ibrutinib (Chamilos G et al, 2018); lo stadio di malattia, l’età e le comorbidità, l’esposizione ambientale ai conidi, l’effetto di altre terapie associate e delle interazioni tra farmaci, le caratteristiche farmacogenetiche del paziente che influenzano il metabolismo di ibrutinib, e una propensione genetica del paziente alle infezioni fungine definiscono uno “stato netto di immunosoppressione”. E’ fondamentale un aumento della sorveglianza per l’individuazione precoce e la notifica alla comunità medica dei casi di IFI sia nei trial che nella realtà clinica (Ruchlemer R et al, 2019), discriminando in modo chiaro le IFI dagli episodi di sepsi o da altre infezioni batteriche per la diversa storia naturale e la diversa prognosi.
E’ stato descritto un caso di co-infezione fungina tra aspergillosi invasiva cerebrale e mucormicosi renale, diagnosticata su biopsia tissutale in un paziente in terapia con ibrutinib da 6 mesi, e un caso di polmonite dovuto a concomitante aspergillosi invasiva e mucormicosi con emorragia polmonare (Kreiniz N et al, 2018). Brown JR (Brown JR, 2018) ha riportato un caso di mucormicosi invasiva associata a trombosi di entrambi i seni cavernosi. E’ stato descritto anche un caso di mucormicosi cutanea successiva un episodio di penfigoide bolloso grave (Stein MK et al, 2018) trattata con amfotericina B e successivamente con posaconazolo con risoluzione dell’infezione. Baron et al. (Baron M et al, 2017) ha descritto un caso di meningoencefalite aspergillare e un caso di meningoencefalite criptococcica in pazienti in trattamento con ibrutinib in assenza di neutropenia o terapia steroidea. Sono stati descritti (Stankowicz M et al, 2017) due casi di meningoencefalite criptococcica in due pazienti con LLC in terapia con ibrutinib, ricoverati il primo per polmonite e sinusite acuta e il secondo per polmonite e fibrillazione atriale, entrambi trattati con terapia steroidea per anemia emolitica autoimmune. Anche la protezione nei confronti delle infezioni da criptococco è dovuta ad una intricata interazione tra i due bracci dell’immunità ed è necessario indagare se la LLC in sé o la terapia con SMKIs predispongano in modo indipendente alle infezioni da criptococco (Abid MB et al, 2019).
Durante la terapia con ibrutinib si sono verificate anche polmoniti gravi life-threatening (Kreiniz N et al, 2018). Ibrutinib può anche causare una polmonite infiammatoria (pneumonitis) responsiva al cortisone, riportata in una piccola serie di casi e riscontrata occasionalmente nella pratica clinica. In questi casi le biopsie polmonari hanno dimostrato una polmonite organizzante e una infiammazione interstiziale o granulomi senza la presenza di microorganismi (Mato AR et al, 2016, Brown JR, 2018). La polmonite infiammatoria può poi complicarsi con una infezione secondaria. Un case report ha dimostrato un aumentato rischio di polmonite da P. jirovecii (Pneumocystis jirovecii pneumonia, PJP) (Ahn IE et al, 2016) in pazienti con una mediana di trattamento di 6 mesi. La presentazione clinica può comprendere infiltrati polmonari asintomatici, tosse cronica, dispnea. La diagnosi è spesso tardiva. E’ interessante notare che tutti i pazienti al momento della diagnosi presentavano una conta delle cellule T CD4 >500/ml e IgG >500 mg/dl. Tutti i casi erano di grado ≤2 e si sono risolti con terapia orale. La mancanza di correlazione con la conta dei CD4 e il livello di IgG suggerisce che la suscettibilità alla PJP possa essere proprio legata all’inibizione di BTK. Una serie di casi di PJP associate all’uso di ibrutinib è stata sottoposta all’attenzione dell’FDA, in particolare all’FDA Adverse Event Reporting System (FAERS) (Lee R et al, 2017). Data la gravità dell’andamento clinico di questi casi, dovrebbe esserci un cambiamento significativo nella sorveglianza e nella profilassi dei pazienti in ibrutinib o altri SMKIs. L’eziologia delle polmoniti da ibrutinib è multifattoriale: coinvolge fattori legati all’ospite, aspetti di tossicità legata al farmaco, e infezioni. I pazienti in cui si sospetta una polmonite devono essere indagati con attenzione per arrivare ad una diagnosi precisa e tempestiva. Ulteriori studi sono necessari per capire quali pazienti sono a maggior rischio di sviluppare complicanze polmonari (Kreiniz N et al, 2018).
Chan et al. (Chan TSY et al, 2017) hanno riportato un caso di infezione da Fusarium solani in un paziente con LLC plurirecidivata in trattamento con ibrutinib da 6 settimane. L’infezione si era manifestata con febbre e lesioni cutanee. Fusarium spp. sono muffe ialine ubiquitarie distribuite nel suolo, nelle piante e nelle acque; possono determinare infezioni gravi nel paziente immuno-compromesso. L’infezione può essere superficiale (cheratite fungina, onicomicosi) o invasiva (sinusite, polmonite) e disseminata. Nei pazienti con malattie ematologiche è in genere invasiva e disseminata. Fattori di rischio importante sono la neutropenia e i difetti dell’immunità T cellulare. Ulteriori studi epidemiologici prospettici sono necessari per determinare il reale rischio di IFI e di PJP nei pazienti trattati con ibrutinib.
Nei pazienti in terapia con ibrutinib sono stati riportati casi di riattivazione di HBV (de Weerdt I et al, 2017; de Jésus Ngmoma P et al, 2015), ma non casi di insufficienza epatica fulminante. La Nota Informativa Importante AIFA del 17/07/2017 raccomanda che, prima di iniziare il trattamento, i pazienti siano sottoposti ai test per la ricerca di infezione da HBV e in caso di positività sierologica siano consultati medici esperti epatologi/infettivologi per un monitoraggio e una gestione in accordo con gli standard clinici locali, per prevenire la riattivazione di HBV. Sono stati descritti anche casi di riattivazioni di VZV, nonostante la profilassi antivirale, mentre assai rari sono i casi di Zoster disseminato con coinvolgimento viscerale (Giridhar KV et al, 2017).
In uno studio di Mauro e colleghi (Mauro FR et al, 2021) sono stati valutati 494 pazienti con LLC trattati con ibrutinib, 18% in prima linea di trattamento. L’età mediana era 69 anni (32-92 anni); un 24% dei pazienti presentava CIRS > 6, 37% Clearance della creatinina < 70 ml/min, 55% anomalie di TP53, durata mediana di trattamento 35 mesi (4-85 mesi). L’incidenza globale di infezioni è risultata 15,3%/anno (polmoniti 10%, infezioni opportunistiche 2%, altre infezioni non opportunistiche 3%). I pazienti che sviluppavano infezioni presentavano un OS simile a quello dei pazienti con sindrome di Richter. In analisi univariata e multivariata le variabili associate al rischio infettivo durante la terapia con ibrutinib sono state broncopatie croniche (1 punto), ≥ 2 precedenti trattamenti (1 punto), polmonite o infezioni di grado > 3 nell’anno precedente l’inizio di ibrutinib (2 punti). I gruppi di rischio definiti sono stati: low (score 0-1), intermediate (score 2), high (score ≥3) (Mauro FR et al, 2021). - Nuovi BTKi, con minori effetti collaterali sono acalabrutinib (ACP-196) e zanubrutinib (BGB-3111). Acalabrutinib, inibitore con maggiore selettività per BTK, diversamente da ibrutinib non agisce su ITK nei linfociti e cellule NK (Estupinan HY et al, 2021; Svanberg R et al, 2021). Non è noto l’effetto sulle funzioni immuni mediate dalle piastrine (Naylor-Adamson L et al, 2021). L’effetto a lungo termine di acalabrutinib sul sistema immunitario e sul rischio infettivo sarà valutabile con un più lungo follow up dei pazienti inclusi nei trial clinici (Molica S, 2017; Sharman JP et al, 2019; Ghia P et al, 2019; O’Brien SM et al, 2021). Nei principali trial di fase III (ELEVATE-TN, ASCEND) acalabrutinib è risultato ben tollerato con una percentuale non elevata di eventi avversi infettivi gravi. Recentemente sono stati i pubblicati anche i risultati del trial di fase II ACE-CL-001, che ha fornito il follow up più lungo per acalabrutinib in pazienti con LLC non trattati e R/R (follow up mediano 53 mesi e 41 mesi rispettivamente). Anche in questo studio gli eventi infettivi gravi sono stati riportati in una bassa percentuale di pazienti. Lo studi di fase III ELEVATE RR è stato recentemente completato: non è emersa una percentuale elevata di eventi avversi infettivi per acalabrutinib confrontato head-to-head con ibrutinib, dopo un follow up mediano di 40,9 mesi (O’Brien SM et al, 2021).
