CD30 e immunoterapia anti-CD30 nel Linfoma di Hodgkin

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L’identificazione e la caratterizzazione funzionale dell’antigene CD30 e i tentativi di sfruttare tale molecola come bersaglio terapeutico selettivo nel linfoma di Hodgkin (LH) hanno attraversato a più riprese gli ultimi trent’anni e solo recentemente hanno raggiunto dei risultati di notevole rilevanza e impatto sui futuri approcci terapeutici (Kumar, 2014; Vaklavas, 2012). La prima descrizione di tale antigene risale al 1982 con l’utilizzo dell’anticorpo monoclonale Ki-1, in grado di legarsi selettivamente alle cellule di Reed-Sternberg (Stein, 1985). Il successivo sviluppo di vari anticorpi monoclonali diretti contro diversi epitopi della molecola Ki-1 (Falini, 1995) (tra cui si segnala l’anticorpo Ber-H2 per la particolare capacità di legame sia in campioni in paraffina che congelati) permise di definire formalmente nel 1989 il CD30 (Schwarting, 1989), il cui clonaggio genico avvenne nel 1992 (Durkop, 1992).

Il CD30 è una proteina transmembrana di 120-kDa appartenente alla superfamiglia del TNF, il cui gene è localizzato sul cromosoma 1p36 (Vaklavas, 2012).

La molecola mostra un dominio extracellulare simile ad altri componenti della famiglia del TNF mentre il dominio intracitoplasmatico possiede delle caratteristiche peculiari con la presenza di sequenze leganti TRAFs (TNF receptor-associated factors) in grado sia di attivare il fattore di trascrizione NF-kB che d’indurre i fenomeni di apoptosi (Figura I).

Figura I. Vie di segnale attivate dal CD30 (Vaklavas, 2012).

 

Il ligando di tale antigene è il CD30L (CD153), il cui gene è presente sul cromosoma 9q33 e appartenente anch’esso alla superfamiglia del TNF. È normalmente espresso sui linfociti B e T attivati (Th1 e Th2) e a bassa intensità sui monociti e sui granulociti.

Come altri membri della famiglia del TNFR, il CD30 è anche presente in forma solubile (sCD30) con un peso di 85 kDa. Alcuni studi hanno evidenziato come elevati livelli di sCD30 circolante siano correlati, in associazione con lo stadio clinico e l’IPS, a forme di linfoma di Hodgkin ad alto rischio e con prognosi sfavorevole (Nadali, 1998; Zanotti R et al, 2002; Visco, 2006).

Il CD30 è implicato in numerosi meccanismi tra cui i processi di proliferazione e sopravvivenza cellulare, la regolazione della produzione di citochine e l’apoptosi, sebbene molti dettagli di tali azioni siano ancora da definire. Il sistema CD30-CD30L entra nel controllo di vari aspetti della risposta linfocitaria B e T e nella regolazione della sopravvivenza timocitaria come dimostrato da studi in vitro e in modelli animali (Kumar, 2014; Vaklavas, 2012).

Vari lavori hanno studiato l’espressione del CD30, sia in tessuti normali che in numerose patologie (Falini, 1995). Come precedentemente indicato, nei soggetti sani il CD30 è espresso principalmente dai linfociti B e T attivati. È inoltre presente in cellule infettate da virus come EBV, HTVL-1 e 2, HIV e HCV.

Numerose infine sono le neoplasie in cui è stata identificata l’espressione, in misura variabile, di tale antigene tra cui spiccano le patologie linfomatose:

  • linfoma di Hodgkin e linfoma anaplastico mostrano un’elevata espressione
  • DLBCL: 10-25% dei casi
  • PTCL
  • papulosi linfomatoide
  • micosi fungoide
  • linfoma T associato a enteropatia
  • leucemia/linfoma T HTLV-1 correlati
  • processi linfoproliferativi EBV correlati
  • linfoma B a grandi cellule associato a versamento pleurico
  • disordini mastocitari
  • tumori germinali del testicolo
  • carcinoma della tiroide.

Tali evidenze aprono degli interessanti scenari terapeutici, alla luce dei promettenti risultati dell’immunoterapia anti-CD30 raggiunti recentemente nel linfoma di Hodgkin.

