Clinical news from ASH 2011: Leucemia mieloide acuta
Felicetto Ferrara, Piera Angelillo
Divisione di Ematologia con Trapianto di Cellule Staminali Emopoietiche, Ospedale “A. Cardarelli”, Napoli
I risultati terapeutici nella leucemia mieloide acuta (LAM) sono sicuramente migliorati negli ultimi 20-25 anni, soprattutto nei pazienti giovani adulti. E’ da rilevare però che, a differenza di quanto avvenuto per altre emopatie maligne, ciò non è dipeso dall’introduzione di nuovi farmaci, ma esclusivamente dal miglioramento delle terapie di supporto (riduzione della mortalità per infezione e/o emorragie) e dalla riduzione della mortalità correlata alla procedura di trapianto autologo ed allogenico di cellule staminali emopoietiche. Il motivo per cui la LAM rimane una emopatia estremamente difficile da trattare è soprattutto da ascriversi alla marcata eterogeneità genetica e molecolare che la caratterizza. E’ questo il motivo per cui lo sviluppo di nuovi farmaci ed algoritmi terapeutici non può prescindere dall’identificazione di sottogruppi di pazienti, selezionati principalmente in base alle loro caratteristiche prognostiche citogenetiche e bio-molecolari sulle quali basare lo sviluppo di nuovi trial clinici. Riportiamo di seguito le principali novità cliniche in tema di LAM emerse al Meeting annuale dell’ASH 2011.
Due particolari alterazioni citogenetiche, t(8;21) ed inv(16)/t(16;16), rispettivamente responsabili per la formazione dei geni di fusione RUNX1-RUNX1T1 e CBF-MYH11, identificano un subset di pazienti con LAM a prognosi favorevole (CBF-AML), con un rischio di recidiva che comunque si attesta intorno al 30-40%.
Un trial di fase II (1) condotto in Francia (French AML Intergroup) ha investigato la possibilità che l’inibitore di tirosin-chinasi dasatinib fosse in grado, come agente singolo, di prevenire recidive ematologiche in pazienti adulti con CBF-AML in prima remissione completa, ma con persistente o ricorrente malattia minima residua (MMR). Il razionale dello studio si basa sull’evidenza che nella maggioranza di questi pazienti è espresso il recettore tirosin-chinasico KIT e che mutazioni attivanti il gene KIT sono state osservate in entrambi i sottotipi di CBF-AML. Queste mutazioni sono inoltre state retrospettivamente associate ad un maggior rischio di recidiva. I criteri d’inclusione prevedevano che i pazienti, tutti già precedentemente trattati ed arruolati nello studio CBF 2006, non fossero eleggibili a trapianto allogenico ed avessero ottenuto una riduzione della MMR non superiore a 3 logaritmi prima del secondo ciclo di consolidamento (pazienti refrattari, Mol-REF) o, in alternativa, un incremento della MMR maggiore di un logaritmo in almeno due determinazioni successive (pazienti recidivanti, Mol-REL). 26 pazienti che soddisfacevano tutti i criteri sono stati arruolati tra giugno 2008 e giugno 2011 ed hanno ricevuto 140 mg/die per os di dasatinib per un periodo di 12 mesi, con un profilo di tossicità nel complesso accettabile.
Eccezion fatta per un paziente (con KIT non mutato) ancora in remissione completa dopo 929 giorni, 7 degli 8 pazienti Mol-REL arruolati sono andati incontro a recidiva ematologica precoce (media 60 giorni), mentre tra i pazienti Mol-REF (18 totali) la probabilità di remissione ematologica persistente era del 65% a 12 mesi e del 45% a 24 mesi, con un trend negativo nei pazienti con KIT mutato.
Questi dati hanno condotto alla conclusione che il dasatinib in monoterapia non costituisce una valida opzione terapeutica in questo sottogruppo di pazienti, non offrendo alcun vantaggio in termini di prolungamento della remissione ematologica rispetto ai pazienti che non ricevono alcuna ulteriore terapia.
Dati recenti suggeriscono che in pazienti giovani adulti con LAM e cariotipo normale, la mutazione NPM1, in assenza di mutazioni del gene FLT3, possa rappresentare un marker predittivo di risposta alla combinazione di acido trans-retinoico (ATRA) alla chemioterapia tradizionale.