Zanubrutinib, approvato da FDA solo per i pazienti con linfoma mantellare (MCL) che hanno ricevuto almeno una linea di terapia, è in corso di valutazione nei trial clinici per la LLC. In uno studio di fase II in pazienti cinesi con LLC R/R dopo un follow up mediano di 15 mesi, i più comuni eventi avversi di grado ≥3 erano le infezioni polmonari (13,2%) e del tratto respiratorio superiore (9,9%). Nello studio di fase III SEQUOIA nella coorte di pazienti con LLC non trattati dopo un follow up mediano di 18 mesi, tra gli eventi avversi (AEs) di grado ≥3 che si sono verificati in ≥2% dei pazienti venivano riportate le polmoniti (3,7%). AEs di ogni grado riportati in ≥10% dei pazienti sono stati le infezioni (64,2%; 13,8% di grado ≥3) (O’Brien SM et al, 2021). Due pazienti (1,8%) hanno interrotto il trattamento per AEs infettivi (polmonite, sepsi da Pseudomonas). Nel trial ALPINE di confronto diretto tra zanubrutinib e ibrutinib in pazienti con LLC R/R con un follow up mediano di 15 mesi il tasso di neutropenia è risultato maggiore con zanubrutinib rispetto a ibrutinib (28,4 versus 21,7%), ma le infezioni di grado ≥3 erano inferiori con zanubrutinib rispetto a ibrutinib (12,7 % versus 17,9%). Sono necessari più dati per confermare questi risultati (O’Brien SM et al, 2021).Una review recentemente pubblicata (O’Brien SM et al, 2021) ha fornito una visione d’insieme sugli AEs anche infettivi e la loro gestione nei pazienti con LLC trattati con BTKi, considerando dapprima i trial clinici e poi i casi real life. Dovrebbe essere considerata una profilassi per i pazienti ad alto rischio di sviluppare infezioni opportunistiche e tutti i pazienti dovrebbero essere monitorati per segni e sintomi di infezione e trattati prontamente (Stefania Infante M et al, 2021; O’Brien SM et al, 2021). - Idelalisib: idelalisib è un potente inibitore orale selettivo della chinasi PI3 isoforma delta (PI3Kδ) espressa nelle cellule linfoidi e coinvolta nella determinazione del fenotipo patologico. Si tratta del secondo inibitore con azione sulla via del BCR approvato dalla FDA nella LLC pretrattata (in associazione con rituximab, nel luglio 2014) (Lamanna N et al, 2016). I risultati intermedi di 3 studi randomizzati di fase III (GILEAD 312-0123/NCT01980888; GILEAD 313-0124/NCT01732913; GILEAD 313-0125/ NCT01732926) che indagavano l’aggiunta di idelalisib a terapie standard di prima linea nella LLC e nei linfomi indolenti/linfoma a piccoli linfociti recidivati (Gilead Safety Database, Foster City, CA, USA) hanno mostrato un aumento del numero degli eventi avversi gravi e dei decessi associati a infezioni nel braccio trattato con idelalisib rispetto al gruppo placebo (7,4% vs 3,5%). L’eccesso di mortalità è stato principalmente causato da infezioni, tra cui P. jirovecii e CMV ed eventi respiratori alcuni dei quali connessi ad infezioni (de Weerdt I et al, 2017). Un meccanismo possibile alla base della maggiore suscettibilità alle infezioni virali e batteriche indotta da idelalisib potrebbe essere l’inibizione di PI3Kδ nei linfociti citotossici con conseguente inibizione della loro proliferazione e della produzione di citochine (Giridhar KV et al, 2017). Questi risultati hanno portato all’interruzione da parte dell’FDA nel 2016 dei trial registrativi randomizzati che valutavano il medicinale in associazioni terapeutiche o in popolazioni di pazienti non precedentemente autorizzate (in prima linea e in pazienti con delezione di 17p o mutazione di TP53). Con Nota Informativa Importante del 23/03/2016, l’AIFA ha stabilito misure precauzionali da seguire all’atto della prescrizione di idelalisib: i pazienti devono essere informati del rischio di infezioni gravi e/o fatali; il trattamento non deve essere iniziato in presenza di infezioni sistemiche; la profilassi per P. jirovecii deve essere somministrata a tutti i pazienti per tutta la durata del trattamento; i pazienti devono essere monitorati per eventuali segni e sintomi respiratori e invitati a segnalarli tempestivamente; deve essere condotto uno screening clinico e di laboratorio regolare per l’infezione da CMV e il trattamento deve essere interrotto in presenza di infezioni o viremia; la conta assoluta dei neutrofili (CAN) deve essere monitorata almeno ogni 2 settimane per i primi 6 mesi e almeno ogni settimana nei pazienti con CAN <1.000/mm3. Il Comitato per la valutazione dei rischi per la farmacovigilanza (PRAC) dell‘EMA ha completato quindi la Revisione su idelalisib, diffusa tramite Comunicato sul sito AIFA a partire da Luglio 2016. Sono stati confermati i benefici del medicinale, superiori ai suoi rischi nel trattamento della LLC; è stato confermato anche il rischio di gravi infezioni da P. jirovecii, per cui il PRAC raccomanda una profilassi antibiotica durante il trattamento e fino a 2-6 mesi dopo la sua interruzione. Il PRAC ha concluso che idelalisib può ancora essere iniziato, in combinazione con rituximab, in pazienti con LLC che hanno ricevuto un trattamento precedente, come anche in pazienti precedentemente non trattati con delezione 17p o mutazione di TP53, ma solo se non possono essere impiegati trattamenti alternativi e a condizione che siano seguite le misure concordate per prevenire l’infezione. In Italia l’indicazione terapeutica di idelalisib nella LLC è quindi in associazione con rituximab in pazienti che hanno ricevuto almeno una terapia precedente o in prima linea se è presente del17p/mutazione di TP53. Ciò è particolarmente importante poiché l’associazione idelalisib+rituximab migliora la sopravvivenza nei pazienti con LLC recidivata, indipendentemente dalla presenza di anomalie genetiche ad alto rischio. Un recente studio retrospettivo multicentrico italiano promosso dal gruppo SEIFEM (Sorveglianza Epidemiologica Infezioni nelle Emopatie) ha confermato che l’incidenza di infezioni nei pazienti trattati con ibrutinib e idelalisib non è trascurabile e che i virus sono la causa più frequente di infezione nei pazienti trattati con idelalisib (Marchesini G, et al 2021; Reinwald M et al, 2018).
