Aggiornamenti dall’ASH 2016. Terapia della leucemia linfatica cronica (LLC)
Anche quest’anno, nel corso del meeting dell’ASH, è stata dedicata molta attenzione agli sviluppi terapeutici nella LLC con:
– 1 sessione educazionale, incentrata sull’utilizzo delle nuove molecole già in commercio, sui risultati delle molecole in sviluppo clinico e sui fattori prognostici;
– 6 sessioni, di cui 3 orali.
I dati di maggiore impatto sulle scelte terapeutiche, con riferimento a quei trattamenti già fruibili in Italia o che utilizzano farmaci in commercio con modalità non autorizzate, sono qui riassunti:
1) Farmaci già utilizzabili in Italia
Ibrutinib
LLC recidivata/refrattaria
E’ stato presentato un aggiornamento a 5 anni degli esiti dei trial che avevano arruolato pazienti recidivati/refrattari (O’Brien abs #233). Nella Tabella I sono riassunti i principali dati a 5 anni, in confronto con i dati degli stessi pazienti con follow-up a 3 anni (Byrd, Blood 2015).
Tabella I
E’ evidente il perdurare dell’efficacia di questo farmaco in una frazione significativa di pazienti con caratteristiche prognostiche spesso altamente sfavorevoli (30% ancora in terapia).
Si sono osservati tra il 4° ed il 5° anno, progressioni ed eventi avversi severi che hanno comportato la sospensione del trattamento rispettivamente nel 5% e nell’8% dei pazienti.
Idelalisib
Un’analisi post hoc dei pazienti arruolati nello studio registrativo dedicato a pazienti con LLC recidivata/refrattaria (età media di 71 anni) ha dimostrato come l’associazione idelalisib e rituximab sia in grado di abbattere il significato prognostico sfavorevole del cariotipo complesso (Figura I). Con un tempo di osservazione mediano di 21,4 mesi, la PFS nei pazienti con cariotipo complesso risultava pari a 20,9 mesi, rispetto a 19,4 mesi nei pazienti senza cariotipo complesso (Kreuzer abs #192).
Figura I
In un’analisi (Sehn abs #3705) dell’incidenza di infezioni polmonari da Pneumocystis jirovecii (PJP), che ha preso in esame 2198 pazienti arruolati in vari trial nei quali idelalisb era impiegato come agente singolo, o associato ad anti CD20+/- bendamustina, è emerso un lieve aumento del rischio di PJP, che può essere abbattuto del 60% mediante l’impiego di profilassi con cotrimoxazolo.
Venetoclax
Un dato molto interessante per le evidenti ricadute nella pratica clinica odierna è quello presentato da Jones et al (abs #637) che ha descritto l’efficacia e la sicurezza, in uno studio prospettico di fase 2, dell’inibitore di BCL2 venetoclax in 64 pazienti che avevano dovuto sospendere ibrutinib (n. 43) o idelalisib (n. 21) per progressione o tossicità.
Di seguito nella Tabella II i dati relativi alle risposte ottenute.
Tabella II
La sopravvivenza libera da progressione stimata a 12 mesi era del 72%.
Nonostante il follow-up ancora breve, questi risultati sono molto incoraggianti, tenuto conto della fase avanzata di malattia e dell’assenza di valide alternative terapeutiche dei pazienti arruolati in questa analisi.
In questo contesto è interessante riportare l’efficacia di venetoclax come salvataggio dopo fallimento di ibrutinib, con risposte nel 79% dei pazienti (n. 65) nello studio retrospettivo presentato da Mato (poster #4400).
L’efficacia e la tollerabilità di venetoclax +/- rituximab nella LLC recidivata/refrattaria è stata presentata da Roberts nel poster #3230.
Di seguito nella Tabella III i principali dati.
Tabella III
Venetoclax si è caratterizzato in questa analisi come un farmaco efficace, in particolare quando associato a rituximab (associazione non ancora registrata), in grado di produrre un 22% di risposte complete (RC) come agente singolo e un 51% di RC in associazione a rituximab.
Dato di grande interesse è quello relativo all’ottenimento di una negativizzazione della MRD in 44/207 (21%) pazienti analizzati (12% dei pazienti con 17p-), dato ottenuto a partire da una popolazione totale di 387 pazienti trattati.
Obinutuzumab
Estenfelder ha descritto a nome del GCLLSG (poster #3227) il potere predittivo del profilo di mutazioni geniche in 689 (88,2%) pazienti arruolati nel protocollo CLL11. Sono stati studiati i seguenti geni: TP53, ATM, MYD88, FBXW7, BIRC3, XPO1, POT1 NOTCH1, SF3B1.
Obinutuzumab in aggiunta al clorambucile ha migliorato la PFS rispetto a quanto osservato nei pazienti trattati con rituximab e clorambucile in tutti i sottogruppi “genetici” studiati, con l’esclusione di un piccolo sottogruppo (26 pazienti in totale) pazienti con mutazioni FBXW7.
Un’osservazione interessante è rappresentata dal fatto che la presenza di mutazioni di NOTCH1 (che in precedenti studi si associavano ad una minore sensibilità alla terapia con anti CD20 rituximab e ofatumumab) si associava (Figura II) ad una ridotta PFS solo nel braccio rituximab+clorambucile (HR 1,42, p=0,03), ma non nel braccio obinutuzumab + clorambucile (HR 1,08, p=0,697).