Tentativi di sviluppare delle terapie mirate, attraverso l’utilizzo di anticorpi monoclonali anti-CD30, sono stati condotti fin dai primi anni Novanta con gli studi di Falini e collaboratori, nei quali veniva utilizzato l’anticorpo Ber-H2 radiomarcato o coniugato con l’agente citotossico saporina (Kumar, 2014).

Diversificati sono stati i successivi approcci (Tabella I):

  • Anticorpi monoclonali non coniugati:
    • MDX-060
    • SGN-30
    • XmAb2513

Approfondimento_CD30_e_anti-CD30_Tabella_1

Tabella I. Tentativi di immunoterapia anti-CD30 in epoca pre-brentuximab (Kumar, 2014).

 

Tali molecole hanno però dimostrato degli scarsi risultati clinici.

  • Anticorpi monoclonali bispecifici:
    • AFM13: legante il CD30 sulle cellule RS e il CD16 sulle cellule NK
    • H22xKi-4: legante il CD30 e il CD64 sulle cellule effettrici

I risultati clinici furono modesti.

  • Anticorpi radiomarcati:
    • 131I-Ki-4, gravato da una elevata tossicità.

 

I risultati più consistenti e promettenti in questo filone di ricerca sono stati invece raggiunti recentemente attraverso l’utilizzo di un anticorpo anti-CD30 coniugato con un veleno del fuso mitotico, il brentuximab vedotin (SGN 35) (Kumar, 2014).

 

BRENTUXIMAB VEDOTIN

 

Il brentuximab vedotin è composto da un anticorpo umanizzato IgG1 anti-CD30 (cAC-10), coniugato stabilmente a quattro molecole di un agente inibitore della tubulina, la monometil auristatina E (MMAE) (Figura II). Da un punto di vista farmacodinamico, l’anticorpo si lega al CD30, viene internalizzato e nel processo di degradazione lisosomiale libera la MMAE che agisce sul fuso mitotico con inibizione della polimerizzazione del fuso e conseguente induzione dei meccanismi di apoptosi (Figura III). Una piccola frazione della MMAE può diffondersi anche nello spazio pericellulare esercitando un’azione tossica aspecifica sulle cellule bystander.

 

Approfondimento_CD30_e_anti-CD30_Figura_2

Figura II. Struttura del brentuximab vedotin (Vaklavas, 2012).

 

Approfondimento_CD30_e_anti-CD30_Figura_3

Figura III. Meccanismo d’azione del brentuximab vedotin (Vaklavas, 2012).

 

Da un punto di vista farmacocinetico le concentrazioni maggiori di brentuximab vedotin vengono raggiunte al termine dell’infusione mentre la MMAE raggiunge la concentrazione massima dopo 1-3 giorni.

Livelli stabili del farmaco vengono raggiunti con somministrazioni ogni 3 settimane, con una emivita stimata di circa 4-6 giorni. Nel processo di eliminazione il brentuximab vedotin viene scomposto nella sua porzione anticorpale, degradata come proteina, e nella MMAE che viene metabolizzata dal citocromo CYP3A4.

Nel 2010 e 2011 sono apparsi i risultati di due studi di fase I in pazienti affetti da linfoma di Hodgkin o linfoma T ALK+ refrattari o ricaduti a precedenti varie linee di trattamento (in media tre linee di trattamenti) (Younes, 2010; Fanale, 2012).

Nel primo sono stati trattati 45 pazienti (di cui 42 con HL) con dosi di brentuximab da 0,1 a 3,6 mg/kg ogni 21 giorni (Younes, 2010). La dose terapeutica massima (MTD) è stata identificata in 1,8 mg/kg. Gli effetti avversi più frequenti sono stati astenia, febbre, diarrea, nausea, neutropenia, normalmente di grado moderato. Nel 36% dei pazienti si è inoltre riscontrata una neuropatia periferica, in genere reversibile dopo la sospensione del trattamento. I risultati sono stati particolarmente incoraggianti soprattutto tenuto conto della particolare popolazione in studio: si è registrata una risposta globale nel 50% dei casi (incluse 4 remissioni complete), con una durata di risposta mediana di 9,7 mesi e una PFS (progression-free survival) di 5,9 mesi.