Altri inibitori di PI3K sono in fase avanzata di sviluppo clinico. Duvelisib (IPI-145) è un inibitore di PI3K delta e gamma. Umbralisib (TGR-1202) è un inibitore di PI3K delta di ultima generazione che sembra essere associato a un minor rischio di transaminite rispetto agli altri inibitori (Lamanna N et al, 2016). - Associazione di mAb anti-CD20 e BCRi: l’associazione dei nuovi farmaci con mAb anti-CD20 è promettente. In alcuni studi sembra però che ibrutinib possa inibire la citotossicità anticorpo dipendente (ADCC) delle cellule NK mediata da ITK, limitando così l’efficacia diretta degli anticorpi anti-CD20 (Molica S, 2017). Non sono state identificate tossicità significative per la combinazione di ibrutinib con bendamustina-rituximab (BR) in pazienti con LLC pretrattati (Chanan-Khan A et al, 2016; de Weerdt I et al, 2017). Zelenetz e colleghi (Zelenetz AD et al, 2017) hanno valutato in un trial randomizzato di fase III l’associazione idelalisib-BR versus BR. La terapia di combinazione ha ridotto il rischio di progressione e morte rispetto a BR nei pazienti con LLC R/R. All’inizio del trial non era stata proposta una profilassi di routine per P. jirovecii né il monitoraggio di CMV, successivamente resi obbligatori durante la terapia con idelalisib per l’aumentato rischio infettivo registrato nel braccio di combinazione, forse anche a causa della maggiore durata di esposizione al farmaco. Gli sforzi futuri dovranno essere diretti alla riduzione del rischio infettivo, massimizzando al tempo stesso il beneficio terapeutico di idelalisib.
- Venetoclax (ABT-199): venetoclax è un inibitore selettivo della proteina antiapoptotica BCL-2 (Lamanna N et al, 2016). Anche venetoclax sembra presentare effetti off target su cellule del sistema immunitario (Estupinan HY et al, 2021; Svanberg R et al, 2021). Infatti l’omeostasi dei linfociti T dipende anche dall’attività di BCL2. Nello studio CLL14 (Venetoclax-Obinutuzumab) e HOVON139 (Obinutuzumab-Ibrutinib-Venetoclax) è stata osservata una riduzione dei linfociti T e delle cellule NK, nonché dei linfociti Treg e dei linfociti T con fenotipo exhausted (Svanberg R et al, 2021; De Weerdr I et al, 2019). Venetoclax è stato studiato da solo o in combinazione con rituximab (Seymour JF et al, 2017) in pazienti R/R, con ottimi risultati in termini di efficacia e un livello non elevato di eventi avversi infettivi gravi (neutropenia febbrile, infezioni delle basse vie respiratorie, polmonite). Nello studio di fase Ib di Seymour et al. (Seymour JF et al, 2017) non tutti i pazienti avevano ricevuto una profilassi per i lieviti, P. jirovecii, HSV. Infezioni severe sono state causate da H. influenzae, virus di influenza e parainfluenza, C. difficile e Rotavirus. Non si sono osservati eventi avversi infettivi di grado 4 (Davids MS et al, 2018; Schiattone L et al, 2019; Ryan CE e Davids MS, 2019). Nel trial di fase III MURANO in pazienti con LLC R/R trattati con rituximab-venetoclax per 24 mesi, il tasso di neutropenia di grado 3 e 4 era più alto nel gruppo rituximab-venetoclax rispetto al braccio rituximab-bendamustina, ma il tasso di neutropenia febbrile di grado 3-4, infezioni o infestazioni era minore con venetoclax che con bendamustina (Seymour JF et al, 2018).
- Nuove combinazioni terapeutiche: alcuni trial in corso stanno valutando la combinazione di venetoclax con BTKi e mAb anti-CD20, per periodi di tempo definiti (Molica S, 2017; Roeker LE et al, 2021c). La sfida di oggi è quella di individuare efficaci combinazioni di nuovi farmaci con tossicità non sovrapponibili. Anche l’intervento farmacologico sull’asse PD-1/PD-L1 potrebbe contribuire a ripristinare la funzione T-cellulare nel microambiente della LLC (Palma M et al, 2017; Ding W et al, 2017). Alcuni trial clinici stanno esplorando l’efficacia degli inibitori di PD-1/PD-L1 da soli o in combinazione con idelalisib o ibrutinib in pazienti affetti da LLC o da altri disordini linfoproliferativi a basso grado (ClinicalTrials.gov Identifier: NCT02332980). Le implicazioni immunologiche e il rischio infettivo associato a tali combinazioni dovranno essere valutati nel tempo, con grande cautela (Molica S, 2017).
Rischio infettivo e prognosi
Senza dubbio lo sviluppo di modelli in grado di identificare i pazienti affetti da LLC più suscettibili alle infezioni gravi durante il corso della loro malattia sarebbe estremamente utile anche in termini di selezione del trattamento (Niemann CU, 2021). A questo scopo, Agius e colleghi hanno recentemente sviluppato un modello di machine learning in grado di identificare con elevata precisione i pazienti a rischio di infezioni gravi nei primi due anni dalla diagnosi di LLC (Agius R et al, 2020). Il CLL Treatment-Infection Model (CLL-TIM) è stato validato sia su una coorte interna che esterna. Si tratta di un insieme di algoritmi basati sui dati di 4149 pazienti con LLC, in grado di gestire dati eterogeni, comprese informazioni mancanti tipiche del contesto real-world. Il modello è stato sviluppato per selezionare i pazienti per il trial clinico randomizzato di fase II-III PreVent-ACaLL (NCT03868722) dei gruppi Nordic e Hovon, che si propone di valutare se 3 mesi di terapia combinata con venetoclax e acalabrutinib possano migliorare la storia naturale della disfunzione immunitaria dovuta alla LLC e ridurre il rischio di infezioni rispetto alla sola osservazione, in pazienti con LLC di nuova diagnosi ad alto rischio di infezioni e/o che non presentano i criteri di trattamento secondo l’iwCLL (da Cunha-Bang C et al, 2019). Per permettere di validare il CLL-TIM nella pratica clinica, il modello e già disponibile in versione web con stime di confidenza e fattori di rischio personalizzati (CLL-TIM.org) (Agius R et al, 2020).
Negli ultimi anni è cresciuta l’attenzione al problema della disfunzione immunitaria nei pazienti con LLC. Le complesse alterazioni immunologiche che caratterizzano la LLC si manifestano clinicamente non solo come aumentato rischio infettivo, ma anche come fenomeni autoimmuni e un aumentato rischio di seconde neoplasie (Vitale C et al, 2021). Queste manifestazioni cliniche impattano sulla prognosi complessiva dei pazienti.
E’ stata valutata la possibile correlazione tra infezioni e i principali parametri prognostici. Francis e colleghi (Francis S et al, 2006) hanno valutato retrospettivamente una coorte di 280 pazienti: i pazienti con stadio avanzato, U-IGHV, alterazioni di TP53, alterazioni di ATM, trisomia 12 e positività del CD38, avevano un time-to-first major infection inferiore; stadio avanzato e U-IGHV mantenevano il loro valore significativo indipendente nelle analisi multivariate. Gli stessi parametri impattavano negativamente sulla mortalità legata alle infezioni, riflettendo un’associazione tra aggressività di malattia e il deficit immunologico. Anche nella coorte dei 706 pazienti riportata da Visentin e colleghi (Visentin A et al, 2015), le infezioni maggiori – definite come eventi richiedenti una gestione intra-ospedaliera o antibiotici per via endovenosa – erano associate allo stadio clinico, allo stato mutazionale IGHV, ad una citogenetica ad alto rischio e positività per il CD38. Più recentemente Andersen e colleghi hanno utilizzato il registro danese (Andersen MA et al, 2018) che comprendeva una coorte di 2905 pazienti con diagnosi di LLC tra il 2008 e il 2016. In analisi multivariata, le variabili significativamente associate a un rischio maggiore di infezioni erano lo stadio di Binet, il livello di β2-microglobulina e il livello di IgA.