Schlenk et al (2) hanno esplorato questa ipotesi nell’ambito del trial prospettico randomizzato controllato AMLSG 07-04, che prevedeva l’aggiunta di ATRA alla chemioterapia di induzione (45 mg/mq dal giorno 6 al giorno 8 e 15 mg/mq dal giorno 9 al giorno 21) ed a quella di consolidamento (15 mg/mq dal giorno 6 al giorno 28). Gli end point primari dello studio erano la event free survival (EFS) e la percentuale di remissioni complete (RC) dopo chemioterapia di induzione. Una mutazione di NPM1 era stata individuata in 289 dei 1112 (26%) pazienti randomizzati (562 nel braccio standard e 530 nel braccio sperimentale che prevedeva aggiunta di ATRA). I risultati ottenuti, dopo una media di 3,3 anni di follow up, hanno permesso di dimostrare un significativo aumento delle percentuali di RC ed una riduzione del rischio di recidiva in pazienti con mutazione NPM1 trattati con ATRA, indipendentemente dalla presenza di FLT3-ITD.
La conclusione del trial è che ATRA, aggiunto alla chemioterapia convenzionale, migliora significativamente sia la percentuale di RC che la EFS nei pazienti giovani adulti con LAM e mutazione di NPM1.
Burnett e collaboratori (3) hanno presentato i dati del trial randomizzato AML16, in cui pazienti anziani con LAM venivano randomizzati a ricevere o meno 3mg/mq di mylotarg al giorno 1 del primo ciclo di induzione. Il disegno dello studio prevedeva inoltre che i pazienti fossero randomizzati a ricevere due cicli di daunorubicina ed ara-C (DA) o, in alternativa, due cicli di daunorubicina e clofarabina (DClo), seguiti o meno da un terzo ciclo (DA) con o senza mantenimento con azacitidina. I risultati ottenuti hanno dimostrato che l’aggiunta di mylotarg alla chemioterapia tradizionale induce un significativo beneficio per quanto riguarda la sopravvivenza globale, con accettabile tossicità. Un risultato analogo, ma ottenuto con una schedula diversa di mylotarg (3 mg/mq nei giorni 1,4,7 in induzione e consolidamento), è stato riportato dal gruppo cooperativo francese ALFA in pazienti con LAM ed età compresa tra 50 e 70 anni (4). In questo studio, i pazienti trattati con mylotarg hanno ottenuto un significativo aumento di EFS e, a un livello inferiore, di sopravvivenza globale.
Azacitidina e decitabina sono i due farmaci che si sono dimostrati in grado di migliorare la sopravvivenza nelle sindromi mielodisplastiche (SMD) ad alto rischio e delle LAM con limitata blastosi midollare (20-30%). Riportiamo di seguito i contributi più rilevanti presentati all’ASH sull’impiego degli agenti ipometilanti nella LAM.
In un’esperienza monocentrica è stato analizzato retrospettivamente l’outcome in una coorte di pazienti anziani con LAM, suddivisi in due gruppi paragonabili per età e caratteristiche citogenetiche (5). Il primo gruppo di pazienti aveva ricevuto una chemioterapia di induzione convenzionale (5 + 7, idarubicina e citarabina), il secondo gruppo una terapia non intensiva con agenti ipometilanti (azacitidina 75 mg/mq s.c. per sette giorni ogni 28 giorni fino a progressione). Nonostante il tasso di RC e RCi fosse significativamente più elevato nel braccio intensivo (63% vs 28%, p<0.0001), dopo un follow-up mediano di 13,3 mesi dalla diagnosi, la sopravvivenza globale era comparabile tra i due bracci di trattamento (10,4 vs 10,3 mesi, p=0,3). E’ stato inoltre osservato, nel braccio AZA, un più alto tasso di remissioni parziali (25% vs 5%; p=0,02). Il dato è ovviamente ascrivibile al diverso meccanismo di azione dell’azacitidina che, rispetto alla chemioterapia convenzionale, consentirebbe un controllo della malattia senza la necessità assoluta dell’ottenimento della RC. L’ AZA potrebbe perciò rappresentare una valida alternativa alla chemioterapia convenzionale, soprattutto nei pazienti con un cariotipo sfavorevole, PS compromesso e/o comorbidità.