Figura II
1) Scenari di trattamento non ancora utilizzabili in Italia
Ibrutinib in prima linea
Sono stati presentati i dati aggiornati a 28 mesi del trial registrativo Resonate-2 che aveva arruolato pazienti anziani (eta ≥65 anni) non precedentemente trattati (prima linea), in un confronto testa a testa con il clorambucile somministrato come agente singolo (Barr abs #234).
I dati di efficacia a 28 mesi, molto buoni, sono riprodotti nella Figura III, che confronta la % di pazienti in remissione completa, liberi da progressione, sopravviventi e in trattamento a 18 e a 28 mesi.
Figura III
La terapia è risultata ben tollerata in questa popolazione di pazienti che presentava comorbidità (CIRS >6) e/o ridotta funzione renale (clearance della creatinina <70 ml/min) in 2/3 circa dei casi.
Da segnalare i seguenti eventi avversi
- fibrillazione atriale (FA) (10% dei pazienti)
- infezioni polmonari di grado 3 (7%)
- emorragie maggiori (7%)
- ipertensione di grado 3 (5%).
In un poster presentato da Thompson (abs #3242) è stata riportata un’elevata % di pazienti (39%) trattati nella pratica clinica (in prevalenza si trattava di pazienti recidivati/refrattari), che hanno dovuto sospendere definitivamente ibrutinib dopo lo sviluppo di FA. Diverso invece il risultato riportato dai ricercatori della Ohio State University (Wiczer poster #2040) che hanno dovuto sospendere il trattamento con ibrutinib in solo il 7% di 72 pazienti che avevano sviluppato FA. In questa analisi, l’8% dei 71 pazienti con FA ha sviluppato almeno un episodio di sanguinamento maggiore.
Appaiono quindi necessarie linee guida condivise sul trattamento delle FA in corso di trattamento con ibrutinib.
Idelalisib in combinazione con bendamustina e rituximab (BR)
E’ stato presentato da Zelenetz (abs #231) un aggiornamento dello studio di fase 3 che ha paragonato l’efficacia e la sicurezza della combinazione bendamustina e rituximab con e senza idelalisib in 461 pazienti con LLC recidivata/refrattaria con caratteristiche sfavorevoli.
Con un tempo mediano di osservazione pari a 21 mesi è emerso un vantaggio statisticamente significativo in termini di sopravvivenza, come si evince dalla Figura IV sottoriportata (mediana non raggiunta, rispetto a 43 mesi nel braccio di controllo BR, HR 0,67; IC 0,47-0,96). Sessantacinque/207 pazienti (31,5%) erano ancora in terapia con idelalisib.
Figura IV
Venetoclax
E’ già stata descritta sopra l’efficacia di venetoclax associato al rituximab nella LLC recidivata/refrattaria [risposte complete (RC) nel 51% di 49 pazienti].
Sono stati descritti da Brander nel poster #2054 i dati di sicurezza ed efficacia della fase “run-in” del protocollo CLL14 del GCLLSG che arruolava pazienti con comorbidità (età mediana 75 anni) sottoposti a trattamento con clorambucile ed obinutuzumab o venetoclax e obinutuzumab.
Venetoclax in combinazione a obinutuzumab produceva una RC in 7/12 pazienti, con negativizzazione della MRD su sangue periferico in 10 pazienti. La terapia era ben tollerata, con un solo paziente che ha sviluppato reazione infusionale severa alla prima somministrazione e ha dovuto sospendere il trattamento, come previsto dal protocollo. Non sono stati riportati casi di sindrome da lisi tumorale clinicamente manifesta.
Mantenimento della risposta con lenalidomide
Schuh ha presentato i risultati (abs #230) dello studio randomizzato di fase 3 CONTINUUM che introduceva la lenalidomide (vs placebo) come mantenimento nei pazienti con LLC recidivata/refrattaria che avevano ottenuto una risposta al trattamento di induzione.
Centosessanta pazienti arruolati nel braccio di mantenimento con lenalidomide hanno mostrato una sopravvivenza libera da progressione pari a 33,9 mesi (follow-up mediano di 31,5 mesi) rispetto a 9 mesi del braccio placebo (P < 0,001). Anche la PFS 2 risultava a vantaggio del braccio con lenalidomide (57,5 mesi vs 32,7 mesi) (P < 0,001), anche se occorre considerare che la terapia alla progressione utilizzava le nuove terapie con ibrutinib o idelalisib in una minoranza dei casi. Non si osservava invece alcuna differenza sulla sopravvivenza globale
I pazienti che assumevano lenalidomide mostravano più frequentemente neutropenia di grado 3 (59,9% vs 22,7%), piastrinopenia (16,6% vs 6,5%) e diarrea (8,3% vs 0,6%). Non si osservava invece un aumento dell’incidenza di seconde neoplasie.
Fink ha presentato a nome del GCLLSG (abs #229) i risultati dello studio randomizzato CLL M1 che confrontava il mantenimento con lenalidomide vs placebo in proporzione 2:1 nei pazienti al alto rischio di recidiva, i.e. quei pazienti che ottenevano, dopo almeno 4 cicli di chemioimmunoterapia di prima linea, una risposta con malattia minima residua positiva o che avevano un profilo mutazionale del gene IGHV non mutato, oppure 17p- e/o mutazione di TP53.
I dati, ancorché riferiti ad un numero di soli 89 pazienti (60 nel braccio lenalidomide), hanno documentato un evidente vantaggio in termini di PFS (Figura V).
Figura V
Anche in questo studio, il trattamento con lenalidomide si associava ad un incremento dei casi di neutropenia (30,4% vs 3,4%) e di disturbi gastrointestinali (55,4% vs 27,6%).
A cura di:
Professore Ordinario di Ematologia, Università degli Studi di Ferrara