Per quanto riguarda l’impatto delle infezioni sulla prognosi complessiva dei pazienti con LLC, nello studio danese sopra riportato (Andersen MA et al, 2018) i pazienti che avevano avuto una infezione durante il primo anno dopo la diagnosi, presentavano un OS significativamente inferiore. Nella loro coorte a singolo centro, Visentin e colleghi (Visentin A et al, 2015) hanno rilevato che i pazienti con una storia di infezioni maggiori avevano un OS inferiore rispetto ai pazienti che non presentavano infezioni. Anche Crassini e colleghi (Crassini KR et al, 2018) hanno riportato il follow up a lungo termine (9,5 anni) di una coorte di 147 pazienti, e hanno confermato una significativa associazione tra il verificarsi di infezioni gravi o ricorrenti nel primo anno di osservazione e un OS inferiore (Vitale C et al, 2021).
Profilassi e terapia antimicrobica
L’uso profilattico di farmaci antimicrobici non è definito in modo uniforme (Randhawa JK e Ferrajoli A, 2016). Ci sono poche linee guida che possano essere facilmente usate nella pratica clinica per scegliere una appropriata profilassi delle infezioni e per una loro gestione. Le linee guida sono nazionali, non sempre universalmente applicabili, e basate su opinioni di esperti che raccomandano una profilassi infettiva in specifiche circostanze. Altre evidenze derivano dai trial clinici e da revisioni della letteratura. Di seguito riportiamo alcuni aspetti chiave che dovrebbero essere considerati, basandoci sulle evidenze scientifiche disponibili, sul giudizio di esperti e sulla nostra esperienza clinica (Pagano L et al, 2017; Hallek M et al, 2018; Tadmor T et al, 2018; Reinwald M et al, 2018; Maschmeyer G et al, 2019; Zinzani PL et al, 2019; Cuneo A et al, 2019; Eichhorst B et al, 2021; NCCN Guidelines for CLL/SLL, 2022).
In corso di chemio-immunoterapia
Inizialmente negli studi con mAb non veniva utilizzata di routine una profilassi antivirale e antimicrobica. Attualmente invece, le linee guida (Hallek M et al, 2018) raccomandano di valutare lo stato sierologico per HBV (HBsAg, HBsAb, HBcAb e, in caso di positività di HBsAg e/o HbcAb, la ricerca di HBV-DNA), HCV (anticorpi anti-HCV, in caso di positività HCV-RNA) e HIV (anticorpi anti-HIV, in caso di positività HIV-RNA) e in caso di positività di indirizzare il paziente allo specialista infettivologo di riferimento, prima di iniziare un trattamento antivirale. I pazienti con pregresso contatto con HBV (HBsAg-, HBcAb+ e HBsAb+) dovranno ricevere una profilassi da almeno 10 giorni prima e fino a 6-12 mesi dal termine del trattamento (Riedell P e Carson KR, 2014; NCCN Guidelines for CLL/SLL, 2022). In presenza di HBsAg+ e replicazione virale attiva il paziente dovrà iniziare una terapia pre-emptive prima di iniziare la terapia con mAb e sino a 6-12 mesi dalla fine del trattamento (Randhawa JK e Ferrajoli A, 2016; Tadmor T et al, 2018; Eichhorst B et al, 2021; NCCN Guidelines for CLL/SLL, 2022). Entecavir viene preferito dalle linee guida americane come profilassi, in quanto la lamivudina sembra associarsi allo sviluppo di resistenze. Per il trattamento, altre alternative sono adefovir, telbivudina e tenofovir (NCCN Guidelines for CLL/SLL, 2022).
Per i pazienti giovani (<65 anni) che ricevono fludarabina non è raccomandata una profilassi anti-infettiva di routine (Tadmor T et al, 2018). Con il regime FCR, in pazienti a rischio valutati caso per caso (pazienti neutropenici), è raccomandata una profilassi per P. jirovecii con trimetoprim-sulfametossazolo e per HSV con aciclovir (Tadmor T et al, 2018).
Per il trattamento con bendamustina non è in generale raccomandata di routine una profilassi infettiva, ma potrebbe essere considerata nei pazienti precedentemente esposti ad analoghi purinici, eventualmente basandosi sulla conta delle cellule T CD4 da monitorare ogni 2 mesi e iniziando una profilassi per P. jirovecii nei pazienti con una conta < 200/μl, durante e dopo la terapia con bendamustina (Tadmor T et al, 2018).
In corso di terapie target
Per quanto riguarda i pazienti in terapia con ibrutinib e idelalisib, inizialmente ci si era basati su fattori di rischio individuali per effettuare una profilassi antivirale e antimicrobica (Giridhar KV et al, 2017; de Weerdt I et al, 2017). Sono state successivamente pubblicate le linee guida della Società Italiana di Ematologia (SIE) (Zinzani PL et al, 2019) per il controllo delle infezioni nei pazienti in trattamento con ibrutinib e idelalisib. In generale, le linee guida attuali non raccomandano uniformemente una profilassi di routine per tutti i pazienti in terapia con BTKi, ma raccomandano uno stretto monitoraggio delle infezioni, anche opportunistiche, per gestirle precocemente al meglio (Tadmor T et al, 2018; Eichhorst B et al, 2021; NCCN Guidelines for CLL/SLL, 2022).
Secondo le linee guida della Società Italiana di Ematologia (SIE) (Zinzani PL et al, 2019), la profilassi con aciclovir, per prevenire la riattivazione di VZV e di HSV nei pazienti in terapia con ibrutinib, dovrebbe essere effettuata nei pazienti con storia di episodi ricorrenti di VZV o un episodio di HSV negli ultimi 12 mesi.
Secondo alcune linee guida nei pazienti in terapia con BTKi va considerata una profilassi per PJP nei pazienti che presentano condizioni di rischio per infezioni opportunistiche, quali neutropenia, trattamenti steroidei prolungati per più di 3-4 settimane, o in presenza di fattori di rischio che possono diminuire l’immunità T cellulare (Lee R et al, 2017; Maschmeyer G et al, 2019; NCCN Guidelines for CLL/SLL, 2022). Secondo alcuni autori è invece preferibile effettuare di routine una profilassi per P. jirovecii in tutti i pazienti con LLC R/R in terapia con ibrutinib. Secondo altri è preferibile eseguirla anche nei pazienti mai trattati che iniziano ibrutinib (Brown JR, 2018).
La Nota Informativa Importante AIFA del 17/07/2017 riporta le raccomandazioni per minimizzare il rischio di riattivazione di HBV nei pazienti in terapia con ibrutinib. Le indicazioni di monitoraggio di HBV, HCV, HIV sopra riportate per i mAb, valgono anche per i BTKi e in generale per le nuove terapie target. Mentre appare ragionevole attuare una profilassi per i pazienti R/R, non ci sono ancora chiare evidenze che sia necessario utilizzare una profilassi antivirale anti-HBV in pazienti di prima linea trattati con ibrutinib o venetoclax. Inoltre, è possibile che per i pazienti con pregresso contatto con HBV (HBsAg-, HBcAb+ e HBsAb+, con HBV DNA non rilevabile) la scelta di una vigilanza attiva sia una scelta ragionevole ed eviti una profilassi antivirale per periodi molto lunghi (Innocenti I et al, 2019; Tedeschi A et al, 2017).