Risultati simili sono stati ottenuti in uno studio multicentrico da Serrano e collaboratori (6); in un’analisi retrospettiva, gli autori hanno comparato AZA alle due alternative attualmente disponibili per i pazienti anziani con LAM: chemioterapia intensiva per i pazienti considerati “fit” e best supportive care (BSC) per i pazienti frail. Dei 182 pazienti considerati in questa analisi (età mediana 70 anni), 68 avevano ricevuto AZA in prima linea per uso compassionevole, 68 erano stati trattati con chemioterapia convenzionale, mentre i restanti 46 pazienti avevano ricevuto esclusivamente terapia di supporto (terapia citoriduttiva e antibiotica, fattori di crescita e supporto trasfusionale). E’ da rilevare che i pazienti nel gruppo chemioterapia convenzionale erano significativamente più giovani e con un performance status migliore rispetto a quelli trattati con AZA o BSC. Di contro, i pazienti trattati con AZA avevano un numero di globuli bianchi e una percentuale di blasti midollari significativamente inferiore rispetto a quelli che avevano ricevuto chemioterapia intensiva. I dati ottenuti da questa analisi retrospettiva suggeriscono che AZA permette di ottenere una OS a 2 anni comparabile a quella che si osserva nei pazienti idonei a ricevere chemioterapia (18% vs 20%). L’OS a 2 anni nel gruppo BSC è stato dello 0%. Anche in questa casistica il PS è emerso come il fattore prognostico più importante.
Bories et al hanno analizzato retrospettivamente l’outcome in una serie di pazienti con LAM considerati non candidabili a ricevere una chemioterapia convenzionale, che sono stati trattati con AZA in prima linea (7). 98 pazienti sono stati inseriti nello studio, selezionati tra i 470 pazienti con più di 60 anni diagnosticati con una LAM tra giugno 2007 e dicembre 2010. L’età media di tali pazienti era di 76 anni (range 50-89), 48 pazienti (48,9%) avevano una LAM de novo, 27 una storia di SMD, 5 una storia si sindrome mieloproliferativa (SMP) e 18 una LAM therapy related. Il numero mediano di globuli bianchi in questa serie era di 2,2 x 10E9/L (da notare che solo 14 pazienti avevano alla diagnosi un numero di globuli bianchi superiore a 10 x10E9/), e la media di blasti midollari era 35% (range 20-85%). Nessuno dei pazienti aveva un cariotipo favorevole (48,9% intermedio, 44,8% sfavorevole, 6,1% non disponibile). Tutti i pazienti hanno ricevuto almeno un ciclo di AZA e sono stati considerati valutabili ai fini dello studio. La percentuale di risposta è stata del 24,5% (13 RC, 5 RCi e 6 RP). 26 pazienti che non soddisfacevano i criteri convenzionali di risposta hanno comunque ottenuto un miglioramento ematologico in almeno uno dei tre lineage. La durata mediana della remissione per pazienti che avevano ottenuto una RC è stata di 9,5 mesi. Un dato da mettere in evidenza, considerando che AZA si propone come alternativa ambulatoriale meno tossica della chemioterapia, è che 60 pazienti in corso di trattamento sono stati ricoverati per neutropenia febbrile e che la mortalità durante i primi due mesi di terapia è stata del 18,3%, dovuta a progressione di malattia nell’83% dei casi e ad infezione nel 17% dei casi. L’unico fattore prognostico che si è mostrato in grado di influenzare il tasso di risposta è stata la categoria citogenetica di rischio, con una sopravvivenza più duratura nei pazienti a cariotipo intermedio. In definitiva, l’OS è stata del 50% ad un anno e del 28% a due anni, con un prolungamento della sopravvivenza non solo in coloro che avevano ottenuto una RC o RCi, ma anche nei pazienti che avevano sperimentato solo miglioramento ematologico. Ulteriore dato, che conferma quanto già precedentemente osservato in altri studi, è che l’efficacia del farmaco aumenta all’aumentare del numero di cicli somministrati. Quanto detto avvalora l’ipotesi, da confermare alla luce di trial prospettici ben disegnati, che AZA sia una valida alternativa terapeutica per quei pazienti anziani, non leucocitosici alla diagnosi e considerati unfit per ricevere regimi chemioterapici standard.