Nel secondo studio sono stati arruolati 44 pazienti (38 con LH) trattati con dosi di brentuximab da 0,4 a 1,4 mg/kg con somministrazione settimanale (giorni 1, 8, 15 ogni 28 giorni) o ogni 21 giorni (Fanale, 2012). Gli effetti avversi sono stati simili al primo trial sebbene la neuropatia periferica sia stata più frequente nei pazienti con somministrazione settimanale. La MTD è stata identificata in 1,2 mg/kg. Anche in questo caso di particolare rilievo sono stati i risultati in termini di efficacia con un tasso di risposta complessiva del 59% (con 34% di risposte complete) ed una PFS di circa 7 mesi. La risposta al trattamento è risultata simile nelle due modalità di somministrazione.

Sulla base di questi brillanti risultati, ottenuti in una categoria di pazienti normalmente con limitate opzioni terapeutiche efficaci, sono quindi stati condotti due studi di fase II, uno su pazienti con LH ricaduti o refrattari e uno in pazienti con linfoma anaplastico CD30+ (Younes, 2012).

Lo studio di Younes e collaboratori, condotto su 102 pazienti con linfoma di Hodgkin recidivi/refrattari dopo trattamento con ASCT (trapianto autologo di cellule staminali) ha mostrato un tasso di risposte globali del 75%, con una percentuale di remissioni complete del 33%. La PFS mediana dopo circa 18,5 mesi di follow-up è stata di circa 5,6 mesi, che però aumenta notevolmente (20,5 mesi) se si considerano i pazienti in remissione completa.  Il farmaco è stato somministrato al dosaggio di 1,8 mg/Kg ogni 3 settimane fino ad un massimo di 16 cicli (in media 9 cicli). Dal punto di vista della tollerabilità, le principali problematiche sono state la comparsa di neuropatia periferica sensitiva, astenia e neutropenia, generalmente di grado moderato e non causa di sospensione del trattamento. Tali dati sono stati confermati anche da altri trial (Rothe, 2012; Gibb, 2013) e negli anni successivi in studi retrospettivi condotti dopo l’introduzione del brentuximab nella pratica clinica (Zinzani, 2013; Monjanel, 2014; Bartlett, 2014).

L’importanza e il rilievo dei risultati ottenuti hanno aperto un amplissimo campo di ricerca e applicazione del farmaco sia nel ambito del linfoma di Hodgkin, sia in numerose altre forme linfomatose con espressione del CD30.

Attualmente sono registrati oltre 40 trial clinici (http://clinicaltrials.gov) con oggetto di studio il brentuximab in monoterapia o in associazione con altri schemi chemioterapici, sia in ambito pediatrico che nell’adulto (Tabella II).

 

Approfondimento_CD30_e_anti-CD30_Tabella_2

Tabella II. Trial clinici con brentuximab vedotin pubblicati (Kumar, 2014).

 

Il farmaco è registrato in Italia a carico del SSN ai sensi della legge 648/96 e trova le seguenti indicazioni:

  • trattamento di pazienti adulti affetti da linfoma di Hodgkin (LH) CD30+ recidivato o refrattario:
  • in seguito a ASCT
  • o in seguito ad almeno due precedenti regimi terapeutici quando l’ASCT o la polichemioterapia non è un’opzione terapeutica
  • trattamento di pazienti adulti affetti da linfoma anaplastico a grandi cellule sistemico recidivante o refrattario.

Il lungo percorso alla ricerca di una terapia mirata nel linfoma di Hodgkin è quindi giunto con il brentuximab vedotin a rilevanti risultati che sembrano indicare nuove strategie terapeutiche future finalizzate ad un ulteriore miglioramento dei risultati.

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A cura di:

Università degli Studi di Verona, Professore Onorario di Ematologia, già Direttore della Scuola di Specializzazione in Ematologia, della UOC di Ematologia e del Dipartimento di Medicina

Giovanni Pizzolo
Giovanni Pizzolo
Università degli Studi di Verona, Professore Onorario di Ematologia, già Direttore della Scuola di Specializzazione in Ematologia, della UOC di Ematologia e del Dipartimento di Medicina
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