Benché siano stati descritti solo pochi casi di infezione/riattivazione da Mycobacterium tubercolosis nei pazienti in terapia con ibrutinib o idelalisib (Zinzani PL et al, 2019) uno screening specifico e il trattamento dell’infezione latente sono strategie importanti per i pazienti ad alto rischio di sviluppare tubercolosi attiva. Si raccomanda pertanto uno screening con IFN-γ-release assays (IGRAs, noto anche come Quantiferon test) o il tuberculin skin testing (TST) o una combinazione dei due test per individuare una infezione latente in tutti i pazienti prima di iniziare ibrutinib o idelalisib, nelle regioni ad alta prevalenza di tubercolosi (Zinzani PL et al, 2019).
Ogni paziente in terapia con ibrutinib o idelalisib che si presenta con il sospetto di polmonite o di infezione sistemica dovrebbe essere sottoposto ad un workup infettivologico completo per la valutazione delle infezioni opportunistiche (Brown JR, 2018; Zinzani PL et al, 2019). La diagnosi precoce di una IFI permette di cambiare la strategia terapeutica e quindi la prognosi del paziente; le linee guida per le infezioni invasive da Aspergillo non prevedono uno screening per le localizzazioni al SNC nei pazienti asintomatici ma, in considerazione della elevata mortalità della aspergillosi localizzata al SNC, tale screening va sempre attuato secondo alcuni autori (Pouvaret A et al, 2019). Le linee guida, peraltro, raccomandano la biopsia di lesioni polmonari o sinusali se vi è un sospetto di lesioni cerebrali di natura fungina. Data l’elevata mortalità delle infezioni fungine e l’emergenza di infezioni fungine con localizzazioni atipiche nei pazienti in terapia con ibrutinib, il principio della parsimonia nelle indagini diagnostiche potrebbe non essere vincente in questo contesto (Pouvaret A et al, 2019). In genere, se un paziente si presenta con febbre di nuova insorgenza ed è ospedalizzato, è preferibile sospendere ibrutinib finché venga stabilita una diagnosi e il paziente non presenti un chiaro miglioramento. Nei pazienti in cui si verifica un evento infettivo in corso di terapia con ibrutinib e il farmaco viene sospeso, non è chiaro se il farmaco possa poi essere ripreso. In alcuni pazienti la ripresa di ibrutinib può portare allo sviluppo di polmonite infiammatoria ricorrente. Nella maggior parte dei pazienti che presentano una polmonite batterica tipica o polmonite virale, comunque, ibrutinib può essere ripreso una volta che il paziente sia guarito. Una eccezione può essere rappresentata dai pazienti che sviluppano una IFI durante la terapia con ibrutinib.
Ibrutinib ha una notevole interazione sia con il voriconazolo che con il posaconazolo. La terapia alternativa con isavuconazolo ha meno interazioni importanti con altri farmaci ma tale farmaco è stato sino ad ora meno utilizzato. Questi pazienti spesso hanno necessità di interrompere ibrutinib per un lungo periodo di tempo, per permettere un pieno controllo dell’infezione (Brown JR, 2018). Risulta difficile raccomandare una profilassi antifungina sistematica in tutti i pazienti, in considerazione della durata della terapia con ibrutinib e delle interazioni con il citocromo CYP3A4 da parte degli azoli (Brown JR, 2018); è necessaria però una maggiore consapevolezza riguardo al potenziale rischio di IFI dopo l’inizio della terapia con ibrutinib, soprattutto nei pazienti con fattori di rischio associati (Ghez D et al, 2018). La neutropenia deve essere considerata un fattore di rischio particolarmente importante. Devono essere evitate inoltre situazioni di rischio particolare per le infezioni fungine quali il contatto con uccelli (Baron M et al, 2017). Potrebbe essere utile effettuare il test per la ricerca dell’antigene criptococcico nei pazienti affetti da condizioni acute (Stankowicz M et al, 2019).
Senza dubbio tutti i pazienti che iniziano una terapia con ibrutinib necessitano di una gestione appropriata per diminuire il rischio e le conseguenze di infezioni maggiori. Questi pazienti richiedono un’educazione mirata sulle precauzioni da adottare per le infezioni, comprese la profilassi e le appropriate vaccinazioni e la necessità di una terapia precoce in caso di episodi infettivi (Williams AM et al, 2018).
La Nota Informativa Importante AIFA del 23/03/2016 riporta le raccomandazioni per minimizzare il rischio di infezioni gravi e fatali nei pazienti in terapia con idelalisib. Nel 2019 è stato pubblicato un Documento di Consenso frutto di alcuni meeting avvenuti nel 2017. Un gruppo di esperti ha formulato risposte a domande chiave sulla gestione clinica dei pazienti in terapia con idelalisib, in relazione ai 4 principali eventi avversi: diarrea/colite, transaminite, pneumonitis e complicanze infettive. Sono state formulate raccomandazioni che possono aiutare l’ematologo a minimizzare gli eventi avversi infettivi con particolare attenzione ad HBV, HCV, CMV, P. jirovecii, Mycobacterium tubercolosis (Cuneo A et al, 2019). Secondo le linee guida della Società Italiana di Ematologia (SIE) (Zinzani PL et al, 2019), la profilassi per i pazienti in terapia con idelalisib deve comprendere aciclovir nei pazienti con storia di episodi ricorrenti di VZV o un episodio di HSV negli ultimi 12 mesi. Anche i pazienti che devono intraprendere un nuovo trattamento con idelalisib dovrebbero essere sottoposti a screening per l’epatite B prima di iniziare il trattamento (Buensalido JA e Chandrasekar PH, 2014) e gestiti come i pazienti in terapia con ibrutinib (Zinzani PL et al, 2019). Per quanto riguarda idelalisib, le linee guida raccomandando in modo uniforme una profilassi per PJP; idelalsib va sospeso in caso di sospetta PJP e sospeso permanentemente se la diagnosi è confermata. E’ inoltre raccomandata una stretta vigilanza per la riattivazione di CMV (Tadmor T et al, 2018; Eichhorst B et al, 2021; NCCN Guidelines for CLL/SLL, 2022). Idelalisib è in parte metabolizzato dal CYP3A, pertanto la scheda tecnica dovrebbe sempre essere consultata per la co-somministrazione della profilassi infettiva con agenti che sono substrati di CYP3A (Tadmor T et al, 2018).
Per quanto riguarda venetoclax si può considerare una profilassi con fluorochinoloni e antifungina durante il periodo di neutropenia (NCCN Guidelines for CLL/SLL, 2022).