Un altro farmaco appartenente alla classe degli ipometilanti è la 5-aza-2′-deossicitidina (DAC) che, coma la 5-azacitidina, inibisce la DNA-metiltransferasi (DNMT) ma che, a differenza di essa, viene incorporata esclusivamente nel DNA, provocando una più efficace inibizione della DNMT.
Osservazioni recenti suggeriscono che pazienti con AML/SMD esprimenti un cariotipo complesso o monosomico (MK+) mostrano una risposta incoraggiante alla decitabina. Allo scopo di confermare queste osservazioni, un’ampia coorte di pazienti anziani (> 60 anni) ineleggibili a chemioterapia di induzione, è stata trattata con DAC nel contesto di un trial multicentrico di fase II (DAC study, trial 00331) (8). Le caratteristiche dei pazienti ed i risultati ottenuti sono riassunti nella tabella 1.
Nonostante il fatto che i pazienti con cariotipo normale abbiano un outcome migliore di quelli con anomalie cromosomiche, la categoria di pazienti con monosomie singole o addirittura multiple, si è mostrata sensibile alla terapia con decitabina, a parziale conferma dei dati precedenti. Gli stessi autori hanno comunque disegnato un trial prospettico randomizzato che, studiando la stessa popolazione descritta in tabella, analizzerà ulteriormente il ruolo svolto dal MK nell’influenzare la risposta di questi pazienti alla decitabina.
E’ nostra opinione che non tutti i soggetti anziani possano trarre un reale beneficio dalla terapia con ipometilanti, ed emerge la necessità di selezionare accuratamente i pazienti prima di preferire tale approccio terapeutico agli altri attualmente disponibili. Si rende pertanto necessario individuare affidabili fattori predittivi di risposta che guidino le decisioni terapeutiche.
Tra i pazienti anziani, un discorso a parte va fatto per coloro che, in virtù delle loro comorbidità o del loro scarso PS, vengono considerati non in grado di sopportare un regime chemioterapico standard.
Una ulteriore possibilità terapeutica emersa all’ASH consiste nella possibilità di somministrare AZA in associazione con altri agenti potenzialmente efficaci nella LAM.
Uno dei tentativi fatti in questo senso è rappresentato da un trial di fase Ib/II che prevedeva la somministrazione di AZA in combinazione con everolimus, un inibitore di mTOR, in pazienti con LAM recidivata o refrattaria, monitorando i livelli circolanti di FLT3 ligando (FLT3L) (9). La presenza di FLT3-ITD è infatti uno dei principali fattori prognostici negativi nella LAM ed è stato suggerito che il ligando di FLT3, i cui livelli sierici aumentano in seguito a chemioterapia tradizionale e nei pazienti in recidiva, possa limitare l’efficacia degli inibitori di FLT3. 37 pazienti, (età mediana: 65 anni) con LAM recidivata (73%) o refrattaria (27%) dopo aver fallito 1 (n=16), 2 (n=13) o 3 (n=8) precedenti linee terapeutiche, hanno ricevuto AZA in combinazione con 2,5 mg (n=6), 5mg (n=12) o 10 mg (n=19) di everolimus. Un cariotipo sfavorevole era presente in 10/34 pazienti e FLT3-ITD in 4/16 dei pazienti valutabili. Il 32% dei pazienti ha ottenuto una risposta clinica (2 RC; 10 RP), con un overall survival (OS) mediano di 211 giorni (194 giorni nei pazienti refrattari alla prima linea e 211 giorni nei pazienti recidivati) ed una progression free survival (PFS) di 178 giorni dopo 252 giorni di follow-up mediano.
Un ulteriore tentativo di migliorare i risultati ottenibili con gli ipometilanti, è stato quello di associarli ad agenti immunomodulatori, in particolare alla lenalidomide (LEN). Gli agenti immunomodulatori sono una particolare classe di molecole attive in varie patologie ematologiche, il cui meccanismo d’azione non è stato ancora del tutto chiarito. I meccanismi che sembrano svolgere un ruolo predominante per quanto riguarda l’attività anti-tumorale di questa classe di farmaci sono tre: attività antiangiogenetica, immunomodulatoria e tumoricida.
Garcia-Manero et al (10) hanno presentato i dati della fase I del trial di fase I/II disegnato secondo un classico schema “3+3”, allo scopo di testare efficacia e sicurezza dell’associazione di 5-azacitidina e lenalidomide in pazienti di qualsiasi età con LAM o SMD ( blasti midollari > 10%) refrattarie o recidivate, ed in pazienti con più di 60 anni che non erano stati considerati eleggibili o avevano rifiutato la terapia di prima linea. AZA è stata somministrata seguendo l’unica schedula attualmente considerata efficace (75 mg/mq s.c. per sette giorni ogni 28 giorni), mentre LEN è stata somministrata a partire dal giorno 6 per 5-10 giorni. LEN è stata somministrata ai 28 pazienti registrati (età media 65 anni) a dosi variabili dai 10 ai 75 mg per 5 giorni mentre 7 pazienti hanno ricevuto una dose di 75 mg per 10 giorni. La massima dose tollerata non è stata raggiunta, non essendo stato osservato alcun evento di tossicità dose-limitante (TDL) durante i cicli di terapia (media di cicli somministrati 1,5; range 1-10). Tossicità non ematologiche comunemente riscontrate sono state astenia, perdita di appetito, stitichezza, rash cutanei, febbre e perdita di peso. La prima fase di questo studio ha dunque permesso di concludere che l’associazione AZA-LEN è sicura ed ha un profilo di tossicità accettabile in pazienti con LAM e SMD.
Similmente Ramsigh et al hanno disegnato e condotto un trial di fase 1 (11) che prevedeva la somministrazione, in questo studio simultanea, di AZA e LEN ad alte dosi (HDL) come terapia di induzione, seguita da una terapia di mantenimento meno intensiva comprendente entrambi i suddetti farmaci. La popolazione studiata includeva stavolta solo pazienti con LAM appartenenti a due categorie: pazienti non trattati con più di 60 anni e pazienti ≥ 18 anni con una malattia recidivata o refrattaria alla terapia di prima linea. I 2 cicli di induzione (28 giorni ciascuno) prevedevano la somministrazione di LEN 50 mg per os (giorni 1-28) e AZA a tre differenti dosi in tre coorti distinte di pazienti: 25 mg/mq (coorte 1), 50 mg/mq (coorte 2) e 75 mg/mq (coorte 3) somministrata ev dal giorno 1 al giorno 5. Come terapia di mantenimento, i pazienti dovevano da protocollo ricevere un totale di 12 cicli (uno ogni 28 giorni) di LEN 10 mg PO (giorni 1-28) e AZA 75 mg/mq (giorni 1-5). La popolazione in studio era rappresentata da 15 pazienti con una media di 74 anni (range 63-81); 6 anziani con una nuova diagnosi di LAM e 9 affetti da una malattia recidivata/refrattaria. Il numero di globuli bianchi variava tra 300 e 13100 μl (media 2600), con una media di blasti nel midollo di 22% (range 2-90%). 7 pazienti non avevano anomalie citogenetiche (63,6%), 3 (20%) erano portatori di una monosomia del cromosoma 7, un paziente (6,7%) esprimeva una trisomia del cromosoma 8 ed i restanti 4 pazienti avevano altre anomalie citogenetiche. La durata media della terapia è stata di 2 mesi (range 0,15-13 mesi). Per quanto riguarda il profilo di tossicità, l’unico episodio di TDL è stato rappresentato da un rash cutaneo di grado 3 occorso nella coorte 1. Tra gli effetti tossici non dose-limitanti sono stati invece riportati tossicità ematologica di grado 3/4 (54,1%); febbre neutropenica (45,4%) e astenia (63,6%). Anche questa esperienza ha dimostrato un profilo di tossicità accettabile per l’associazione AZA-LEN, aprendo la strada a successive sperimentazioni di fase II.
Alla luce di quanto detto sin ora appare probabile che importanti opportunità di sviluppo per quanto riguarda la terapia della LAM si presentino parallelamente alla sempre più frequente identificazione di marker citogenetici e molecolari. Questi ultimi hanno affinato la nostra capacità di predire in ciascun paziente sia l’outcome che la risposta a specifiche terapie e sono di stimolo e guida nello sviluppo di nuovi algoritmi terapeutici specifici per ciascun subset di pazienti.
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