Terapia di supporto con Immunoglobuline endovena (IVIG)
Per quanto riguarda la terapia sostitutiva con immunoglobuline (Immunoglobulin Replacement Therapy, IgR) nei pazienti con ipogammaglobulinemia e storia di infezioni, 6 studi randomizzati hanno dimostrato che l’uso profilattico di immunoglobuline per via endovenosa (intravenous immunoglobulin, IVIG) diminuisce il tasso di infezioni batteriche e prolunga il tempo alla prima infezione, ma non determina differenze nella sopravvivenza (Sanchez-Ramon S et al, 2016). L’efficacia di tale terapia è scarsa, i costi elevati. Come dimostrato da una survey internazionale (Na I et al, 2019) circa il 30% dei pazienti con LLC ricevono una IgR ad un certo punto della loro storia clinica, proporzione simile a quella dei pazienti con altre neoplasie ematologiche. C’è però molta eterogeneità nella pratica clinica e le linee guida variano da nazione a nazione (Patel SY et al, 2019; Raanani P et al, 2008). Nella pratica clinica, l’uso di IVIG non può essere raccomandato di routine, ma dovrebbe essere riservato a situazioni individuali di ipogammaglobulinemia con infezioni ripetute, soprattutto nei mesi invernali, al dosaggio di 0,5 g/kg/mese (Randhawa JK e Ferrajoli A, 2016; Friman V et al, 2016; Visentin A et al, 2015; Eichhorst B et al, 2021). Una valutazione immune che comprenda anche il titolo anticorpale in risposta ai vaccini – come già avviene per i pazienti con immunodeficienza primaria – potrebbe identificare i pazienti con LLC più a rischio di infezioni gravi, che potrebbero trarre beneficio dalla IgR. Va menzionata anche la formulazione sottocutanea (subcutaneous immunoglobulin, SCIG), disponibile per la IgR. Le SCIG comportano un minor rischio di reazioni di infusione, di meningite asettica, di disfunzione renale e di iper-coagulabilità, e non richiedono un personale in grado di ottenere un accesso venoso. Le SCIG possono essere facilmente somministrate a domicilio, consentendo una maggiore autonomia del paziente (Mustafa SS et al, 2021). Sono ancora pochi i dati sull’uso della SCIG nei pazienti con LLC (Compagno N et al, 2014; Innocenti I et al, 2022).
Vaccinazioni
Non ci sono purtroppo studi randomizzati che dimostrano che la vaccinazione modifichi il tasso di infezioni o il loro outcome nella LLC (Eichhorst B et al, 2021).
Devono essere evitati tutti i vaccini vivi (NCCN Guidelines for CLL/SLL, 2022) come il vaccino influenzale vivo attenutato (LAIV), Measles Mumps Rubella (MMR), Varicella e Zoster attenuato, dal momento che possono verificarsi complicanze gravi o fatali (Randhawa JK e Ferrajoli A, 2016; Sanchez-Ramon S et al, 2016).
L’uso di vaccini inattivati o semisintetici con proteine ricombinanti (anti-influenzale, anti-pneumococco, anti-meningococco C) o ottenuti con tecniche di biologia molecolare (anti-HBV o anti-tetano), non è controindicato neanche durante il trattamento con i nuovi farmaci orali quali ibrutinib, idelalisib o venetoclax. I vaccini coniugati, in particolare, sono altamente immunogenici e sono da preferirsi quando disponibili, nei pazienti con CLL.
Le vaccinazioni dovrebbero essere effettuate se possibile prima del trattamento. Nei pazienti che hanno ricevuto mAb anti-CD20 il recupero delle cellule B avviene dopo circa 9 mesi e prima di tale recupero i pazienti non rispondono ai vaccini. Pertanto, secondo le linee guida NCCN se i vaccini sono somministrati prima di questi 9 mesi è come se i pazienti non fossero vaccinati (NCCN Guidelines for CLL/SLL, 2022). Secondo le linee guida ECIL tutti i vaccini inattivati dovrebbero essere somministrati almeno 3–6 mesi dopo la fine del trattamento (almeno 6 mesi dopo l’ultima dose di rituximab) (Mikulska M et al, 2019).
Dato che la risposta ai vaccini è ritenuta nulla durante il trattamento con rituximab e fino a 6-9 mesi dopo, è necessario mettere in atto altre misure protettive durante il trattamento con rituximab e nei mesi successivi (Mikulska M et al, 2019). La conta linfocitaria e il livello di immunoglobuline possono aiutare a valutare il recupero immunologico (Mikulska M et al, 2019).
La vaccinazione per l’influenza stagionale e contro H1N1 è in genere efficace e raccomandata nei pazienti con LLC, data la gravità dell’influenza e di H1N1 nei pazienti immunocompromessi con LLC (van der Velden AM et al, 2001; Tsigrelis C e Ljungman P, 2016). Il gruppo ECIL (Mikulska M et al, 2019) raccomanda che i pazienti con LLC ricevano una dose singola annuale di vaccino influenzale inattivato (inactivated influenza vaccine, IIV). Purtroppo, la risposta al IIV è di solito bassa (5–30%), eccetto per i pazienti treatment-naïve (68–92%). Anche i pazienti in ibrutinib presentano una risposta scarsa (Mikulska M et al, 2019). In uno studio sul vaccino influenzale in 19 pazienti in monoterapia con ibrutinib è stata messa in luce una siero-conversione nel 26% dei pazienti nei confronti di almeno un ceppo. Uno studio successivo su 13 pazienti con LLC recidivata in ibrutinib con una mediana di trattamento di 7,5 mesi non ha rilevata invece alcuna risposta al vaccino influenzale. Questo suggerisce che sia meglio vaccinare i pazienti prima del trattamento con ibrutinib (Brown JR, 2018). Se ciò non è possibile, è comunque preferibile vaccinare i pazienti, anche in corso di terapia con ibrutinib, dal momento che anche una minima risposta è comunque utile (Brown JR, 2018).
In considerazione del rischio elevato di infezioni da microrganismi capsulati, negli Stati Uniti e in Europa è raccomandato che i pazienti con LLC siano vaccinati nei confronti di S. pneumoniae e H. influenzae tipo b (Hib) (Pasiarski M et al, 2014) ed eventualmente anche Meningococco.
Esistono due tipi di vaccino per S. pneumoniae: vaccino polisaccaridico (pneumococcal polysaccharide 23-valent vaccine, PPSV23) e vaccino coniugato (pneumococcal conjugate vaccine, PCV). I pazienti con LLC sono un gruppo noto per una risposta scadente ai vaccini polisaccaridici, ma gli studi comparativi con i vaccini coniugati sono scarsi. Uno studio di Svensson et al. (Svensson T et al, 2018) ha confrontato la risposta immune ottenuta con un vaccino coniugato 13-valente (PCV13) con quella ottenuta con un vaccino polisaccaridico 23-valente (PPSV23), in pazienti con LLC mai trattati; fattori predittivi negativi per la risposta alla vaccinazione erano l’ipogammaglobulinemia e una lunga durata di malattia. Entrambi i vaccini sono stati ben tollerati. Nei pazienti con LLC mai trattata l’efficacia di PCV13 in termini di risposta immune è superiore a quella di PPSV23 per la maggior parte dei sierotipi comuni ai due vaccini. PCV-13 è più immunogenico di PPSV23 a causa della riposta T dipendente indotta dalla coniugazione con la proteina difterica CRM197 (Mikulska M et al, 2019). La risposta a PPSV23 nei pazienti con LLC è bassa (0–21%), e migliore negli stadi iniziali della malattia. La risposta a una dose di PCV è del 20%, quindi generalmente migliore, e del 58% nei pazienti treatment-naïve o negli stadi iniziali di malattia, ma la durata della protezione non è nota. In 4 pazienti in trattamento con ibrutinib non vi è stata alcuna risposta (Andrick B et al, 2017). Generalmente, pertanto, viene raccomandata la vaccinazione prima del trattamento, di tipo sequenziale, iniziando con PCV seguito da PPSV23 (dopo circa 8 settimane), quest’ultimo da ripetere dopo 5 anni (Mikulska M et al, 2019). Per i pazienti in trattamento, il ciclo vaccinale si completa dopo 3 mesi dalla fine del trattamento (6 mesi se vengono somministrati anti-CD20). Le line guida NCCN (NCCN Guidelines for CLL/SLL, 2022) raccomandano la vaccinazione con PPSV23 ogni 5 anni.
Anche la risposta al vaccino per Hib è bassa, circa 25%, e migliore in caso di malattia in stadio iniziale, livello normale di immunoglobuline ed età inferiore.
I pazienti con LLC hanno un rischio aumentato di Herpes Zoster, anche in considerazione dell’età. Il vaccino vivo attenuato per lo Zoster è controindicato (Mikulska M et al, 2019). Il vaccino a subunità (ricombinante adiuvato) è da poco disponibile anche in Italia per i pazienti con più di 50 anni e con più di 18 anni e patologie onco-ematologiche, immunodepressione, trapianto. Alcune recenti pubblicazioni ne riportano l’efficacia in pazienti con LLC (Pleyer C et al, 2021; Zent CS et al, 2021; Muchtar E et al, 2022; Mikulska M et al, 2019). Le line guida NCCN (NCCN Guidelines for CLL/SLL, 2022) raccomandano il vaccino ricombinante adiuvato per lo Zoster per i pazienti mai trattati o in terapia con BTKi.
Alcuni esperti raccomandano anche la vaccinazione anti-HBV (Paulsen MR et al, 2021).
In conclusione, quindi, per i pazienti con LLC – quando possibile e dopo una attenta valutazione del rapporto rischio/beneficio – si dovrebbe cercare di posticipare l’inizio del trattamento, per effettuare le principali vaccinazioni. Inoltre, la persistenza della risposta vaccinale una volta che il trattamento è iniziato, non è nota. Per questo motivo, al termine del trattamento, la storia vaccinale dovrebbe essere rivalutata, per pianificare un programma vaccinale individualizzato in base all’età, alle comorbidità e alle raccomandazioni nazionali. I titoli anticorpali specifici possono aiutare durante questa fase per disegnare un programma individualizzato (Mikulska M et al, 2019).
COVID-19 e LLC
E’ doveroso dedicare uno spazio alla malattia COVID-19, che ha coinvolto tutto il mondo negli ultimi 2 anni ed ha avuto un enorme impatto anche sulla gestione dei pazienti con LLC.
In Italia l’incidenza cumulativa di COVID-19 nei pazienti con LLC in un anno è stata circa del 3%, simile a quella della popolazione generale nel medesimo periodo, come riportato dalla recente survey italiana del Campus CLL (Cuneo A et al, 2021). Ampi studi retrospettivi hanno documentato una più elevata mortalità nei pazienti con LLC ospedalizzati per COVID-19 grave, rispetto alla popolazione generale. Nella coorte di 46 pazienti italiani descritta inizialmente dal Campus CLL (Cuneo A et al, 2020) il tasso di mortalità era del 30,4%. A seguire, il gruppo ERIC (the European Research Initiative on CLL) in collaborazione con il Campus CLL ha riportato i dati di 190 pazienti con LLC ospedalizzati per COVID-19 (Scarfò L et al, 2020). Il tasso di mortalità è risultato analogamente alto, raggiungendo il 32,5%. Dato il protrarsi della pandemia, i gruppi ERIC e Campus CLL hanno ampliato la coorte retrospettiva multicentrica di pazienti affetti da COVID-19, hanno rivalutato i fattori di rischio per la mortalità da COVID-19 e hanno cercato di chiarire l’impatto dei trattamenti per la LLC (Chatzikonstantinou T et al, 2021b). Erano stati riportati, infatti, dati contrastanti sui farmaci per il trattamento della LLC: alcuni studi suggerivano un potenziale beneficio dei BTKi, in grado di ridurre le riposte iperinfiammatorie. A questo proposito sono in corso trial clinici prospettici (Vitale C et al, 2021). Nella coorte ERIC-CLL Campus (Chatzikonstantinou T et al, 2021b) sono stati inclusi 941 pazienti con LLC e COVID-19, dall’inizio della pandemia fino a marzo 2021, con una analisi di OS effettuata solo sui pazienti con COVID-19 grave (definito come ospedalizzazione con necessità di ossigeno o ingresso in terapia intensiva). Il tasso di mortalità in questo gruppo di pazienti è risultato del 38,4%. L’OS era inferiore per i pazienti in tutte le categorie di trattamento, rispetto ai non trattati che avevano un minor rischio di morte. Il rischio di morte era più alto nei pazienti più anziani e con insufficienza cardiaca (Chatzikonstantinou T et al, 2021b).
Roeker et al. (Roeker LE et al, 2021a) ha recentemente riportato un aggiornamento di uno studio internazionale su 374 pazienti con LLC e COVID-19 (Herishanu Y et al, 2021b). Il tasso di mortalità rimaneva alto (28%), ma sembrava essere sceso da un 35% nella prima coorte (diagnosi di COVID-19 prima di maggio 2020) a un 11% nella coorte successiva (diagnosi dopo maggio 2020). Una possibile spiegazione è che la seconda coorte includesse una maggiore proporzione di pazienti con sintomi lievi, diagnosticati a causa di una maggiore consapevolezza del COVID-19. Una altra possibilità è una migliore gestione dei pazienti dovuta ad una maggiore esperienza, a più opzioni terapeutiche e ad una migliore capacità dei sistemi sanitari di gestire l’afflusso di pazienti (Roeker LE et al, 2021a).
Le strategie terapeutiche attuali per la gestione del COVID-19 includono 3 modalità: agenti antivirali per prevenire la replicazione del virus; immunomodulatori per attenuare la risposta disregolata dell’ospite che si accompagna alla malattia grave, e trombo-profilassi per mitigare la predisposizione all’iper-coagulabilità dei pazienti con COVID-19. Un beneficio di OS si osservava nei pazienti con LLC trattati con remdesivir e plasma iperimmune. I corticosteroidi sembravano invece associati ad un amentato rischio di morte nei pazienti con LLC e ad un maggior rischio di infezioni secondarie, al contrario di quanto riportato nel RECOVERY trial (Horby P et al, 2021) in cui il desametazone migliorava la sopravvivenza dei pazienti non affetti da LLC, ospedalizzati in supporto respiratorio. E’ possibile che l’alterata reazione immune dei pazienti con LLC moderi le reazioni iperinfiammatorie al COVID-19, rendendo gli effetti benefici degli steroidi in qualche modo ridondanti in questa categoria di pazienti fragili. Numerosi agenti singoli o cocktail di anticorpi monoclonali (mAbs) anti SARS-CoV-2 sono stati autorizzati nei pazienti non ospedalizzati con COVID-19 lieve o moderato. Non è noto se il loro utilizzo nella seconda coorte di pazienti possa aver contribuito ad un miglior outcome (Roeker LE et al, 2021a).
Dopo la fase acuta dell’infezione da SARS-CoV-2 la sieroconversione avviene in quasi tutti i soggetti immunocompetenti, mentre è stata documentata solo nel 60% dei pazienti con LLC. Inoltre, i pazienti con LLC possono sviluppare una infezione persistente, a causa della loro inabilità a eradicare in modo efficace il virus. In tali casi, una prolungata diffusione del virus SARS-CoV-2 e l’evoluzione genomica all’interno dell’ospite può portare all’emergenza di nuove varianti virali (Herishanu Y et al, 2021b).
Per i pazienti con LLC, ridurre il numero delle visite ospedaliere, ritardare i trattamenti quando possibile e utilizzare terapie orali sono state le strategie principali di gestione durante la pandemia (Chatzikonstantinou T et al, 2021a). Nel report italiano del CLL Campus del 2021 (Cuneo A et al, 2021) risultava che nel 55% dei centri la pandemia non ha determinato un impatto significativo sulle scelte di trattamento per i pazienti con LLC, anche per un adattamento dell’organizzazione ospedaliera, che ha permesso un accesso sicuro alle strutture assistenziali da parte dei pazienti. Ulteriori studi sono necessari per determinare le strategie migliori per la gestione del COVID-19 nei pazienti con LLC, per l’identificazione dei pazienti in cui la terapia per la LLC può essere posticipata in sicurezza e per il miglioramento degli algoritmi terapeutici (Chatzikonstantinou T et al, 2021a).
Attualmente, la vaccinazione per il COVID-19 è raccomandata per tutti i pazienti con LLC (NCCN Guidelines for CLL/SLL, 2022). Il comitato NCCN supporta, nei pazienti con neoplasie, l’uso di qualsiasi vaccino approvato da FDA e EMA, ma con una forte preferenza per i vaccini a mRNA. Data la disponibilità di vaccini sicuri, si raccomanda di eseguire anche la terza dose e la dose booster (NCCN Guidelines for CLL/SLL, 2022; Herishanu Y et al, 2021a). Purtroppo, i pazienti affetti da LLC anche dopo l’infezione con SARS-CoV-2 presentano una scarsa risposta anticorpale protettiva e questo li pone a rischio di sviluppare nuovamente l’infezione e giustifica la vaccinazione anche di tutti i pazienti con LLC che hanno avuto il COVID-19 (Herishanu Y et al, 2021a). I risultati disponibili per i vaccini contro SARS-CoV-2 mostrano una risposta immune sierologica solo nel 40% dei pazienti con LLC, con effetto negativo legato alle terapie recenti (con o senza anti-CD20), all’età più avanzata e all’ipogammaglobulinemia (Chatzikonstantinou T et al, 2021a). Dati iniziali suggeriscono che la risposta protettiva anticorpale al vaccino per COVID-19 è ulteriormente influenzata dall’attività di malattia (Herishanu Y et al, 2021a; Terpos E et al, 2021; Parry H et al, 2022). Risposte umorali più elevate sono state osservate in pazienti con LLC in remissione dopo il trattamento. Pazienti treatment-naïve presentavano una risposta inferiore, mentre solo una minoranza di pazienti in trattamento attivo presenta una risposta al vaccino (Herishanu Y et al, 2021a). Le differenze nelle raccomandazioni sulla interruzione dei trattamenti per la LLC prima e dopo la vaccinazione per COVID-19, riportate nella survey italiana (Cuneo A et al, 2021), riflettono le incertezze della comunità scientifica e la necessità di raccomandazioni evidence‐based. I dati fino ad ora a disposizione (Roeker LE et al, 2021b; Herishanu Y et al, 2021a) sottolineano la necessità di pianificare la vaccinazione idealmente in un periodo treatment-free e di mantenere una continua vigilanza sulle misure di controllo dell’infezione (Terpos E et al, 2021): uso di mascherina, distanziamento sociale, igiene accurata delle mani. La correlazione, se esiste, tra il titolo anticorpale contro la proteina spike e l’immunità protettiva nei pazienti con LLC non è stata stabilita e la durata della protezione vaccinale non è nota. Per questo motivo non è possibile fare raccomandazioni sul dosaggio del titolo anticorpale e su misure conseguenti a tale dosaggio. Inoltre, non sono disponibili test per valutare l’immunità cellulare dopo il vaccino per COVID-19 (NCCN Guidelines for CLL/SLL, 2022; Mellinghoff SC, et al, 2021). La vaccinazione viene raccomandata anche per i caregivers, i familiari e contatti stretti, per aumentare la protezione dei pazienti (NCCN: Cancer and COVID-19 Vaccination). Dal momento che la pandemia di COVID-19 persiste e sembra lontana dalla risoluzione e poiché il virus continua a mutare, sono necessari ampi studi prospettici ben disegnati sull’andamento clinico, sull’outcome, sull’efficacia di specifiche terapie e sulle tempistiche di vaccinazione nei pazienti con LLC e COVID-19 (Chatzikonstantinou T et al, 2021a).
Conclusioni
Un migliore comprensione della biologia della LLC ha condotto allo sviluppo di nuove strategie terapeutiche che sono in grado non solo di agire contro le cellule B patologiche ma anche riattivare e aumentare la risposta immune antitumorale del paziente stesso. Studi di frontiera stanno valutando nuove strategie vaccinali basate sull’individuazione di antigeni tumorali (ad esempio il CD200) quali eccellenti candidati per lo sviluppo di vaccini antitumorali (Zhu F et al, 2018). E’ possibile che un approccio terapeutico combinato, con farmaci in grado di agire contro le cellule B patologiche da un lato, e farmaci in grado di ristabilire la funzione immunitaria dall’altro, rappresenti la strategia terapeutica del futuro per i pazienti con LLC (Moreno C et al, 2021). Sono necessari ulteriori studi per chiarire in modo ampio e dettagliato le dinamiche del sistema immunitario nel suo complesso nella CLL e nei pazienti in trattamento, per chiarire il ruolo delle differenti terapie e delle diverse cellule coinvolte nella malattia, per applicare strategie terapeutiche che siano in grado di ristabilire la competenza immune del paziente sia verso la sorveglianza anti-tumorale che verso le risposte immunitarie agli agenti esterni. Comprendere come le cellule T e B interagiscono per creare un ambiente pro-tumorale è essenziale perché i trattamenti siano davvero efficaci. Comprendere il ruolo di tutti gli attori del sistema immunitario nella LLC e di come i diversi trattamenti possano influenzarli avrà un impatto diretto nel successo della gestione della malattia. In questo modo, innanzi tutto sarà possibile evitare terapie che impattano negativamente sulla funzione immune, come le chemioterapie. In secondo luogo, sarà possibile ridurre le manifestazioni cliniche legate alla disfunzione immunitaria, non solo le infezioni ma anche l’autoimmunità e le seconde neoplasie. In terzo luogo, sarà possibile disegnare terapie di combinazione per raggiungere risposte profonde e durature sul clone leucemico. Infine, sarà possibile ricorrere a strategie terapeutiche di nuova generazione, soprattutto immunoterapie e terapie cellulari, sino ad ora poco efficaci nella LLC, proprio a causa della disfunzione immunitaria dei pazienti (Moreno C et al, 2021).
Nel 2018 l’International Workshop on Chronic Lymphocytic Leukemia (iwCLL) ha valutato e revisionato le linee guida del 2008 (Hallek M et al, 2018); è stato introdotto un breve aggiornamento sulla valutazione iniziale e sulla profilassi delle complicanze infettive prima e durante la terapia della LLC. Un breve paragrafo è dedicato alle complicanze infettive anche nelle nuove linee guida ESMO (Eichhorst B et al, 2021).
Con l’avvento delle nuove terapie e con il prolungamento della sopravvivenza dei pazienti affetti da LLC ci si deve interfacciare con nuove sfide cliniche (Routledge DJM e Bloor AJC, 2016). Sono necessari studi prospettici per definire la terapia di supporto e la migliore profilassi antinfettiva da associare ai nuovi farmaci.
Con l’evoluzione delle strategie terapeutiche per la LLC (Hallek M, 2017) anche le terapie di supporto dovranno essere adattate in modo sartoriale al singolo paziente. Vi è al tempo stesso un urgente bisogno di linee guida che non solo si basino sui risultati dei trial ma comprendano dati tratti dalla pratica clinica e tengano conto degli outcome riportati dai pazienti, sia in termini di efficacia che di tossicità (Randhawa JK e Ferrajoli A, 2016; Molica S, 2017; Iskierka-Jażdżewska E, Robak T, 2019).
BIBLIOGRAFIA
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